La modesta formazione di Interregionale decise quell’anno di rinforzarsi attingendo massicciamente dal mercato straniero. Quello che ne seguì può essere considerato uno dei primi esempi di squadra “globalizzata” del calcio moderno.
Nella prima metà degli anni ’80, il calcio italiano viveva un momento particolare: la riapertura delle frontiere ai calciatori stranieri aveva trasformato ogni acquisto dall’estero in un evento mediatico. Il giocatore proveniente da un’altra federazione era oggetto di curiosità, speranze e spesso rappresentava una strategia per incrementare la vendita degli abbonamenti.
Mentre tutti i riflettori in Sicilia erano puntati sul Catania neopromosso in Serie A, che aveva ingaggiato i brasiliani Pedrinho e Luvanor sull’onda della Brasil-mania imperante, un’altra squadra siciliana stava per fare la storia a modo suo: il Terranova di Gela, militante nel campionato Interregionale (l’attuale Serie D).
Il progetto multietnico di Angelo Russello
Il presidente del Terranova, Angelo Russello, di fronte a una rosa considerata modesta per affrontare il campionato, ebbe un’intuizione tanto audace quanto rischiosa: rinforzare la squadra attingendo massicciamente dall’estero. Quella che prese forma fu una formazione che oggi definiremmo multietnica, con giocatori provenienti da Sudamerica, Inghilterra e Africa.
Un esperimento che anticipava di oltre un decennio la sentenza Bosman del 1995, che avrebbe poi liberalizzato completamente il mercato dei calciatori comunitari, trasformando molte squadre in vere “multinazionali del pallone”. Ma nel 1983, nel profondo della provincia italiana, questa scelta appariva rivoluzionaria.
Il “tessitore” Rubulotta

Dietro la straordinaria avventura multietnica del Terranova Gela c’era una figura chiave: l’allenatore Josè Rubulotta, un sicul-argentino di 35 anni che fungeva da vero e proprio ponte tra la cittadina siciliana e il panorama calcistico internazionale. La sua storia personale rispecchia perfettamente quella di un uomo di confine, capace di muoversi tra culture e paesi diversi con naturalezza.
Nato in Sicilia ma cresciuto in Argentina, la vita di Rubulotta è quella di un autentico cittadino del mondo. Aveva appena 15 giorni quando i suoi genitori emigrarono da Agira, in provincia di Enna, in Argentina, dove Rubulotta sviluppò una passione viscerale per il calcio. Purtroppo, un grave infortunio al ginocchio troncò sul nascere quella che avrebbe potuto essere una promettente carriera da calciatore.
Ma non si arrese: iniziò così un lungo itinerario personale e professionale che lo portò a viaggiare tra Messico, Stati Uniti, Cile e Belgio, accumulando esperienze e contatti preziosi nel mondo del calcio internazionale, sempre alla ricerca di nuove opportunità. Fu proprio grazie a questa rete di contatti che nacque il progetto del Terranova multinazionale. Come racconta lo stesso Rubulotta in un’intervista rilasciata al Guerin Sportivo del febbraio 1984:
«Girando per il mondo ho conosciuto tanta gente; ho agganci con mezzo Sudamerica, ma l’Italia è sempre stata il mio obiettivo. L’anno scorso a Catania, un mio zio mi presentò i Russello, presidenti dell’U.S. Terranova. Abbiamo discusso e subito dopo arrivarono cinque giocatori stranieri, conoscenze che avevo oltreoceano. Il loro innesto, a campionato già iniziato, è stato rivitalizzante per la squadra che è riuscita a salvarsi».
Quel primo esperimento, concluso con la salvezza della squadra, convinse i Russello della bontà del progetto. Così, durante l’estate successiva, Rubulotta mise a frutto tutti i suoi contatti internazionali, contattando giovani promesse e vecchie glorie del calcio mondiale per dare vita a quella che sarebbe diventata una vera e propria squadra-laboratorio della globalizzazione calcistica. Un “tessitore” di relazioni internazionali che, nel cuore della provincia siciliana, immaginò un calcio senza confini molto prima che questo diventasse la norma.
Una babele calcistica

Gli stranieri del Terranova avevano creato una vera e propria comunità internazionale nel cuore di Gela. La società aveva messo a loro disposizione tre appartamenti adiacenti, dove i calciatori vivevano in condivisione, due o anche tre nella stessa stanza. Una sorta di villaggio multietnico dove Rubulotta rappresentava il punto di riferimento principale, una figura quasi paterna oltre che professionale.
Nell’insolita colonia calcistica si parlava un mix di quattro lingue principali: francese, inglese, spagnolo e portoghese, arricchite da vari dialetti, compreso quello siciliano. Una vera e propria babele calcistica dove la comunicazione rappresentava talvolta una sfida, ma anche un’opportunità di arricchimento culturale.
L’argentino Mammana, che aveva una maggiore padronanza dell’italiano rispetto ai compagni, fungeva spesso da interprete per il gruppo. Fu proprio lui a raccontare ai lettori del Guerin Sportivo i sentimenti e le aspirazioni comuni dei “gringos” di Gela:
«Per noi il calcio è tutto, non importa in quale orizzonte ed in quale serie. Anche il fatto di essere in tanti, insieme, ci ha spinto a venire a Gela. Per noi è un’esperienza dal punto di vista agonistico, non tecnico. Qui si lotta per 90 minuti. Siamo rimasti sorpresi dal buon livello di questo torneo. Ci dispiace per i campi in terra battuta, sono proprio brutti. Ci piace l’entusiasmo. L’Italia è il paese del tifo».

La vita dei calciatori stranieri era scandita da una routine semplice ma intensa. Ogni allenamento diventava un piccolo evento per i tifosi più giovani, che cercavano di entrare in contatto con questi esotici protagonisti: i ragazzini volevano aiutarli, portare le loro borse, indipendentemente dai risultati della squadra in campo.
Quando interrogato sul futuro, Mammana rivelava la semplicità delle loro ambizioni e la precarietà della loro condizione:
«Siamo dilettanti, non abbiamo un contratto. Per noi c’è poca vita sociale. Allenamento, mangiare, dormire, questa è la nostra giornata. Ma a noi sta bene così, almeno per ora. Il futuro ci può riservare una chiamata verso mete più ambite; in caso contrario potremmo sempre trovare un lavoro, una sistemazione che ci consenta di vivere diversamente. Questa è la nostra speranza. Per ora pensiamo a salvare il Terranova, ultimo in classifica e ci riusciremo facendo quadrato attorno a Rubulotta. Lo stimiamo, è una persona corretta, per noi è come un parente».
Il risultato sportivo: un’amara delusione
Purtroppo, l’ambizioso progetto non diede i frutti sperati. Se il Catania con i suoi brasiliani retrocesse dalla Serie A con appena una vittoria in 30 partite e il minimo storico di 12 punti, alla squadra di Gela non andò molto meglio: 16 punti, ultima posizione nel proprio girone e retrocessione inevitabile.
Nonostante il fallimento sportivo, quella squadra ha lasciato un segno indelebile nella memoria dei tifosi gelesi, tanto che ancora oggi viene ricordata con affetto nei forum dedicati alla storia del calcio locale.
I protagonisti: carriere intrecciate a Gela

La rosa del Terranova 1983/84 rappresenta un affascinante mosaico di storie calcistiche provenienti da tutto il mondo. Tra i protagonisti più illustri:
Rubén Omàr Sanchez, portiere argentino classe 1945, vantava un curriculum di tutto rispetto: cresciuto nel Velez Sarsfield, aveva vinto tre titoli con il Boca Juniors tra il 1969 e il 1970, prima dell’arrivo del leggendario Hugo Gatti. La sua carriera lo aveva poi portato in Messico all’Atlante, e successivamente al Racing de Trelew, Gimnasia La Plata e Chaco For Ever. Quella siciliana fu l’ultima tappa di una carriera che lo vide addirittura vestire la maglia della nazionale argentina per 13 volte dal 1968 al 1974.
Dall’Inghilterra arrivarono Gavin Liddle, difensore classe 1963 proveniente dal Darlington (quarta serie britannica), e Geoffrey Langley, classe 1962, che appena due stagioni prima aveva raccolto otto presenze con la maglia del Bolton Wanderers in seconda serie inglese.
Pablo Enrique Centrone, centrocampista argentino classe 1957, era uno dei pochi confermati della stagione precedente. La sua carriera lo aveva già portato a giocare in diverse squadre argentine (Club Deportivo Italiano, Quilmes, Chacarita Juniors, Estudiantes) con un’esperienza anche nella NASL statunitense con i Rochester Lancers. Dopo la lunga parentesi al Terranova (1982-1986), Centrone avrebbe intrapreso una carriera da allenatore che lo avrebbe portato a vincere titoli nazionali in Messico e Guatemala.
Daniel Eduardo Mammana, difensore argentino classe 1957, era noto per la sua statura impressionante (circa due metri) e per le sue tattiche poco ortodosse nei confronti degli attaccanti avversari durante i calci d’angolo. Cresciuto nel vivaio del River Plate, aveva poi speso gran parte della carriera negli Stati Uniti.
Juan Carlos Acosta Del Priore, attaccante uruguaiano classe 1957, dopo gli inizi con il River Plate di Montevideo era passato ai Cosmos New York, per poi tentare l’avventura europea in Spagna con Burgos e Recreativo Huelva. Dopo l’esperienza al Terranova, avrebbe proseguito la carriera in Francia, giocando in seconda divisione con CO Le Puy, Angers e Red Star 93.
Jean Pierre Yangara, attaccante nigeriano classe 1958, era noto tra i tifosi per intrattenersi a giocare con i bagnanti del vicino Lido Macchitella durante la stagione estiva. La sua carriera pre e post-Terranova resta avvolta nel mistero, con alcune fonti che lo indicano successivamente al Vittoria in Sicilia e forse al Sedan Ardennes in Francia.

Un esperimento pionieristico
Venti calciatori stranieri in una piccola squadra di provincia: un esperimento che, seppur fallimentare dal punto di vista dei risultati, può essere considerato pionieristico per l’epoca. Il Terranova Gela anticipò di oltre un decennio quello che sarebbe diventato la norma dopo la sentenza Bosman: squadre composte in gran parte da giocatori stranieri provenienti da ogni angolo del pianeta. Un esperimento forse troppo audace per i suoi tempi, ma che ora appare come una straordinaria anteprima del calcio globalizzato che conosciamo oggi.