Luglio 1984: i giorni di Maradona

5 luglio 1984, una data storica: Maradona sbarca a Napoli. E’ l’arrivo del Messia del calcio, colui che porterà lo scudetto nel Golfo. Uno stadio intero solo per lui in trepidante attesa. Ecco una splendida cronaca di quei giorni.


Un sorriso, come un lampo di gioia, s’è fermato sulla faccia della città. Un grido, per troppo tempo soffocato nella gola del Vesuvio, s’è liberato, ininterrotto e assordante, a dar corpo ad un impeto di irrefrenabile felicità. Il respiro di Napoli, convulso talvolta come il traffico che l’ingorga, affannoso talaltra come la fatica d’attraccare il vivere quotidiano, ondeggia, s’invola nel cielo che fa tutt’uno col mare di perla, sussurra e poi urla spasmodico nei giorni che il calcio consegna alla storia. Sotto un sole che non riesce a diventare abitudine, che percorre impassibile la piana lacerata di Bagnoli e i tumulti di verde di Posillipo, il lungomare assordante di motori fino a Castel dell’Ovo per perdersi in lontananza ove s’azzurra di foschia lungo la costiera, Napoli vive la festa interminabile dei giorni di luglio.

Esplode senza soluzioni di continuità negli accecanti bagliori d’una felice follia collettiva, nei giorni che rincorrono i giorni sotto il segno argentino di Diego Armando Maradona. Ai cronisti che vengono da lontano, magari dall’Europa o dal Giappone (ce n’era più d’uno), a consumare l’abusato rituale delle note «di costume», o a perforare la logora scheda dell’irrisione o dell’indignazione preconcetta per una folla capace di dimenticare e dimenticarsi nel nome del calcio, la città si offre senza remore, disponibile come sempre a mostrare il suo fertile grembo di madre d’uomini e cose che al mondo non trovano uguali.

Dal ventre sempre fertile di un continente che ha per confini il Vesuvio e le mille increspature che sciabordano nel mare della fantasia, sono nate come per germinazione spontanea (partenogenesi partenopea, la chiamava lo scrittore Raffaele La Capria), in pochi giorni convulsi e festanti, le mille chiavi d’accesso all’anima autentica di questa gente capace come nessun’altra al mondo di vincere con niente la scommessa quotidiana della sopravvivenza: poster di Maradona, accendini con l’effigie di Maradona, magliette con la faccia di Maradona ostentata come in altra epoca quella del «Che» Guevara, berretti e sciarpe inneggianti a Maradona, le bandiere azzurre col volto del pibe de oro, minuscoli giochi per bambini intitolati al campione.

I riccioli di Dieguito sono stati stampati (chissà come, chissà dove: partenogenesi partenopea) ovunque, gli occhi ridenti di Dieguito, riprodotti in gran parte da foto del Guerino, ammiccano dappertutto. Qualcuno ha anche pensato di effigiare gli inconfondibili connotati del fuoriclasse argentino sulle caviglie di un nuovo modello di calze, da lanciare con lo slogan: «Maradona ai piedi dei napoletani».

L’estro di Piedigrotta è un fuoco che crepita e arde ovunque sotto il sole: vanno a ruba le cassette registrate con i due motivi che fan da colonna sonora all’estate sotto il Vesuvio, l’«Inno a Maradona» e il «Tango de Maradona». Si vendono sulle automobili, su banchetti improvvisati, ovunque per strada: «Seimila la cassetta originale, quattromila la falsa», invita il venditore. E non è una presa in giro: le note sono accattivanti, il ritornello esprime gioia malinconica, complesso e cantante anonimi eseguono impeccabilmente: dopo pochi giorni dalle prime notizie sul possibile grande arrivo le cassette erano già pronte, riprodotte in serie a migliaia; se ne sono vendute quasi ventimila in due settimane. Maradona è la parola d’ordine d’una intera città.

Come sollevati magicamente dalla crosta della terra, ovunque sono fioriti gli striscioni: «Maradona, sei l’unica luce nel buio di questa città», «Forcella ringrazia Juliano e Ferlaino per averci dato il n. 1 al mondo», «Maradona, al tuo arrivo Forcella gioisce», «Napoli tre cose tiene belle: o’ mare, a’ pizza e Maradona» e così via, in un tumulto di colori azzurri, di centinaia di metri di tela trovati e stampati chissà come e chissà dove.

Al ristorante «Il sarago», a Mergellina, un display elettronico lampeggia per i clienti i piatti del giorno: «Linguine alla Maradona, tagliatelle alla Juliano, fettuccine alla Ferlaino, fusilli alla Marchesi», mentre le pizzerie di Fuorigrotta già hanno ideato la ricetta per la novità della tavola partenopea: la «pizza alla Maradona». Il clan dell’asso argentino, abituato negli altri Paesi ad una gestione economica manageriale e capillare dell’immagine del campione, è costretto a prendere atto con crescente incredulità.

Nel bel mezzo della festa-Maradona, che fa di Napoli una intricata foresta vergine, si snoda nel corso di una frenetica tre giorni, dal 3 al 5 luglio, la tortuosa vicenda del grande arrivo. lì primo annuncio, da un’idea del capotifoso Crescenzo Chiummariello, contempla la discesa dell’asso argentino dal cielo, complice un elicottero, come manna a piovere planando sul campo del San Paolo. E’ un’idea suggestiva, un modo altamente spettacolare per risolvere il problema del trasferimento allo stadio per la presentazione evitando il soffocante abbraccio della folla. La società, però, nicchia. La società, nei giorni agitati che vedono Ferlaino e Juliano ancora impegnati a Milanofiori a far grande il Napoli al mercato, è tutta quanta sulle spaile di Carletto Juliano, l’addetto stampa travolto da un insolito destino di cose grandi e difficilmente controllabili.

Comincia così la tarantella del mistero. «L’elicottero? — annuncia con aria grave martedì 3 lo stesso Carlo Juliano — è una delle ipotesi che stiamo seguendo. Le altre sono segrete». Il nino de oro doveva presentarsi martedì, poi mercoledì, infine il rinvio, all’ultimo istante, a giovedì 5 luglio. Ufficialmente i problemi all’origine di tante difficoltà stanno nel «transfert» che l’Argentinos Juniors. il primo club di Dieguito, si ostina a rifiutare nell’attesa di vedere onorato il cospicuo debito che ancora vanta nei confronti del Barcellona. Guillermo Bianco, l’addetto stampa della «Maradona productions» è evasivo, non sa molto nemmeno lui: si vocifera di contrasti, sorti tra la società e il clan argentino, sulla cifra (50 milioni) che il Napoli chiede alle tivù, pubbliche e private, per consentire la ripresa integrale dell’avvenimento.

Poi, finalmente, mercoledì alle 14,05, Maradona tocca il suolo italiano, a Fiumicino, proveniente da Barcellona. Ancora una volta la società è impietosa, decide di giocare a rimpiattino, dice e non dice, mantiene assurdi segreti sul programma, sembra un affare di Stato: arduo è il correre dei cronisti d’ogni Paese per le mille piste che s’indovinano e s’incrociano tra la città, il mare e Capri. Finisce che il Napoli calcio vince la sua inspiegabile battaglia: il blitz per le visite mediche al San Paolo, poi quello alla sede e infine il trasferimento a Capri per la cena dell’idolo argentino rimangono fuori dell’obiettivo famelico dei fotografi e a malapena s’intrufolano nei taccuini dei giornalisti. È il sintomo di una organizzazione fragile, che vacilla paurosamente sotto il peso di una vicenda che assume contorni quasi grotteschi. Così anche la grande cerimonia della presentazione trascura lo spettacolo (l’elicottero è stato scartato, pare, per motivi di sicurezza) e si tuffa nella confusione e nel pressappochismo.

E dire che cinquantamila napoletani hanno pagato un simbolico biglietto (imposto dalle autorità di polizia per motivi di ordine pubblico, con incasso devoluto in beneficenza), con tanto di immancabile tributo al gran Moloch di un bagarinaggio esteso come nelle grandi occasioni. Prima c’è la conferenza stampa-sauna in una palestra sotterranea degli spogliatoi, con giornalisti, operatori e fotografi ammassati uno sull’altro in un torrido viluppo di flash, sudore e caldo soffocante. «Non so se ho parenti in Italia — risponde sorridente alle prime domande il pibe de oro con la traduzione di José Alberti, ex calciatore e amico personale del campione — Se dipendesse da me i bambini entrerebbero gratis allo stadio: e dico sin d’ora che per i bambini bisognosi di Napoli io sono a disposizione. Non ho niente contro spagnoli e catalani — prosegue nel suo primo, storico discorso italiano — qualche disavventura, se così si può chiamare, l’ho avuta solo con qualche dirigente. Calcio duro? Non so se quello spagnolo sia il più violento, certo è durissimo, ci sono molti gravi infortuni, gli arbitri consentono queste durezze ed è un peccato. Quanto ai vari contratti, io mi sento un calciatore a tutti gli effetti e a tempo pieno; a tutto quanto non riguarda strettamente il pallone pensa Jorge Cysterszpiller. Se ho un’idea del mio ingaggio? La stessa che ne avete voi. Differenze tra il calcio argentino, spagnolo e italiano? Io gioco sempre alla stessa maniera, non cambierò le mie abitudini; molto dipenderà da quelli che giocheranno assieme a me, nel bene e nel male. La trattativa per il mio trasferimento è stata lunga e tutti noi ne abbiamo sofferto e risentito, poiché l’abbiamo seguita passo passo. Claudia? È una amica. Di matrimonio non so ancora niente, ma se mi sposerò lo farò a Napoli».

È tutto; dopo poco esce fuori a seppellirsi sotto l’urlo incredibile d’una folla incredibile. L’addetto stampa, un attimo prima, tuona stentoreo dall’altoparlante: «Sportivi napoletani, oggi che il mondo ci guarda, cerchiamo di essere correttissimi». Non è l’ora delle decisioni irrevocabili, né d’altronde l’invito appare indispensabile, dato che sugli spalti la disciplina, pur nell’esplosione incontenibile di tifo e affetto, è completa e inattaccabile. In campo invece batte l’ora del caos: Diego esce dal sottopassaggio sommerso dall’assedio di fotografi, dirigenti, addetti, forza pubblica. Si prende paura, torna giù, poi risale, mentre l’urlo del San Paolo e di tutta Napoli si leva altissimo al cielo; è un rombo impressionante, una incitazione continua a tutta gola che durerà ininterrotta fino alla fine. Per un po’ gridano sulla fiducia: Dieguito è sovrastato dai tanti che gli stanno attorno, non si riesce a vederlo. La gente allora è un unico coro: «Fuori, fuori»: via dalla pazza folla, che i ricci argentini appaiano finalmente al tifo e al cuore di Napoli. La confusione è al diapason, due fotografi vengono addentati dai cani della forza pubblica, il mucchio selvaggio con al centro, invisibile dagli spalti, il campione, ondeggia paurosamente.

E finalmente il pibe rompe l’assedio, infrange il cerimoniale, parte di corsa per un giro di pista al piccolo trotto in mezzo alla bolgia sonora che lo copre e quasi vorrebbe rapirlo. Un ragazzino di ventitré anni e mezzo dal sorriso velato di malinconia è laggiù, minuscolo e riccioluto, epicentro finalmente visibile di una intera inarrestabile sommossa d’ovazioni. Manda baci e saluti, fa il segno della vittoria, pare ammiccare con una smorfia da scugnizzo: li ha già conquistati. Quella che avrebbe dovuto limitarsi, nelle assurde intenzioni della società, ad una fugace apparizione, è già una marcia trionfale. Poi torna al centro del campo, chi lo attornia finalmente si siede in cerchio.

Dieguito chiede il microfono, e tutto d’un tratto la montagna inintelligibile di suoni assordanti si sbriciola al suolo come d’incanto, mentre cala un irreale silenzio, quasi qualcuno avesse spento un invisibile interruttore. «Buonasera, napoletani — squilla il campione — Io sono molto felice di essere con voi». Nel boato che si riaccende incontenibile prende un pallone, accenna un palleggio, poi calcia altissimo di sinistro a campanile. «Forza Napoli», conclude mentre il tripudio si leva assordante come un bombardamento di voci. Il più forte calciatore del mondo ora è di Napoli, di un’intera città impazzita. Tra pochi istanti sparirà inghiottito dal sottopassaggio, e la festa, pur così povera per inspiegabile volere della società, dilagherà come un fiume in piena per ogni strada di Napoli.

Il torrente esce dallo stadio e corre a distesa fino al lungomare, paralizza per ore la città al suono di clacson e cori scanditi a squarciagola, come neanche per un trionfo Mundial. Giovedì 5 luglio 1984, è una giornata che sembra storica: Napoli scorre nel film di un incredibile delirio collettivo che si placherà solo dopo ore, scorrono impazziti per le strade i napoletani. Le loro facce non sanno cosa s’annidi nella stiva del futuro, il loro gridare, gioire, delirare respira nell’aria salmastra e inquinata dagli scarichi delle automobili una sola certezza: quella del vivere quotidiano. Oggi, stasera, hanno Maradona, il piccolo re capace d’incoronarli tutti sul campo, sulle strade come sugli spalti; il magico gnomo in grado di tenerli a galla oltre il pelo dell’acqua dei mille problemi, delle mille difficoltà che amareggiano l’apparire di ogni giorno. E ci s’accorge di come questa città, che allo sguardo superficiale par semplicemente riluttare a far proprio il ritmo degli altri, sia invece sola da sempre: desolatamente sola a specchiare nella magia del suo panorama acquamarina l’insensibilità dei politici, l’avarizia e l’avidità di capi e responsabili, l’insulso paternalismo dei troppi censori di comodo.

Non solo la delinquenza organizzata sgualcisce la cartolina fosforescente del Golfo che proietta le sue lame di luce all’infinito: dovrebbe saperlo Alain Chaillou, il corrispondente del primo canale della tivù francese che alla conferenza stampa di Dieguito ha acceso Ferlaino fino a farlo divampare di sdegno e calpestato orgoglio, fino a fargli estrarre con lo sguardo lucido e la voce umiliata il cartellino rosso per il giornalista d’Oltralpe che aveva disinvoltamente manipolato il luogo comune, mescolando con impietosa malizia, nella sua domanda-accusa, camorra e soldi del calcio. Non c’è qui solo la violenza d’armi dei malviventi organizzati: c’è quella della droga che minaccia e avviluppa una gioventù senza evidenti vie d’uscita dalla disperazione, c’è la miseria che s’arrampica lungo i cornicioni sbreccati e scrostati delle povere case dei bassi, c’è la fame che allarga gli occhi dei bambini di Napoli che ancora sgattaiolano per chiedere il pane ai tavoli dei ristoranti all’aperto.

C’è il terremoto, che apre crepe sui muri delle case e nei cuori disperati della gente; mentre a poca distanza Pozzuoli, deserta oramai di voci e di passi, si solleva giorno dopo giorno lentamente verso il cielo, abbandonando il mare e in esso le possibilità di sopravvivenza di abitanti costretti ad andarsene. C’è tutto questo, incrostato come salsedine all’oleografia inesausta del paesaggio e del sole: ebbene, oggi Maradona riempie dei suoi occhi di napoletano tornato alla sua terra le bancarelle, sfama migliaia di bocche con l’industria del sommerso che s’è attivata nel suo nome. Ha già riempito lo stadio di sorrisi festanti, ricolma di promesse l’orgoglio di un’intera città tradita dalla storia, che ancora una volta solo attraverso il calcio può approdare ad uno spiraglio di speranza di primato.

E allora? Dieguito ingrosserà le schiere di napoletani ai botteghini degli abbonamenti e delle partite domenicali, offrirà spettacolo e rivincite per tutti i napoletani che così poco hanno dalla vita in dono per gioire. Porterà allo stadio plotoni di ragazzi, dirottandoli magari dalle vie sbagliate che come rivoli si dipanano dal cuore ferito di questa città. E allora?, ripetiamo. È proprio un delitto questo «affare Maradona», come molti si sono affrettati nelle settimane scorse a proclamare, spargendo sale sulle piaghe di Napoli? Quelle piaghe che certo non provvedono loro a guarire, continuando meccanicamente a denunciarle dandosi l’un l’altro sulla voce. I cronisti non sportivi che un po’ da ogni parte son piovuti nei giorni immolati a Maradona, son venuti a cercare qua e là le pennellate d’ineguagliabile colore partenopeo: quelle manifestazioni di affetto e gioia che ai loro occhi appaiono più incomprensibili, le curiosità e i mille appigli per ironizzare sia pure di sottecchi o tra le righe, su una civiltà che continuano a considerare irrimediabilmente pietrificata su una incorreggibile smorfia di irrazionalità.

Con tutti i problemi che hanno, sussurrano i loro sguardi di disarmato rimprovero, gli basta Maradona per accendere i fuochi d’artificio d’una felicità fugace come uno scroscio di luce nel cielo notturno. Eppure, avverti allora ammiccare prontamente le voci della gente, eppure è per Maradona e solo per lui che voi siete qui: non fosse stato per Dieguito oggi non riempireste i nostri alberghi, non svuotereste le nostre bancarelle, non comprereste le mille invenzioni partenopee che apposta vi abbiamo fatto trovare.

Adesso, mentre la sera del fatidico 5 luglio sta sospesa sorniona sui contorni del Vesuvio pronta a inghiottirli, adesso Diego Armando, che è già il nome di centinaia di piccoli napoletani nati in queste settimane, è in volo per l’Argentina verso quindici giorni di vacanze. Adesso, tra poco, i clacson si placheranno lentamente. Domani è un altro giorno: ma, nel segno di Maradona, è forse già fin d’ora un po’ meno buio. La gioia stasera a Napoli sembra così sconfinata che pare essersi ipotecata il futuro.