I boss e l’attrazione (irresistibile) per il pallone

A corredo di questo post troverete la solita foto: Diego Armando Maradona che sorride e brinda con i fratelli Giuliano sullo sfondo della loro sobria vasca da bagno a forma di conchiglia.
Quello scatto fu ritrovato durante una perquisizione, avvenuta la notte del 26 febbraio 1986, ma divenne pubblico solo alcuni mesi dopo. Il Napoli stava marciando sul suo primo scudetto, al San Paolo non c’era posto neppure per uno spillo. Ugo Toscano, il questore di allora, disse che non poteva prendere alcun provvedimento nei confronti del Pibe de oro, pena una rivolta popolare. La logica conseguenza di questa scelta fu la festa per la vittoria del campionato, che ebbe il suo apice proprio a Forcella, sotto alla casa di Luigino Giuliano, «O’ re» della camorra, che dispensava benedizioni alla folla plaudente.

Così, a causa delle sue frequentazioni, il più grande calciatore di tutti i tempi divenne anche una sorta di testimonianza vivente dei legami fra la camorra e il mondo del calcio, anche se lo stupore per il disvelamento di un segreto noto a tutti era un palese segno di cattiva coscienza.

Nell’ottobre del 1980 il leggendario presidente dell’Avellino Luigi Sibilla avanzò con passo solenne nell’aula bunker di Napoli, scortato dal gioiello della squadra rivelazione del campionato, Jorge dos Santos Filho detto Juary, già popolarissimo per i gol festeggiati danzando intorno alla bandierina. Durante una pausa del processo, si avvicinò alla gabbia degli imputati, e salutò una persona con tre baci sulla guancia. Poi gli fece consegnare dal suo centravanti una medaglia d’oro massiccio con dedica. «A Raffaele Cutolo, dall’Avellino calcio».

Erano tempi feroci e naif, quegli anni Ottanta. I boss uccidevano e facevano uccidere, e intanto reclamavano la presenza dei calciatori alle loro feste, per dimostrare in questo modo potenza e prestigio. Ma i segni di un interesse non certo riconducibile allo sfoggio narcisistico erano già evidenti. Nel 1986 avvenne il primo e unico caso di una squadra sciolta per infiltrazioni camorristiche, e cinque presidenti di società semi-professionistiche furono arrestati con l’accusa di essere alle dipendenze dei clan.

Nel tempo la situazione non è migliorata, la promiscuità è diventata persino più evidente, per chi la vuole vedere. «Non sai mai con chi prendi il cappuccino al bar». Fu questa la risposta di Giorgio Chinaglia alla domande dei magistrati che gli chiedevano conto della sua scalata alla Lazio. Era il 2004, l’ex centravanti voleva rilevare la sua squadra presentando una fideiussione da 24 milioni di euro. Si scoprì che dietro c’era il clan dei Casalesi, desideroso di entrare dalla porta principale nel business dà calcio. Il grande colpo non andò in porto, ma la strada era segnata. Una questione imprenditoriale, non più di rappresentanza. «Dottò, il calcio è marcio, molte partite vengono truccate grazie ai rapporti tra famiglie e gente dello sport che combinano i risultati sul campo e lo fanno sapere in anticipo…». Questa dichiarazione, che potrebbe essere la plastica sintesi dei sospetti in circolo oggi sul nostro campionato, risale proprio al 2004.

A parlare è Guglielmo Giuliano, ex boss della camorra, pentito insieme al fratello Luigi. Nella celebre foto erano i due sorrisi accanto a quello di Maradona. Le loro dichiarazioni appaiono nel faldone dell’inchiesta napoletana che vide coinvolti alcuni calciatori di serie A. I magistrati indagavano su un intreccio di camorristi, politici, faccendieri e imprenditori sospettati di aggiustare processi. Si ritrovarono immersi in un mare di conversazioni a sfondo calcistico, per un’inchiesta che oggi è considerata come antesignana di quella di Cremona del 2011. Dove, tra molti altri dettagli non edificanti, è stata trasmessa agli atti anche un’altra foto napoletana, quella del boss latitante Antonio Lo Russo che da bordo campo assiste alla sconfitta del Napoli contro il Parma.

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Forse la verità è semplice. Se a certe latitudini i clan sono dappertutto, non possono che mischiarsi a vario titolo con il calcio. «La camorra c’è sempre stata, e sempre ci sarà, perché con la camorra la gente mangia». Marco Borriello, attaccante ex di Roma,Milan e Juventus, nato e cresciuto a Napoli, sa di cosa parla. L’ha provato sulla sua pelle, il padre Vittorio, detto «Biberon», prestava soldi alla gente di un quartiere controllato dal clan Mazzarella. Il 22 novembre 1993 sparì nel nulla. Sei anni più tardi il pentito Pasquale Centore, titolare di un patrimonio da cento milioni di euro accumulato trafficando con i narcos colombiani, raccontò di averlo ucciso, il corpo venne seppellito sotto la sua villa.