«Il giorno in cui Gigi Riva mi ruppe un braccio»

Nel 1970, il piccolo Danilo Piroddi fu colpito da una pallonata di Rombo di Tuono durante un allenamento del Cagliari. L’incidente si trasformò in un’esperienza indimenticabile, creando un legame speciale con il campione e la squadra.

Le valigie erano pronte da giorni, e Danilo non faceva altro che contare le ore. A nove anni, il tempo sembra scorrere più lentamente quando si aspetta qualcosa di speciale. E quel viaggio a Roma dell’ottobre 1970 era davvero qualcosa di unico: non solo avrebbe visto per la prima volta la Città Eterna, ma soprattutto avrebbe assistito a Lazio-Cagliari, con il suo idolo Gigi Riva in campo.

La famiglia Piroddi aveva organizzato tutto nei minimi dettagli. Il padre Flavio, maresciallo della Marina Militare di origini cagliaritane, aveva scelto di partire qualche giorno prima della partita. Un viaggio lungo dalla loro Siracusa, attraversando mezza Italia, ma ne sarebbe valsa la pena. Del resto, come si poteva dire di no a un bambino che collezionava ogni ritaglio di giornale su Rombo di Tuono, che conosceva a memoria tutte le sue prodezze, che sognava di vederlo dal vivo almeno una volta?

Con loro c’era anche la madre, che pur non essendo una grande appassionata di calcio, non voleva perdersi l’emozione negli occhi del suo bambino. Nessuno poteva immaginare che quel viaggio sarebbe diventato memorabile per ragioni completamente inaspettate.

L’allenamento all’Acquacetosa

Il sole di ottobre scaldava ancora Roma quando la famiglia Piroddi raggiunse i campi dell’Acquacetosa. Non erano i soli ad aver avuto quell’idea: una folla di oltre cinquecento persone si era già radunata per assistere all’allenamento del Cagliari campione d’Italia.

Il campo numero 10 era diventato un piccolo stadio improvvisato, con i tifosi disposti a semicerchio che si spingevano per conquistare la posizione migliore. Danilo e suo padre riuscirono a sistemarsi proprio dietro la porta, dove la rete sembrava offrire una protezione illusoria. Da lì potevano vedere ogni dettaglio: le scarpe dei giocatori che affondavano nel terreno, il sudore che brillava sulle loro fronti, persino le espressioni concentrate sui loro volti.

Quando Riva, Domenghini e Gori iniziarono le prove sui calci piazzati, un brusio di eccitazione attraversò la folla. Qualcuno degli addetti ai lavori tentò di far allontanare gli spettatori, specialmente i bambini, consapevole della potenza dei tiri. Ma chi aveva la fortuna di essere in prima fila non aveva alcuna intenzione di cedere quel posto privilegiato. Dopotutto, non capitava tutti i giorni di vedere da così vicino i propri idoli.

Il momento dell’impatto

Fu come vedere un proiettile al rallentatore. Riva si preparò al tiro con quella sua caratteristica rincorsa obliqua, il corpo leggermente inclinato all’indietro. Tutti conoscevano la potenza del suo sinistro, ma vederlo da così vicino era tutt’altra cosa. Il pallone partì come una fucilata, una traiettoria tesa e violenta che fece vibrare l’aria.

Danilo, seduto a terra con le gambe incrociate, era ipnotizzato dalla scena. Vide la palla avvicinarsi, vide la rete gonfiarsi in modo innaturale, e in una frazione di secondo il suo istinto di sopravvivenza prese il sopravvento sulla ragione. Il braccio sinistro si alzò automaticamente a proteggere il viso, proprio nell’istante in cui il pallone, che aveva già deformato la rete, lo colpì con una violenza inaudita.

Il rumore secco dell’impatto fu coperto dal grido di dolore del bambino. Il tempo sembrò fermarsi. Il pallone rotolò innocuo sull’erba, mentre Danilo crollava all’indietro, stringendosi il braccio al petto. Il padre, seduto accanto a lui, realizzò solo in quel momento quanto fosse stato rischioso permettere al figlio di stare così vicino alla porta.

Dal campo all’ospedale

Il campo dell’Acquacetosa piombò nel silenzio. Fu Domenghini il primo a reagire, scattando verso il bambino con l’agilità che lo contraddistingueva in campo. Riva lo seguì subito dopo, il volto pallido e contratto dalla preoccupazione. Il dottor Frongia, medico sociale del Cagliari, si fece largo tra la folla con la sua borsa nera.

La scena aveva attirato l’attenzione di due agenti di polizia che pattugliavano la zona. In un attimo, la loro auto di servizio si trasformò in un’ambulanza improvvisata. Il dottor Frongia salì a bordo con Danilo e suo padre, mentre Riva restava immobile al centro del campo, incapace di riprendere l’allenamento.

Il tragitto verso l’ospedale San Giacomo sembrò interminabile. Il piccolo Danilo, stretto al padre, cercava di trattenere le lacrime mentre ogni sobbalzo dell’auto gli provocava fitte di dolore al braccio. Il medico tentava di distrarlo con domande sul Cagliari, sulla sua passione per il calcio, ma gli occhi esperti avevano già intuito la gravità dell’infortunio.

Nel pronto soccorso, la radiografia confermò i timori: frattura del radio e dell’ulna sinistri. Trenta giorni di prognosi, con il braccio ingessato. La domenica all’Olimpico sembrava ormai un sogno infranto.

L’incontro con il mito

Non erano passate due ore quando la porta della stanza d’ospedale si aprì silenziosamente. Danilo, ancora intontito dai calmanti, vide entrare una figura alta e familiare: Gigi Riva in persona, accompagnato dal dottor Frongia. Il campione si muoveva quasi in punta di piedi, come se temesse di disturbare.

Gli occhi del bambino si spalancarono, dimenticando per un momento persino il dolore. Riva si sedette accanto al letto, il volto ancora segnato dalla preoccupazione. «Come stai, piccolo?», chiese con quella sua voce bassa e gentile che contrastava con la potenza dei suoi tiri. Danilo non riusciva a credere che il suo idolo fosse lì, accanto a lui.

La conversazione fluì naturalmente. Riva scoprì che la famiglia era venuta apposta da Siracusa per vederlo giocare, e questo sembrò turbarlo ancora di più. Promise al bambino la sua maglia numero 11, quella della nazionale, cercando in qualche modo di rimediare all’accaduto.

Fu un momento surreale: il più grande attaccante italiano seduto accanto al letto di un bambino siciliano, in un dialogo che sembrava cancellare ogni distanza tra il mito e il suo giovane ammiratore. Quando Riva si alzò per andare via, scivolò discretamente fuori da un’uscita di servizio, evitando i giornalisti che si erano già radunati all’ingresso principale.

Una domenica indimenticabile

La domenica arrivò con un sole splendente e una sorpresa: nonostante il braccio ingessato, Danilo era determinato a non perdersi la partita. Quando si presentò all’ingresso della Tribuna Monte Mario dell’Olimpico, non ci fu bisogno di mostrare alcun biglietto. La sua storia aveva fatto il giro di Roma, ed era finita su tutti i giornali. «Ero più famoso del Presidente della Repubblica», avrebbe ricordato anni dopo ridendo.

Le maschere lo riconobbero immediatamente e lo scortarono a un posto speciale, insieme alla famiglia. Il Cagliari giocò una partita memorabile, vincendo 4-2 contro la Lazio. Domenghini segnò una doppietta, mentre Riva e Gori completarono il poker rossoblù. A ogni gol, Danilo esultava con il braccio sano, sentendosi parte di quella squadra leggendaria.

Dopo il fischio finale, le sorprese non erano finite. Gli aprirono le porte degli spogliatoi, un sancta sanctorum normalmente inaccessibile ai tifosi. Lì, circondato dai suoi eroi ancora accaldati dalla partita, Danilo si sentì come in un sogno. Ogni giocatore aveva una parola gentile per lui, un sorriso, una pacca sulla spalla. Quella che era iniziata come una sfortunata avventura si era trasformata in una domenica indimenticabile.

Cinquant’anni dopo

Oggi Danilo Piroddi vive ancora a Siracusa, tra le viuzze barocche di Ortigia e l’antico Teatro Greco. Lavora come impiegato in un’azienda del settore energetico, ma il ricordo di quel pomeriggio all’Acquacetosa è rimasto nitido come se fosse ieri.

La maglia numero 11 promessa da Riva non arrivò mai, ma poco importa. Domenghini gli regalò il pallone della partita contro la Lazio, un cimelio che il giovane Danilo finì per consumare a forza di giocarci nei campi di periferia. «Lo ammetto», racconta oggi sorridendo, «quel pallone l’ho letteralmente distrutto. Ma ogni volta che ci giocavo, mi sembrava di essere ancora lì, all’Olimpico, in quella domenica magica

La sua fede rossoblù non ha mai vacillato e da quella stagione, divenne una sorta di portafortuna per la squadra, presente in altre vittorie importanti. Ma il destino volle che proprio in quell’anno Riva si infortunasse gravemente in Nazionale, segnando la fine di un’epoca d’oro per il Cagliari.

Il tempo è passato, ma nel salotto di casa sua, tra le foto di famiglia, c’è ancora quel ritaglio ingiallito dell’Unione Sarda che lo ritrae bambino, accanto al suo idolo, in un letto d’ospedale romano.