MASCHIO Humberto: l’Angelo della regia

Humberto Dionisio Maschio (Avellaneda, 20 febbraio 1933) aveva cominciato la carriera nell’Arsenal di Lavallol, passando ben presto al più quotato Quilmes, col quale vinse il campionato cadetto argentino nel 1953, giocando di punta e segnando ben 26 reti. L’exploit lo fa notare dalla celebre “Academia del futbol”, vale a dire la squadra della sua città natale, il Racing di Avellaneda, della quale diventa ben presto l’elemento chiave del centrocampo: è dotato di tecnica sopraffina ed ha un’innata capacità di amministrare saggiamente il gioco, indirizzando precisi palloni verso i compagni d’attacco, senza perdere il fiuto del gol che lo fa diventare vicecannoniere del campionato nel 1955, con 18 gol.

Ma è con la maglia della Nazionale argentina che assurge alla gloria internazionale, trascinando l’albiceleste al trionfo nella Coppa America del 1957 a suon di gol (9, capocannoniere del torneo alla pari con l’uruguagio Ambrois), insieme agli altri due componenti del famoso trio degli angeles da la cara sucia (gli angeli dalla faccia sporca) Angelillo e Sivori

Una simile nidiata di talenti non poteva lasciare indifferenti i grandi club del nostro Paese, che prontamente avevano sguinzagliato osservatori per mezzo Sudamerica. Il calcio platense, allora, dava sì da vivere, ma i guadagni dei giocatori argentini non erano assolutamente paragonabili a quelli dei loro colleghi in Italia. Davanti alle offerte delle nostre società, nessuno fu in grado di opporre resistenza: i tre micidiali “angeli” presero il volo in blocco per il nostro Paese. A spuntarla su Maschio fu appunto il Bologna del commendator Dall’Ara, con un blitz eseguito dal fido Sansone, che ingaggiò il funambolico regista nel 1957, per la bellezza di ottanta milioni di lire.

Sotto le Due Torri l’arrivo del sudamericano risvegliò antichi entusiasmi. Una formazione che poteva annoverare anche talenti come Vukas, Pivatelli, Cervellati e Pascutti faceva sognare. A sorpresa, nonostante un brillante precampionato (storico il 6-1 alla Juve), la squadra allenata da Bencic tradì le attese. E la più grande delusione fu rappresentata proprio da Maschio, soltanto l’ombra del fenomeno che aveva illuminato l’Argentina. Il giocatore accusò problemi di adattamento sia in campo che fuori. Per la verità, sotto i portici si sussurava che il sudamericano apprezzasse oltremodo le delizie offerte dal capoluogo emiliano e che le gambe molli fossero dovute alle troppe notti insonni.

Che Bologna offrisse molti svaghi era cosa risaputa, ma è vero anche che Maschio fu troppo spesso fatto giocare fuori ruolo, come sfondatore d’area. Figurarsi. Il buon Humberto era un artista della sfera, e le sue gambe non potevano certo rincorrere il pallone per novanta minuti filati. E proprio questo non andò giù al raffinato pubblico petroniano, che già contestava il generosissimo Pascutti, accusato (non a torto) di avere il tocco troppo ruvido; immaginatevi cosa si poteva dire di uno che reggeva a malapena mezz’ora, senza mai incidere veramente sull’andamento dell’incontro.

Non meglio andò la prova d’appello concessagli dalla dirigenza. Anche nel 1958-59 Maschio deluse, lasciando intravedere solo a sprazzi il suo immenso talento. In una delle rare giornate di grazia, durante un Juventus-Bologna, il presidente dell’Atalanta Tentorio, presente in tribuna, si innamorò a prima vista di quel sudamericano così atipico, dal tocco fine ma di grande sostanza. Così a fine torneo il club bergamasco, bisognoso di una mezzala, riuscì a strappare (senza troppa fatica) il giocatore al Bologna.

In Lombardia Humberto Maschio trovò un ambiente consono al proprio carattere: gli obiettivi erano più modesti, ma il pubblico, meno esigente, lasciava lavorare la squadra senza eccessive pressioni. Finalmente schierato nel suo ruolo naturale, l’argentino cominciò lentamente a ritrovare se stesso. Come d’incanto, rifiorì un campione. Perfetto nel calibrare palloni per i compagni, implacabile realizzatore su calci piazzati, correttissimo in campo, divenne l’idolo di un’intera città.

A Bergamo rimase per tre campionati, pieni di soddisfazioni. Nel 1962, addirittura, in virtù delle sue origini lombarde, partecipò alla sfortunata spedizione azzurra in Cile. Che al generoso Humberto costò assai caro: in una rissa scoppiata durante il match contro i padroni di casa, rimediò un diretto al volto dal terzino avversario Lionel Sanchez, che gli procurò la frattura del setto nasale. Di ritorno da quell’amaro mondiale, trovò pronta per sé una nuova maglia, sempre nerazzurra: quella dell’Inter di Herrera.

La squadra del mago era però costruita attorno al grande Luisito Suarez; Maschio era un “regalo” che il presidente Moratti aveva voluto fare al proprio tecnico e raccolse ben poca gloria. Così nel 1963 l’oriundo col naso da pugile fu acquistato dalla Fiorentina. I viola, in declino dopo la conquista del primo tricolore, stavano faticosamente cercando di assemblare una formazione competitiva. Come regista fu scelto appunto l’argentino, appoggiato dall’incostante cavallo di ritorno Lojacono, mentre l’unica vera punta era Hamrin. Per gli avversari fu facile prendere le misure ai viola, una volta scoperto l’asse Maschio-Hamrin. Neutralizzato il finalizzatore, la Fiorentina si trovava spesso in grosse difficoltà.

Dopo un avvio di stagione promettente, bastarono alcuni scivoloni e il tecnico Valcareggi fu sostituito dall’inossidabile Chiappella. I viola avrebbero concluso il campionato al quarto posto, alternando prestazioni esaltanti, come il 7-1 rifilato all’Atalanta sul proprio campo con cinque reti di Hamrin, ad altre assai deludenti. Nonostante la stagione non formidabile e la non più verde età, Maschio si guadagnò la conferma per la stagione successiva, che vide un importante cambio al vertice della società, con la nomina a presidente del commendator Nello Baglini.

Gli indovinati innesti di Morrone e Orlando diedero maggior spazio alla manovra e la stella di Maschio ricomincò a splendere come ai tempi dei “tre angeli”. Non soltanto passaggi millimetrici per i due prolifici avanti, ma anche un bel numero di realizzazioni personali. Nonostante questo, Humberto Maschio sarebbe sempre rimasto “l’oriundo triste”, troppo nostalgico della propria vera patria e del calcio-divertimento. Il catenaccio praticato da certe squadre, anche dopo tanti anni, non gli andava proprio giù.

Sul finire del 1965, con un velo di amarezza e dopo due sole presenze nella sua terza esperienza in viola, cede alle insistenti richieste dell’allenatore argentino Pizzuti e torna al Racing, dove raggiunto con caparbietà uno stato di forma accettabile vince subito il campionato e nell’anno successivo anche la coppa Libertadores e la coppa Intercontinentale, chiudendo la carriera a 35 anni, nel 1968. Da allenatore dirige il suo Racing, l’Independiente e per un breve periodo anche la selecciòn argentina.

tratto dall’articolo di Luca Mastri pubblicato sul sito Federossoblù