Il vaccino e le Copa Mundial

Sono nato nel 1969 in un quartiere popolare nella periferia sud di Milano. Non ho dei ricordi nitidi del mondiale del ‘74, ma quelli del ‘78 in Argentina li ricordo perfettamente, così come ricordo di aver fatto di corsa, insieme ai miei due fratelli più piccoli, i 4 piani di scale che ci separavano dal cortile.

Nel recinto che formava il nostro civico, composto da due cubi identici, c’era un piccolo cortile di cemento delle forme più disparate a seconda di come i palazzoni erano disposti. Il nostro, rivestito di un colore rossiccio, aveva la forma di un trapezio con due panchine in cemento integrate nella parte più lontana dalla strada ma era comunque un campo da calcio perfetto, una porta lato panchine era idealmente delimitata da un grosso buco che si era aperto nella siepe che avrebbe dovuto delimitare il cortile, dal lato opposto anche, l’unico problema era che, alle spalle di quella porta, c’era la ringhiera che delimitava il condominio e lo stradone che all’inizio degli anni ’80 iniziava ad essere sempre più trafficato.

Motivo per cui, se non tiravi bene, basso, o non prendevi la porta ti toccava scavalcare e rischiare la vita schivando le auto, a volte la sfortuna era così tanta che un’auto o un camion arrivando colpivano la palla di muso e ti dovevi fare centinaia di metri per riprenderla. Se andava bene tornavi con la palla tutta sporca di ruote e grasso, a volte ovale. Ma se ci potevi giocare ancora, andava comunque bene.

Quel giorno ricordo che l’emozione per la prima vittoria sulla Francia ci aveva messo addosso una carica incredibile, era il 10 giugno del 1978 non avevo ancora compiuto 9 anni, i miei fratelli ne avevano 8 e 7 ma eravamo tutti e 3 già totalmente ed irrimediabilmente ammalati di calcio.

Nel complesso dove vivevamo trascinavamo tutti in queste partite senza fine anche quelli che non volevano ma che partecipavano lo stesso per non farsi escludere dal gruppo, ovvio che noi tre avevamo la passione dentro e avremmo giocato giorno e notte, gli altri no, molto meno, infatti era diventato necessario soddisfare fuori dal cortile tutta quella voglia di pallone.

Eppure per me non è stato facile arrivare a giocare a pallone, giocare sul serio intendo. Si perché mia mamma, e non so bene perché, aveva altre aspirazioni tant’è che tutti e 3, ancora in età da asilo, siamo finiti in un corso di ginnastica artistica. E l’anno dopo al mini basket!

Poi i miei fratelli, con la decisiva spinta di mio papà, sono finalmente approdati alla scuola calcio della società dilettantistica del nostro quartiere, io purtroppo no, non avevo ancora esaurito le divagazioni alternative di mamma, così il sabato mentre i miei fratelli giocavano le prima partite nelle categorie “primi calci” e “pulcini” io girovagavo per Milano in pantaloni corti di velluto e calzettoni gridando di tanto in tanto luupi lupi lupi lupiiiiii. Eh già, mia mamma voleva che facessi il Boy Scout!

Ne ho dovute versare di lacrime per non essere iscritto ai Lupetti l’anno seguente anche perché mamma si era già esposta con il “capo Sestilia” dicendo che sarebbero arrivati anche i miei fratelli, ma loro chi poteva più toglierli dal campo di calcio? Grazie a mio papà comunque, l’anno dopo i calzoncini corti che indossavo il sabato erano differenti, seppur in grave ritardo ma anche io potevo finalmente vestire la maglia della stessa squadra, e sono entrato direttamente nella categoria che allora si chiamava “debuttanti”.

Le categorie FIGC giovanili a quei tempi erano completamente diverse, lo era lo stesso calcio che sin da piccoli si giocava sul campo intero con i corner calciati dal vertice basso dell’area di rigore, io ho dei ricordi di quegli anni davvero spettacolari così come del mio primo allenatore, un uomo abbastanza duro e molto diretto ma che mi ha insegnato le basi del rispetto per i compagni e gli avversari e soprattutto i fondamentali del calcio in una maniera che adesso non si insegna più.

Peccato anche che non mi facesse mai giocare, ricordo che disse a mio padre che ero un “giocatorino da salotto” pertanto, a differenza dei miei fratelli che giocavano ogni sabato, io andavo sempre in panchina.

Sono passati 40 anni durante i quali ho sempre continuato a giocare, come dilettante mi sono fermato alla promozione, ma è stato un viaggio meraviglioso al quale ancora oggi non ho messo la parola fine.

Adesso gioco un campionato amatori, nel comitato CSI di Milano, in realtà dalla fine dello scorso febbraio, ovviamente non sto più giocando. A dirla tutta, di noi dilettanti ed amatori non sta più giocando nessuno, solo chi milita in competizioni di interesse nazionale può ancora continuare a vivere il proprio sogno di bambino. Perché è palese che la maggior parte di chi ora è professionista non ha mai smesso di essere lo stesso calciatore che era da bambino, questo lo sappiamo tutti.

E questa non vuole essere la solita storia su quello che il Covid-19 ci ha tolto, non dimentica la sofferenza di chi si è ammalato, di chi ci ha lasciato e di tutti coloro che hanno perso qualcuno. Non vuole sminuire i problemi di nessuno rispetto a quelli degli altri, le abbiamo tutti storie di piccola o grande sofferenza da raccontare. È solo un flusso disordinato di pensieri, un piccolo racconto di sport e di speranza.

Si, di speranza (non del ministro) perché, dopo mesi di incertezze alla fine, qualche settimana fa, tutti i TG hanno riportato che ci sarà finalmente un vaccino per il Covid-19, poi un altro, e poi un altro ancora.

Gli effetti di queste notizie sono stati molteplici e diversi tra loro. Qualcuno si è preoccupato di capire per quante persone e dove sarà disponibile, altri hanno sollevato dubbi sulla sua reale efficacia, sui dati reali della sperimentazione, sulla percentuale di successo, quanti richiami, le
temperature di conservazione, e poi sono ovviamente iniziati i confronti tra chi si vaccinerà e chi non vuole, finché ieri si è addirittura parlato di TSO affinché tutti vengano vaccinati.

Ma io non vorrei parlare di politica, francamente il vaccino entra in questa storia solo perché sto pensando continuamente a quando potrò di nuovo scendere in campo. Costantemente.

E dopo le notizie sulla disponibilità del vaccino ci sono stati tutta una serie di effetti collaterali visibili immediatamente, quelli che parte del mondo in cui viviamo, ritiene forse più importanti. Le BORSE sono “schizzate” verso l’alto, sono risaliti i titoli delle compagnie aeree, sono crollati quelli dei colossi dell’intrattenimento domestico, tipo Netflix per capirci.

L’idea alla base di questi meccanismi è semplice, o sei a casa sul divano e ti stordisci di serie TV, film e giochi alla Playstation, oppure fai una vita “normale”. Normale…

È palese che sia meglio prendere un aereo e viaggiare, di tanto in tanto, che passare tutto il proprio tempo in casa con Netflix o con Sky, per dire, penso che sia ovvio, no?

Forse l’unica cosa davvero importante di questa notizia è che per molti si sia accesa la speranza. La speranza di tornare ad una vita “normale”. Normale…

Non so davvero cosa sia normale nel 2020, ormai quasi nulla di quello che si pensava esserlo anche solo pochi anni fa, sicuro niente che lo fosse quando nel giugno del ’78 sono sceso in cortile di corsa per rifare il gol di Zaccarelli alla Francia posizionando amichetti e fratelli sul “campo”. Già, perché il mondo cambia ad una velocità tale che ormai tutto è nuovo da un giorno con l’altro, di nessuna cosa puoi pensare ormai che sia o non sia normale.
È così.
Punto.

Io però, nel mio piccolo, ho deciso di alimentarla da solo la mia speranza.
Resto a casa da quando siamo diventati “zona rossa”, lavoro, guardo la TV, mangio, dormo. Due passi con la mascherina intorno a casa ogni tanto, però non corro, non faccio esercizi al chiuso, non è mai piaciuto, non mi piace nemmeno ora e non sono nemmeno stimolato a farlo.

Tuttavia, qualche settimana fa, un paio di giorni prima che girasse la notizia del primo vaccino, mi sono alzato e la prima cosa che ho fatto, in una delle mie giornate ormai tutte uguali, è stato comprarmi le scarpe da calcio. NUOVE, lo stesso modello che uso, mi pare, dal 1987 o dal 1988. Senza prospettive di usarle a breve, senza nemmeno la certezza di poterle mai mettere, ma un piccolo, flebile segnale di resilienza, un modo per credere in futuro normale.

Perché per me normale è “fare” la BORSA ed andare al campo, vedere i miei compagni, salutarci, sentire l’odore dello spogliatoio, il rumore dello spogliatoio.

Uscendo per andare in campo guardare le BORSE che non crollano ne salgono, lì flosce sulle panche, ferme nello spogliatoio, di nuovo silenzioso, sole in attesa che finisca la partita o l’allenamento. E poi allenarsi, correre, giocare, tornare a casa stanco, con le gambe segnate, a pezzi. Triste o felice, a seconda del risultato, ma vivo!
Normale…

Sono nato nel 1969, quindi ho più di 50 anni. Nemmeno il fatto che mi ostini a giocare e confrontarmi con ragazzi che hanno 20 o 30 anni meno di me è normale, a volte sono più “grande” dell’arbitro. Ieri, ma anche oggi, me li sento addosso tutti i miei anni.

A settembre, quando abbiamo ripreso ad allenarci, scherzavo con il mister. Mi diceva che avrebbe avuto bisogno di un centrocampista dinamico di massimo 30 anni da mettere lì in mezzo al campo. Oh… facciamo il campionato CSI Aziendale, siamo dilettanti, forse anche solo “amatori” un profilo così per noi sarebbe già un lusso.

Beh, ad ogni allenamento gli passavo di fianco mentre correvo e gli dicevo a bassa voce che a fine preparazione avrei avuto, di nuovo, 30 anni. Lui, ridendo, mi rispondeva: beato te…

Poi però ai miei compagni dicevo che era giunta l’ora di prendere un cane e di smetterla di uscire a prendere freddo con loro, il mio posto ormai sarebbe sul divano con la copertina sulle gambe, una bella passeggiata col cane e poi a dormire. Non a correre in un campo di campagna alle undici di sera.
Ma scherzavo.
Dentro di me puntavo più a togliermi gli anni che ad uscire col cane. E anche oggi è così. Ho, abbiamo, davvero bisogno che tutto torni a posto, che sia di nuovo normale.
Normale…

Quando riprenderemo la nostra vita sicuramente non basteranno un po’ di allenamenti a farmi avere di nuovo 30 anni, ma rientrare nello spogliatoio e rimettere le scarpe “a 13” mi darà una carica che mi manca da tanto, troppo tempo ormai. E ricomincerò a correre. E ad allenarmi con la voglia del bambino nel cortile a forma di trapezio.

So per certo che quello che vivo io lo sentiamo in tanti, è dura attendere tempi migliori senza avere la possibilità di fare quasi niente.
Quando tutto questo sarà finito e saremo di nuovo sul campo bisognerà assaporare ogni singolo momento, tutto. Vorrei giocare partite da duecento minuti, ho del tempo da recuperare. E non sarà normale, sarà SPECIALE.

Vi aspetto sul campo ragazzi, io sarò quello con le scarpe nuove.