Hubner, Calcutta, e la felicità nelle piccole cose

C’è chi quel mondo calcistico che ha perso per un pelo, o che forse in quegli anni era semplicemente troppo piccolo per capire del tutto, impara a conoscerlo attraverso i quadratini sgranati di un video pescato tra i meandri più oscuri di YouTube, a risoluzione quantomeno discutibile.

Vivacizzato, con la succinta e imbalsamata professionalità che contraddistingue ogni servizio calcistico marchiato Rai, non importa l’anno, da Marco Civoli. “The Voice” del trionfo Azzurro ai Mondiali del 2006 per i poveracci che non potevano permettersi Sky e i monologhi tanto deliranti quanto azzeccati di inizio partita targati Caressa-Bergomi.

Campionato di Serie A 1997-1998. 31 Agosto. Prima giornata. In un soleggiato e “pixellato” San Siro l’Inter di Gigi Simoni affronta la neopromossa Brescia. “Il proscenio” parafrasando Civoli, è tutto per Ronaldo Luìs Nazário de Lima, noto ai più semplicemente come Ronaldo (tranne a Civoli, che inspiegabilmente lo chiama “Ronaldinho”). Il Fenomeno è appena passato in nerazzurro per una cifra record, la più alta nella storia del calcio fino a quel momento: 51 miliardi complessivi di lire (equivalenti, secondo un recente studio e tenendo anche conto dell’inflazione, a 433 milioni di euro… sempre per il discorso di chi un certo mondo lo ha perso per un pelo.)

Il Brescia, tornato in A dopo due stagioni sembra la perfetta vittima sacrificale per regalare ai 62.000 accorsi al Meazza un primo assaggio delle magie del Fenomeno e un sereno pomeriggio calcistico, rotto, la mattina successiva dalla notizia della morte della Principessa Diana a Parigi.

Nell’undici iniziale delle Rondinelle figurano ben otto esordienti nella massima serie. Cervone, il portiere, si è unito alla squadra solo venerdì.
E invece, nella più romantica prospettiva di cui si possa colorare una partita di calcio, il Brescia/Davide tiene botta all’Inter/Golia. L’ossatura della squadra che l’anno precedente ha stravinto il campionato di serie B vacilla, come la traversa colpita da Ronaldo su punizione sotto la Curva Nord, ma tiene lo 0-0.
Finché, al ventisettesimo minuto del secondo tempo, un giovane diciannovenne con il 21 sulle spalle di cui già allora si diceva un gran bene, Andrea Pirlo, disegna una parabola che sembra calibrata con il compasso, e fa terminare la corsa del pallone sul ginocchio di Dario Hubner, spalle alla porta, esordiente in Serie A alla veneranda età di 30 anni, dopo anni di gavetta e vagonate di goal nelle serie minori. “Tatanka” addomestica il pallone, si gira in un fazzoletto, nella più assurda delle contraddizioni vista la sua imponente stazza, e con la precisione di un chirurgo e la flemma di un veterano, spedisce il pallone all’incrocio dei pali per il vantaggio bresciano.

Sembra l’inizio di una delle più belle storie a lieto fine. Ma non è così, almeno in parte. Altrimenti, forse, non saremmo qui, dopo tanti anni, a cercare di riacciuffare quel calcio così umano e vicino alle nostre stesse vicissitudini, alle nostre vittorie e alle nostre cadute. Ai nostri dubbi, di cui la carriera di Hubner è il perfetto specchio.
Perché alla fine di quella partita a rubare la scena sarà un altro esordiente. Un giovane uruguaiano con una buona dose di incoscienza in corpo e un mancino da fare paura. “El Chino” Recoba segnerà due goal, regalando i tre punti all’Inter. Il Brescia quell’anno retrocederà, nonostante Hubner segni 16 goal.

Due anni più tardi, dopo avere riportato le Rondinelle nella massima serie e, in coppia con Roberto Baggio, averle condotte alla conquista della qualificazione per la Coppa Intertoto, Hubner decide di lasciare Brescia.

Su di lui piombano le sirene dei club inglesi della Premier League. Un calcio, già allora, prestigioso e senza dubbio redditizio, anche dal punto di vista economico. “Tatanka” invece sceglie ancora la provincia, e il neopromosso Piacenza. Quando gli chiedono perché, risponde che così sarebbe stato più vicino a Crema, dove viveva sua moglie.
Perché in fondo “Venezia (o la Premier League) è bella”, ma come forse avrebbe detto Hubner stesso, “non è il mio mare.”

Inizia così la settima traccia di “Evergreen”, il terzo album inciso da Edoardo D’Erme, in arte Calcutta, intitolata proprio “Hubner”, e dedicata all’unico giocatore, insieme ad Igor Protti, capace di vincere la classifica dei cannonieri rispettivamente di Serie C1, Serie B, e Serie A.

Con alle spalle la voce dell’amica, e tifosa sfegatata juventina, Francesca Michielin, Calcutta si chiede, con la voce rotta da mille pensieri, se in questa vita, qualche volta, non sia meglio “fare come Dario Hubner”.

Siamo tutti un po’ Dario Hubner, perché Dario Hubner può essere uno di noi. Perché, calciatori, calciatrici, o qualsiasi altra strada si prenda, la vita ci mette di fronte a scelte importanti, difficili, che ci mandano in crisi.

E non siamo i cyborg che calcano i campi di calcio ai giorni nostri. Non siamo i Cristiano Ronaldo, con il fisico scolpito e i capelli sempre in ordine. Siamo più gli Hubner, un po’ ingobbito, che tra primo e secondo tempo non disdegnava una sigaretta. Non siamo i Cristiano Ronaldo, abituato a vincere sempre, così tanto da indignarsi quando non accade. Siamo più gli Hubner, che riesce a rovinare l’esordio di Ronaldo il Fenomeno e nonostante ciò si ritrova la scena rubata da un giovane fino a quel momento sconosciuto.

E proprio perché siamo un po’ Dario Hubner, forse dovremmo fare come Dario Hubner. Trovare la felicità nelle piccole cose, così vicine a noi, un po’ nervose perché le ignoriamo. Lasciate troppo spesso sole a “consumare le unghie.”
Dovremmo fare come Dario Hubner, un po’ più sgranati, un po’ più contenti.