Il duro del gol
Questa è proprio una storia d’altri tempi. Angelo Schiavio era nato benestante, sesto figlio di papà Angelo, sceso da Como a Bologna a fondare la Schiavio-Stoppani, ditta di abbigliamento. «Pur di giocare nel Bologna» raccontava poi, «avrei pagato di tasca mia». E così per lunghi anni non incassò una lira, si allenava, giocava e segnava per il piacere di interpretare lo squadrone che tremare il mondo fa, rappresentarlo in Nazionale, sentire sulla pelle i colori rossoblu che mandavano in delirio la folla del “Littoriale”.
Stiamo parlando del massimo bomber dei suoi tempi, 342 partite e 245 gol, tutti in A, tutti col Bologna, a cavallo della nascita del girone unico e quindi troppo presto per figurare adeguatamente ai vertici delle statistiche specifiche. Del centravanti che inchiodò l’estremo volo di Planicka ai supplementari della finale di Coppa del Mondo a Roma 1934, fermandolo per sempre nelle foto che ne hanno immortalato la resa, a ginocchia lievemente piegate, a braccia aperte in disperato volo. Solo nel finale di carriera accettò una Lancia Artena, nel 1932, e qualche premio.
Eppure, il Bologna faceva tremare il mondo soprattutto coi suoi gol. Di prepotenza, d’intuito, d’azzardo. Il gol lo aveva nel sangue e lo gettò come una pallina nella roulette non appena gli fecero sporgere il capo sulla prima squadra: diciassette anni, il gol della vittoria. L’allenatore Felsner ne lavorò i fondamentali ammorbidendo il tocco di quell’ariete che entrava in area senza paura, coi gomiti appuntiti e una forza dentro, quella che punta dritto al gol, che non si insegna.
Era nato a Bologna il 15 ottobre 1905, aveva cominciato prestissimo coi colori della Fortitudo, squadra dilettantistica, poi due compagni di scuola più grandi, Baldi e Genovesi, che giocavano nel Bologna, lo avevano segnalato al club rossoblù, che gli mise i suoi colori addosso e non glieli levò più. Abbandonati gli studi a quattordici anni, il fratello Raffaele lo aveva preso a lavorare nel negozio di famiglia. Il calcio era la sua vita:
«Mi allenavo una sola volta alla settimana con la squadra: il giovedì. Per il resto, dovevo prepararmi da solo, al mattino presto e la sera in palestra. Dicevano che mangiavo il pallone, tanto ero abile a mantenerlo: il mio dribbling era molto efficace. Avevo un notevole scatto e un buon tiro. Ma soprattutto non ero emotivo: segnai subito al mio esordio in Nazionale, in Jugoslavia».
Debuttò presto nel Bologna. perché il titolare Alberti aveva il menisco; non avrebbe più rivisto il posto in squadra: non appena guarito, per festeggiare fece una scorpacciata di ostriche, si prese il tifo e morì in pochi giorni. Schiavio invece viveva e avrebbe continuato a vivere per il gol. Il gol e l’azienda di famiglia.
Quattro scudetti, due Mitropa Cup. il Torneo dell’Esposizione di Parigi e anche la Coppa Internazionale con la maglia azzurra. Lasciò la Nazionale dopo il trionfo mondiale, mentre col Bologna durò fino al 1937, poi disse basta: doveva sposarsi e il lavoro portava via troppo tempo. Così lasciò le piste del gol e tornò su quelle della vita, abbandonando completamente il calcio. Si era ritirato da campione del mondo, gli sarebbe bastato per essere un monumento fino alla fine, sopraggiunta il 17 settembre 1990.
Angelo Schiavio
(Bologna, 15 ottobre 1905 – Bologna, 17 settembre 1990)