Inter-Juventus, amici mai

Nerazzurri e bianconeri sono rivali da sempre. Si guardano dall’alto in basso come solo gli aristocratici sanno fare. E difficilmente arriveranno ad amarsi, un giorno.

Vincere è l’unica cosa che conta… Io non rubo il campionato e in B non sono mai stato… Quando stringo la mano a un milanista la lavo, quando la stringo a uno juventino conto le dita… La vera gara tra noi e le milanesi sarà a chi arriverà prima: noi a mettere la terza stella, loro la seconda… Ma si vergogni… Moratti su Calciopoli mi annoia…

Non c’è bisogno di mettere le virgolette, né di attribuire le citazioni. Anzi, non c’è nemmeno bisogno di dire di quale partita stiamo parlando. Quando il campionato italiano riabbraccia Inter-Juventus, le uniche a non abbracciarsi sono loro due, se non come i pugili, che si stringono per interrompere i colpi e poi ricominciare, con metodo e cattiveria.

InterJuventus, che l’era moderna dei social vuole sia #InterJuventus, è il vero Clasico del calcio italiano. Peppino Prisco, storico vice presidente nerazzurro, una volta provo a includere tutte le altre squadre nella rivalità, spiegando che tifava per l’Inter e per tutte quelle che incontravano a turno Milan e Juve. Per un antico Bauscia come lui, la rivalità era anche quella cittadina, certo. Ma InterJuventus è un’altra cosa. Quella cosa per cui due blocchi contrapposti si punzecchiano tutto l’anno per poi scontrarsi due volte a stagione sul campo. E gli altri guardano, Milan compreso.

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Molte volte i duelli verbali di Peppino Prisco e Gianni Agnelli erano più interessanti di quelli in campo

Se MilanJuventus è stata la rivalità mascherata da alleanza politica che ha condizionato la prima metà degli anni Novanta, con un reflusso interrotto solo in quella finale di Manchester nel 2003, InterJuventus è quella partita per cui amici mai. Ma proprio mai, eh. Sul campo così come nel suo riflesso politico. La storia della rivalità e le sue cause sono state rivangate centinaia di volte e trovano radici forti in quel famoso match in cui l’Inter mandò per protesta in campo la Primavera. La questione risale al campionato 1960/61. La rivalità esiste già, è profonda, ma in quel campionato diventa qualcosa di più. Nell’Italia che si incammina verso il boom economico, la partita è anche uno spaccato della società italiana.

La Juventus è nelle solide mani degli Agnelli, mentre l’Inter è posseduta da un magnate dell’energia, Angelo Moratti. Milano contro Torino, due cardini del triangolo industriale del Nord, verso il quale cominciano a convergere i treni dal Sud carichi di volenterosi futuri operai. Quelli che vanno verso Torino, verso le macchine della Fiat, sono in gran parte destinati a ingrossare le fila del tifo bianconero. A Milano c’è ancora netta la divisione tra Bauscia e Casciavitt, tra borghesia e operai: i secondi spesso preferiscono il Milan, mentre fanno la spola tutti i giorni tra la fabbrica e Sesto San Giovanni, destinata a diventare la Stalingrado d’Italia.

La Juventus è la squadra che vince di più in Italia, l’Inter già dal nome cerca una vocazione internazionale che dopo la reprimenda del fascismo, che l’ha costretta a chiamarsi Ambrosiana, troverà sfogo nelle due Coppe Campioni vinte di lì a qualche anno. Entrambe sono figlie del capitale massiccio che si sta imponendo nel Paese. Entrambe sono destinate a guardarsi dall’alto in basso, senza che nessuno capisca mai davvero chi sta sopra e chi sotto.

Entrambe sono figlie del capitale massiccio che si sta imponendo nel Paese. Entrambe sono destinate a guardarsi dall’alto in basso, senza che nessuno capisca mai davvero chi sta sopra e chi sotto. Nel campionato 1960/61 l’Inter ha vinto 2-0 all’andata a San Siro. Al ritorno i nerazzurri, dopo aver dominato il girone d’andata, stanno calando vistosamente. In panchina c’è un tizio argentino che non fa altro che urlare “Taca la bala”. Al ritorno, c’è molta aspettativa. La Juventus gioca al Comunale, che il 16 aprile è talmente pieno che alcune persone sono costrette a sedersi sulla pista d’atletica, vicino al campo. Dopo circa mezzora di gioco, l’arbitro sospende il match per questioni di ordine pubblico e applica il regolamento, che prevede che la vittoria vada a tavolino alla squadra ospite per 0-2. La Juventus fa ricorso al Caf e ottiene che la partita venga rigiocata. Problema: la decisione arriva il 3 giugno, poco prima della fine del campionato. Altro problema: Umberto Agnelli, oltre ad essere presidente della Juve, è anche numero uno della Federcalcio.

L’Inter perde 2-0 a Catania (“Clamoroso al Cibali”, dice Sandro Ciotti dalle radioline di tutta Italia) il 4 giugno. La squadra è abbattuta e Moratti, d’accordo con Herrera, decide di mandare in campo nella ripetizione le giovanili. Da una parte c’è un giovanissimo Sandro Mazzola, che al mattino ha sostenuto gli esami di ragioneria a scuola mentre un’auto della società lo aspettava di fuori. Dall’altra ci sono il gigante buono Charles e il Cabezon Sivori. E l’italo-argentino non si lascia sfuggire l’occasione. Finisce 9-1 per la Juventus. Sivori segna sei gol e otterrà il Pallone d’Oro. Boniperti, che ha 33 anni, a fine gara dice basta con il calcio giocato. Vincere è l’unica cosa che conta.

Da qui in avanti, Inter-Juventus non sarà più la stessa. Il calcio italiano si divide inevitabile in due blocchi che mia si ricomporranno. Il corso del tempo, che dicono sia gentiluomo, sarà invece cattivissimo. Nel 1998 l’Italia ha superato una difficile situazione economica a inizio decennio, tanto che il campionato più bello del mondo che ha riaperto le frontiere negli anni Ottanta ospita campioni e vagonate di miliardi. Certo, buona parte di questi soldi verranno poi bruciate in spericolate azioni finanziarie tra proprietari di aziende di pomodori e di latticini, ma questa è un’altra storia, che resta fuori da InterJuventus.

Da una parte ci sono ancora gli Agnelli, dall’altra sempre Moratti, stavolta il figlio. C’è ancora quel senso di aristocrazia nell’aria, di sfida che è anche sociale. Quando Ernesto Pellegrini, il re delle mense, si era comprata la Beneamata, Gianni Agnelli lo aveva salutato così: “Ormai in Italia non c’è più ritegno se anche il mio cuoco può comprarsi una squadra di calcio”. Poi era tornato Moratti, con il figlio Massimo che aveva provato a infilarsi nel duopolio MilanJuventus. Di quel giorno di aprile del 1998 ricordiamo tutto, complice un calcio che stava via via cedendo sempre più spazio alle tv. Ronaldo che si scontra con Iuliano, il rigore dato alla Juve sul ribaltamento di fronte. Ma si vergogni. Sapete solo rubare.

Si consolida una rivalità. I blocchi. Vincere è l’unica cosa che conta da una parte, voi rubate e noi piangiamo dall’altra. Ancora una volta, ci si guarda dall’alto in basso. Ancora una volta, non è chiaro chi sta sopra e chi sotto: ognuno ha le sue ragioni. L’Inter gonfia il petto per Calciopoli e ci appunta sopra uno scudetto che tutti gli altri amano definire di cartone. “Questo è lo scudetto della correttezza e del rispetto delle regole”, dice Facchetti. “Quello non è uno scudetto. Uno strano fregio che vedo sulle maglie dei giocatori ai quali comunque non appartiene”, dice Nedved.

La Juve va in B, i nerazzurri fanno il Triplete. Poi tutto si ribalta, di nuovo, sul campo. A Torino ci sono ancora gli Agnelli, a Milano arriva Thohir e poi Steven Zhang, ma Moratti è vivo e lotta insieme a noi. La Juventus è ancora italiana, l’Inter è internazionale nel vero senso della parola: la Juventus ha lo stadio nuovo che diventa modello italiano, l’Inter assume dirigenti stranieri per rilanciarsi.

All’interista piace crogiolarsi nella lamentela, ma non lo ammetterà mai. Lo juventino pensa solo allo scudetto: non lo dice, ma lo fa. L’interista si sente onesto, per lo juventino è un prescritto cartonato. A San Siro se stai perdendo c’è gente che si alza dopo un’ora, anche se si stanno facendo passi avanti. Allo Stadium fanno sempre il tutto esaurito.

“L’Inter è squadra femmina, quindi passionale, volubile, e pertanto agli antipodi del pragmatismo che caratterizza la Juventus” diceva Brera. E nel suo scrivere aulico e pastoso, non poteva dirlo meglio.

Testo di Alessandro Oliva