Una storia di coraggio, resilienza e amore per il calcio. Johnny Sherwood sopravvisse all’inferno, aggrappandosi al sogno di tornare a calcare i campi da gioco. Un racconto crudo ed emozionante.
Era il 6 agosto 1945 e Johnny Sherwood era ridotto pelle e ossa. Pesava forse 40 chili, indossava stracci sporchi, una vecchia camicia militare e un cappello dell’artiglieria australiana per ripararsi dal sole. La sua pelle era secca e abbronzata, i piedi segnati dalle cicatrici delle bastonate ricevute con una canna di bambù. “Ero uno scheletro, un morto che camminava“, raccontava lui stesso negli anni successivi.
Quella mattina d’agosto, il giovane soldato inglese lavorava in una fabbrica chimica vicino Nagasaki, spingendo carrelli insieme ad altri prigionieri di guerra. Era stato catturato dai giapponesi tre anni prima a Singapore, quando le forze britanniche avevano dovuto arrendersi dopo un assedio logorante. Johnny era stato poi deportato in quel campo di lavoro forzato due anni dopo la cattura, quando era ancora considerato un nemico, non una semplice risorsa da sfruttare.
Fu in quei momenti che Johnny udì il boato assordante dell’esplosione della seconda bomba atomica sganciata dagli americani sul Giappone. Una forza possente lo sospinse a terra, poi rialzando lo sguardo vide una nuvola nera a forma di fungo alzarsi in cielo e luci multicolori come gioielli esplodere tutto intorno. Era l’inferno in terra, eppure Johnny aveva visto l’orrore con i suoi occhi ed era incredibilmente sopravvissuto ancora una volta.
Quando finalmente fece ritorno in Inghilterra nel novembre 1945, dopo quasi quattro anni di prigionia, Johnny aveva tre desideri: abbracciare i suoi cari, bere una pinta di birra al pub insieme alla sua famiglia e riprendere il suo amato posto da attaccante nel Reading FC, la squadra di calcio per cui giocava prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. “Il calcio era la mia vita. Anche nei momenti peggiori da prigioniero, ci pensavo costantemente, sognavo le partite, i gol segnati, immaginavo di tornare in campo a giocare“, scrisse Johnny nelle sue memorie pubblicate anni dopo.
E Johnny giocò di nuovo a calcio dopo la guerra, nonostante le terribili torture fisiche e psicologiche subite nei campi di prigionia giapponesi. In uno di quei campi, una guardia particolarmente clemente gli aveva addirittura chiesto di farsi insegnare alcuni trucchi con il pallone in cambio di parte del suo scarso razionamento di cibo. Quel semplice gesto aveva alimentato la sua passione e la sua determinazione a resistere, insieme al sogno di riabbracciare un giorno la sua famiglia: la moglie Christine e i figli Philip e la piccola Sandra, nata mentre lui era prigioniero.
Johnny Sherwood era stato un promettente attaccante prima dello scoppio del conflitto mondiale. Ingaggiato giovanissimo dal Reading, la sua carriera sembrava destinata a grandi palcoscenici. Nel 1938 aveva persino giocato una lunga tournée mondiale di 95 partite con i Corinthians Islington, una squadra di dilettanti che organizzava incontri di beneficenza. In quei 6 mesi di tour, Johnny aveva timbrato il cartellino in ben 71 occasioni, un vero e proprio record.
Uno dei campi di prigionia in cui fu deportato dai giapponesi dopo la resa di Singapore, si trovava proprio vicino al famigerato fiume Kwai in Thailandia, reso celebre anni dopo dal film omonimo di David Lean. “La realtà che abbiamo vissuto era ancora peggiore di come viene descritta nel film“, commentò amaramente Johnny quando Il ponte sul fiume Kwai uscì nelle sale nel 1957.
Le torture, la fame, il lavoro massacrante nei campi avevano segnato profondamente il suo corpo e la sua mente di giovane uomo. Eppure l’amore per il calcio e la speranza di poter un giorno tornare a calcare i campi di gioco lo avevano aiutato ad andare avanti e resistere anche nei momenti più bui della prigionia. Dopo essere stato finalmente liberato, Johnny riuscì a coronare il suo sogno, tornando a giocare per il Reading e in seguito anche per altre squadre come l’Aldershot e il Crystal Palace. Ma il suo fisico martoriato non gli permise più di reggere per tutti i 90 minuti delle partite.
Per gli anni a venire, Johnny Sherwood visse con gli incubi delle atrocità vissute durante la guerra e la prigionia. Ogni notte si svegliava di soprassalto, urlando per i tremendi incubi che lo tormentavano. Né i sedativi né l’amorevole supporto della sua famiglia sembravano funzionare contro quei demoni interiori. Alla fine, Johnny decise di affrontare una volta per tutte quei fantasmi, mettendo nero su bianco giorno dopo giorno tutte le sue memorie delle torture e delle barbarie subite. Quel processo catartico e liberatorio, conclusosi un anno prima della sua morte per infarto nel 1985, gli donò finalmente la pace interiore che meritava dopo quello che aveva passato.
Le memorie di Johnny, pubblicate nel libro “Lucky Johnny” nel 2014 grazie al ritrovamento del manoscritto da parte di un amico, riportarono alla luce una storia di sofferenza e resilienza incredibili. Un racconto crudo e commovente di come persino nei contesti più disumani e atroci, l’amore per lo sport e la tenace speranza di un futuro migliore possano aiutare a resistere all’orrore e preservare la propria umanità.
Johnny Sherwood era stato fortunato, come suggeriva il suo soprannome “Lucky Johnny” datogli dalla madre. Ma la sua vera fortuna era stata la forza di volontà e la passione che lo avevano sostenuto anche quando tutto sembrava perduto. Un ragazzo proveniente da una famiglia umile, era riuscito a realizzare il sogno di diventare un calciatore semi-professionista. Poi la guerra lo aveva trasformato in un eroe, un sopravvissuto che aveva sfidato la morte in più occasioni. Ma Johnny non si era mai arreso, aggrappandosi alla sua determinazione e al ricordo dei campi di gioco su cui aveva corso felice con il pallone ai piedi. Il calcio gli aveva salvato la vita, prima ancora che il suo coraggio.