Il demone del talento: La parabola di Andy van der Meyde

Da erede di Overmars nell’Ajax dei miracoli a stella caduta in notti di droga, alcol e Ferrari. Questa è la storia di Andy van der Meyde, talento sublime divorato dai suoi demoni.

Il calcio olandese di fine anni ’90 viveva ancora nel ricordo dell’Ajax trionfante del 1995, quando una nuova luce iniziò a brillare ad Amsterdam. Andy van der Meyde emerse dalla prestigiosa accademia del club come un diamante grezzo che prometteva di superare in lucentezza persino i suoi predecessori. A soli 18 anni, il suo nome già echeggiava nei corridoi della Johan Cruijff Arena con un misto di eccitazione e aspettativa.

Non era solo la velocità fulminante che lo rendeva speciale, né la tecnica sopraffina che gli permetteva di dribblare gli avversari come fossero coni di allenamento. Era quella rara combinazione di attributi che faceva socchiudere gli occhi ai talent scout e annuire con approvazione ai veterani del calcio olandese. “Migliore di Overmars“, sussurravano alcuni. “Il nuovo Johnny Rep“, azzardavano altri, evocando il nome di una leggenda che aveva fatto sognare l’Olanda negli anni ’70.

Il giovane Van der Meyde sembrava avere tutto: l’esplosività nei primi metri, la capacità di cambiare passo in corsa, un controllo di palla che sembrava incollata al piede anche alle velocità più elevate. Ma soprattutto, possedeva quella caratteristica che in Olanda chiamano “lef” – il coraggio calcistico, l’audacia di tentare l’impossibile, di sfidare l’avversario nell’uno contro uno senza paura delle conseguenze.

Ronald Koeman, allora allenatore dell’Ajax, lo aveva promosso in prima squadra riconoscendo in lui quel mix di talento e sfrontatezza che aveva sempre contraddistinto i grandi campioni formati nel club.

La generazione d’oro

L’Amsterdam Arena nei primi anni 2000 era un crogiolo di talenti che avrebbe fatto impallidire qualsiasi altro club europeo. Van der Meyde si trovò catapultato in un vortice di fenomeni calcistici che avrebbero segnato il decennio successivo: il giovane Zlatan Ibrahimovic, con il suo ego già smisurato e un talento altrettanto grande; Wesley Sneijder, il piccolo genio del centrocampo con una visione di gioco fuori dal comune; Rafael van der Vaart, il predestinato che tutti vedevano come l’erede di Johan Cruijff; e ancora Cristian Chivu, Maxwell, Steven Pienaar.

Era un Ajax che faceva sognare, capace di unire la tradizionale scuola olandese con un tocco di internazionalità che lo rendeva ancora più intrigante. Ronald Koeman aveva costruito una squadra che sembrava poter riportare il club ai fasti della metà degli anni ’90, quando l’Ajax dominava l’Europa. Il doblete del 2002 fu il culmine di questo periodo dorato, con Van der Meyde che si era ritagliato un ruolo da protagonista assoluto.

Le sue prestazioni sulla fascia erano un mix di potenza e classe: accelerazioni improvvise, dribbling ubriacanti, cross calibrati al millimetro. La sua versatilità lo rendeva ancora più prezioso: poteva giocare indifferentemente a destra o a sinistra, creando scompiglio in qualsiasi zona del campo decidesse di attaccare. L’Ajax aveva trovato il suo nuovo diamante, e la luce che emanava sembrava destinata a brillare per molto, molto tempo.

Le notti di Amsterdam

Il demone della velocità non si manifestava solo sul campo. Nelle notti di Amsterdam, quando le luci della Johan Cruijff Arena si spegnevano, Van der Meyde e i suoi compagni trasformavano l’anello della A10 in un circuito personale. Era una gara costante, non solo contro il tempo, ma contro i limiti stessi della prudenza. Ibrahimovic al volante del suo Mercedes SL sfrecciava nell’oscurità, mentre Mido alternava un Ferrari fiammante a un BMW Z8, simboli di un successo che sembrava non avere confini.

Le notti della capitale olandese nascondevano i primi segni di quella che sarebbe diventata una spirale discendente. Il fumo, introdotto dal compagno di squadra Galasek, fu solo l’inizio. I locali notturni diventarono una seconda casa, le feste si moltiplicavano, e il confine tra la vita di un atleta professionista e quella di una rockstar iniziava a sfumare pericolosamente.

L’Ajax, con la sua tradizione di club formatore, cercava di contenere questi “peccati di gioventù“. Li nascondeva, li minimizzava, forse sperando che fossero solo una fase passeggera. Dopotutto, Van der Meyde in campo continuava a brillare, a far innamorare i tifosi con le sue giocate. Ma dietro quelle prestazioni si nascondeva un mondo sempre più caotico, dove la velocità non era più solo una questione di dribbling e scatti sulla fascia.

L’illusione di Milano

Nela 2003 l’Inter di Massimo Moratti viveva una fase di transizione. Il club piangeva ancora la partenza di Ronaldo verso Madrid e cercava disperatamente nuove stelle per illuminare le notti di San Siro. Van der Meyde sembrava l’acquisto perfetto: giovane, talentuoso, con un curriculum che prometteva meraviglie. Dodici milioni di euro, una cifra considerevole per l’epoca, convinsero l’Ajax a lasciar partire il suo gioiello.

Milano doveva essere il palcoscenico della sua consacrazione. La Serie A, all’epoca ancora il campionato più prestigioso e glamour al mondo, sembrava il teatro ideale per le sue giocate. Ma la città della Madonnina si rivelò una sirena troppo seducente per un ragazzo già incline alle tentazioni. Se Amsterdam era stata il prologo, Milano divenne il primo vero capitolo della sua discesa.

Zaccheroni, il primo allenatore che lo accolse in nerazzurro, non riuscì mai a trovare la chiave per valorizzarlo. Roberto Mancini, subentrato in panchina, ci provò con maggior convinzione. Cercò di recuperarlo, di riportarlo sui binari giusti, ma si trovò di fronte a un giocatore sempre più distante dal calcio giocato.

Le notti milanesi, i locali della movida, le tentazioni di una metropoli che non dorme mai: tutto contribuì ad allontanare Van der Meyde dal campo. Quando arrivò l’offerta dell’Everton, l’Inter non ci pensò due volte. Era già chiaro a tutti che il sogno nerazzurro si era trasformato in un’illusione, l’ennesima di una carriera che iniziava a prendere una piega pericolosa.

Lo Zoo

In una lussuosa villa fuori Milano, Van der Meyde aveva creato il suo personale angolo di follia. Un vero e proprio zoo che sembrava riflettere il caos che regnava nella sua vita. Cavalli che galoppavano nel giardino, cani che abbaiavano a tutte le ore, pappagalli esotici che riempivano l’aria con i loro stridii, tartarughe che si muovevano lente sui prati curati. Era come se cercasse di riempire un vuoto sempre più profondo circondandosi di creature di ogni tipo.

La leggenda del cammello nel garage, seppur negata dalla sua ex compagna, resta emblematica di quel periodo surreale. Una notte, racconta Van der Meyde nelle sue memorie, si trovò faccia a faccia con questa creatura nel buio del suo garage, un’apparizione quasi mistica che oggi suona come una perfetta metafora del suo smarrimento.

Ma gli animali erano solo la facciata di un dramma più profondo. Mentre la sua casa si trasformava in un serraglio, la sua vita scivolava in una spirale di eccessi sempre più preoccupante. Le “visite” a casa si riducevano a rapidi passaggi per cambiarsi d’abito, mentendo alla compagna con la scusa di “periodi di recupero in hotel”. La realtà era ben diversa: notti intere passate tra locali e after-hour, dove l’alcol scorreva a fiumi e la cocaina era diventata una presenza costante.

Lo zoo domestico era diventato il simbolo perfetto della sua vita: un caos controllato in superficie, ma in realtà completamente fuori controllo, dove ogni nuovo acquisto, ogni nuovo animale, sembrava un disperato tentativo di aggrapparsi a qualcosa di reale.

Liverpool ultima Spiaggia

Liverpool rappresentava l’ultima chance per Van der Meyde, e l’Everton era pronto a scommettere su di lui. David Moyes, allenatore dei Toffees, credeva di poter recuperare quel talento che ancora, a sprazzi, si intravedeva nelle sue giocate. Otto milioni di euro per quello che doveva essere un colpo di mercato si trasformarono nell’ennesimo capitolo di una discesa inarrestabile.

Il primo segnale che qualcosa non andava arrivò immediato: con il primo stipendio, 37.000 euro settimanali – il doppio di quanto guadagnava all’Inter – Van der Meyde si precipitò a comprare una Ferrari. Il secondo passo fu altrettanto emblematico: una sbronza memorabile al News Bar, uno dei locali più popolari di Liverpool. Era come se stesse seguendo un copione già scritto, ma questa volta con un budget ancora più consistente.

Le notti di Liverpool si rivelarono ancora più selvagge di quelle milanesi. L’alcol e la cocaina divennero compagni inseparabili, in un vortice che lo portava a cercare sempre nuovi limiti da superare. Arrivò persino a rubare farmaci dall’infermeria del club, alla disperata ricerca di qualcosa che gli permettesse di dormire dopo le nottate di eccessi.

La città dei Beatles, che aveva visto nascere tante leggende del calcio, stava assistendo invece al tramonto di un talento che non aveva saputo gestire il peso delle proprie debolezze. L’Everton, che aveva sperato di fare un affare, si ritrovò tra le mani un giocatore sempre più lontano dal calcio che conta.

La caduta

I numeri raccontano meglio di qualsiasi parola la parabola discendente di Van der Meyde all’Everton. In quattro stagioni, appena 1.085 minuti in campo distribuiti su 24 partite. Di queste, solo una giocata per intero. Statistiche impietose per un giocatore che era arrivato a Liverpool come potenziale salvatore della patria.

L’episodio che meglio simboleggia questo periodo è quasi surreale: un allenamento affrontato dopo aver bevuto un’intera bottiglia di rum. Paradossalmente, in quella sessione Van der Meyde registrò i suoi migliori tempi nei test atletici, come se il suo corpo rispondesse meglio sotto l’effetto dell’alcol che in condizioni normali. Una vittoria di Pirro che nascondeva un dramma sempre più profondo.

Gli allenamenti saltati si moltiplicavano, così come le multe. Il rapporto con David Moyes si deteriorò fino all’inevitabile rottura, culminata con degli insulti che costrinsero Van der Meyde a scuse pubbliche. Il 7 agosto 2006 arrivò il punto di non ritorno: il ricovero d’urgenza per problemi respiratori, ufficialmente, ma tutti sapevano che dietro c’era l’ennesima notte di eccessi.

Il 7 febbraio 2009 giocò i suoi ultimi sei minuti con la maglia dell’Everton, nella vittoria contro il Bolton. Fu un addio in sordina, senza gloria né rimpianti da parte del club. L’angelo caduto del calcio olandese lasciò Liverpool nell’indifferenza generale, con la sua Ferrari e i suoi demoni come unici compagni di viaggio.

Ultimo atto

Nel 2010, quando ormai sembrava che per Van der Meyde non ci fosse più spazio nel calcio professionistico, il PSV gli tese una mano inaspettata. Fred Rutten, l’allenatore che lo aveva conosciuto giovane promessa al Twente dieci anni prima, decise di dargli un’ultima possibilità. Era un atto di fede basato sui ricordi di quel ragazzo che faceva impazzire le difese con le sue accelerazioni.

Ma il tempo e gli eccessi avevano lasciato segni troppo profondi. L’unica apparizione con la maglia del PSV fu in un’amichevole contro il Venlo, il 23 aprile. Una comparsata che sembrava più un favore che una vera chance di rilancio. Dopo aver saltato due allenamenti, come un copione già visto troppe volte, anche questa ultima opportunità svanì nel nulla.

Van der Meyde lasciò il PSV senza aver mai disputato un minuto in partite ufficiali. Il tentativo di dicembre di unirsi a una squadra amatoriale fu l’ultimo, flebile sussulto di una carriera ormai conclusa. Era come se il suo corpo, ancora giovane anagraficamente – aveva solo 31 anni – avesse già vissuto diverse vite calcistiche.

La fine della sua carriera fu silenziosa quanto rumorosa era stata la sua ascesa. Nessuna celebrazione, nessun addio commovente, nessuna partita d’onore. Solo il silenzio di chi sa di aver sprecato un dono prezioso. Il talento cristallino che aveva fatto sognare l’Ajax si era definitivamente spento, lasciando solo il ricordo di ciò che avrebbe potuto essere.

Michael Reiziger, 72 presenze con la nazionale olandese, ricorda ancora oggi con un misto di ammirazione e rimpianto quel ragazzo che in allenamento faceva impazzire tutti: «Era una meraviglia vederlo, così giovane, così intrepido, così veloce». Ma la nazionale olandese, come tutto il resto, diventa presto solo un ricordo. Van der Meyde chiude con appena 14 presenze in Oranje, l’ultima delle quali nei quarti di finale dell’Europeo 2004.

Come lui stesso ammette con amarezza: “Un calciatore può fare quello che vuole, ha i soldi e si sente Dio“. Ma a volte, sentirsi Dio è il modo più rapido per precipitare all’inferno.