Il calcio come metafora

Braccianti del catenaccio e artisti del contropiede sono i simboli affascinanti del nostro destino incerto.

Se il gioco del calcio affascina non è solo per la sua capacità di mobilitazione, o per i suoi aspetti emotivi, ma perchè mette a nudo, come in una tragicommedia, l’orizzonte simbolico della nostra società. E la sua trama configura il destino incerto degli uomini nel mondo contemporaneo.

Come gli altri sport, il calcio esalta il «merito», la performance, la competizione tra simili; ci pone di fronte, in maniera brutale e realista, all’incertezza. E alla mobilità degli statuti individuali e collettivi simboleggiati dai giocatori sul rettangolo di gioco, dall’ascesa e la caduta dei fuoriclasse, la promozione e la retrocessione delle squadre, le classifiche determinate da rigorose procedure.

La popolarità dello sport risiede nella sua capacità di incarnare l’ideale delle società democratiche, mostrandoci, tramite i suoi eroi, che «chiunque può diventare qualcuno», che la posizione sociale non si acquisisce per diritto di nascita ma si conquista nel corso della vita. Tutto sommato, è sintomatico che le competizioni sportive si siano sviluppate nelle società a ideale democratico (la Grecia antica, l’Inghilterra dell’Ottocento), le stesse in cui la competizione sociale e la messa in causa delle gerarchie era ipotizzabile.

D’altro canto, niente di più estraneo al calcio del tlatchtli praticato dagli aztechi, un gioco con la palla che pure offriva qualche analogia formale con il football: in una società nella quale il destino di un uomo era fissato al momento della sua venuta al mondo, e dove nulla era lasciato al caso, vittoria e sconfitta erano dotate di un identico valore simbolico, ed era inconcepibile che si potesse – anche nel gioco – sfuggire al proprio ruolo.

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Pur tuttavia, è possibile ridurre l’immaginario presente nel gioco del calcio ad un’oasi di certezze riconoscibili, dove il successo è direttamente proporzionale alle capacità di ognuno dei suoi attori? In verità questo sport – e questa è senza dubbio una delle sue attrattive maggiori – offre una visione dell’esistenza ben più complessa e contraddittoria.

Assieme alla performance individuale, il calcio valorizza il lavoro di squadra, la solidarietà, la divisione dei compiti, la pianificazione collettiva, secondo l’immagine di un mondo industriale dal quale è stato storicamente prodotto. I motti di molti club («E pluribus unum» del Benfica o «You’ll never walk alone» del Liverpool) sottolineano questa coesione indispensabile. Sul campo di gioco ogni ruolo presuppone la messa in opera di qualità specifiche (la forza del libero «che sa farsi rispettare», la tenacia dei centrocampisti «polmoni della squadra», l’abilità delle ali «capaci di dribblare in un fazzoletto»…), a tal punto che gli spettatori stessi, nella loro diversità, hanno a disposizione uno spettro di possibilità di identificazione (sappiamo che le preferenze nei confronti dei giocatori si articolano secondo un gioco di affinità che tende a rispecchiare le identità sociali).

Ma se il match di football è tanto bello da guardare quanto «da pensare», è perché l’aspetto aleatorio e la fortuna vi giocano una parte importante. Ciò avviene a causa della complessità tecnica di un gioco basato sull’utilizzo «anomalo» del piede, della testa e della parte superiore del corpo, della molteplicità dei parametri da dominare e gestire al fine di portare a termine in maniera vincente un’azione, e dell’importanza del ruolo dell’arbitro che deve intervenire per sanzionare delle infrazioni spesso difficili da percepire.

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La casualità – raramente percepita per quella che è – sovrasta gli incontri di calcio, rammentando brutalmente che non sempre i propri meriti sono sufficienti per battere gli altri. Da questi fattori imponderabili che, rovesciando ogni previsione statistica, possono modificare la traiettoria di una palla così come quella di un’esistenza, i giocatori cercano di premunirsi attraverso un insieme di micro-rituali tesi ad accattivarsi la buona sorte. Se, per segnare un gol, occorre coniugare fortuna e abilità, a volte bisogna anche aiutarsi con l’imbroglio: la simulazione e l’inganno si rivelano nel calcio più che in ogni altro sport un utile ausilio.

A questi saggi di furfanteria – un mezzo come altri di farla franca – la figura nera dell’arbitro oppone i rigori della legge. Ma dal momento che le sanzioni puniscono degli atti intenzionali, il match si presta ad un dibattito drammatizzato su quanto vi è di legittimo o di arbitrario in una giustizia comunque imperfetta.

Il calcio incarna così una visione che è insieme coerente e contraddittoria del mondo contemporaneo. Esalta i meriti individuali attraverso una competizione che mira a consacrare i migliori, ma sottolinea anche il ruolo, per raggiungere il successo, della fortuna e dell’imbroglio che sono, ognuno a suo modo, delle insolenti prese in giro del merito. Per questi elementi, e per la forma che vi riveste la giustizia, il calcio fa intravvedere un mondo umanamente accettabile anche quando il successo non arriva.

In società in cui a ciascuno, individuo o collettività, è chiesto di avere successo, la sconfitta e l’infortunio non sono psicologicamente tollerabili se non quando sono attribuibili alla malafede degli altri o all’ingiustizia o al destino. Ad un ordine incontestabile fondato sul merito il calcio oppone la possibilità del sospetto e di una essenziale incertezza.

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Cosa ne sarebbe di una società o di un mondo interamente trasparenti, dove ognuno avesse la certezza razionale di occupare a giusto titolo il proprio ruolo sociale? Se il calcio rivela gli arzigogoli di un destino fatto a nostra misura, ci pone anche brutalmente davanti a qualche altra verità essenziale Oscurata e resa opaca nella vita quotidiana.

Ad esempio, ci dice con chiarezza che, in un mondo in cui i beni sono in quantità limitata, la disgrazia degli uni è la condizione per la felicità degli altri (mors tua, vita mea). I Gahuku-Gama della Nuova Guinea hanno capito cosi bene questa legge del calcio e della società occidentale che hanno pensato di aggirarla per rendere il gioco più conforme alla loro visione del mondo giocando per più giorni di seguito tante partite quante ne sono necessarie perchè si stabilisca un esatto equilibrio tra quelle perse e quelle vinte.

Ma la nostra visione del benessere non si costruisce soltanto sulle sventure del vicino o dell’avversario di turno: occorre anche – e l’aritmetica del campionato lo illustra con precisione – che sui campi rivali vicini o lontani, deboli o forti perdano o vincano affinchè noi si possa pervenire al successo. Una gara di calcio dimostra anche un’altra legge della vita moderna: la complessa interdipendenza delle sorti dei predestinati al successo.

Su questo sfondo universale, ogni grande squadra nazionale o di club impone il proprio marchio e le sue specifiche tradizioni, a tal punto che ci è possibile leggere attraverso una gara i valori generali che modellano la nostra epoca quanto gli stili particolari delle collettività che si affrontano. Questo stile percepito come l’emblema di una comune appartenenza non corrisponde sempre alla pratica reale dei giocatori quanto piuttosto all’immagine stereotipata e radicatasi nel tempo che una collettività dà di se stessa e che desidera proporre agli altri.

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Il gioco alla brasiliana che valorizza la finta si propone come l’illustrazione di una regola aurea di un universo sociale nel quale è importante venirne a capo con la dissimulazione e l’eleganza; il catenaccio svizzero degli anni ’30 (verrou) fu a immagine e somiglianza di un paese che si ripiegava su se stesso a fronte dei conflitti dell’epoca; lo stile della squadra azzurra, metafora espressiva dell’italian way of life, che coniugava lo sforzo dei braccianti del catenaccio (gli uomini di fatica dello schema difensivo) e il genio creativo degli artisti del contropiede. Consacrando in maniera più o meno virulenta le alleanze territoriali e, in particolare, la fedeltà nazionale, il calcio non si limita a definire le appartenenze, ma ne enuncia e ne fissa l’immaginario.

Linguaggio essenzialmente maschile, che trascende regioni e generazioni, facendo dialogare il singolare con l’universale e mettendo a confronto merito e fortuna, giustizia e arbitrio, «noi» e «gli altri», la partita di calcio si offre come una delle profonde matrici simboliche del nostro tempo. Sotto gli orpelli di un divertimento futile, getta una luce cruda su ciò che vi è di essenziale, diventando una sorta di paradigma dell’azione collettiva.

Non sbagliano coloro i quali riproducono e moltiplicano le metafore sportive, rovesciandone il senso convenzionale: una volta la squadra veniva identificata con un’azienda, oggi è l’azienda ad essere identificata con la squadra. La percezione del gioco è variabile a seconda di contesti, luoghi, classi, gruppi, età; questa variabilità nelle rappresentazioni è resa possibile dalla molte virtù (solidarietà, senso del dovere, competizione, disciplina, complicità, forza, abilità..) messe in scena da questo sport collettivo.

Ma, al di là di questi aspetti che la squadra di calcio fissa nell’immaginario della gente, il match ci ricorda, in maniera lancinante, la verità fondamentale di un mondo incerto: il destino è ormai un eterno ricominciare.

di CHRISTIAN BROMBERGER