Nel 1998, la sfida Mondiale tra USA e Iran andò oltre lo sport, diventando un momento di riconciliazione tra due nazioni divise da tensioni politiche e ideologiche.
Era il dicembre 1997 quando il sorteggio dei gironi per i Mondiali di Francia ’98 regalò al mondo una sfida dal sapore epico – gli Stati Uniti contro l’Iran, due nazioni, ieri come oggi, separate da un abisso di tensioni politiche e ideologiche. Un match carico di significati che andava ben oltre il semplice calcio.
Le radici del conflitto
Le tensioni tra i due Paesi risalivano alla Rivoluzione Islamica iraniana del 1979, quando l’ayatollah Khomeini aveva deposto lo scià filo-occidentale e instaurato una repubblica islamica apertamente anti-americana. Nei mesi successivi, un gruppo di studenti aveva occupato l’ambasciata USA a Teheran, prendendo in ostaggio 52 persone per 444 giorni. Un atto di sfida al “Grande Satana” che gettò le basi per decenni di gelo tra i due paesi.
Eppure, mentre i governi continuavano a fronteggiarsi, qualcosa di straordinario stava per accadere sui campi di calcio di Francia. Due squadre si preparavano inconsapevolmente a regalare al mondo un momento di riconciliazione attraverso il linguaggio universale dello sport.
Due squadre allo sbando
L’Iran, alla prima presenza mondiale dal 1978, era reduce da una fase di qualificazione drammatica, culminata con un gol all’ultimo respiro che aveva spezzato il sogno dell’Australia di Terry Venables. Ma il trionfo si era tramutato presto in caos. Il CT brasiliano Vieira, artefice della storica qualificazione, venne esonerato per le sue presunte derive “occidentali” e sostituito dal croato Tomislav Ivic. Quest’ultimo però non riuscì a imporsi, lasciando dopo soli 5 mesi la panchina a Jalal Talebi, ex calciatore residente in California con a disposizione solo 3 settimane per rimettere in sesto la squadra.
Dall’altra parte, gli USA di Steve Sampson erano una polveriera. Dopo l’exploit casalingo del 1994, il sogno di un calcio in ascesa si era infranto contro l’incapacità di gestione dello stesso Sampson. Il CT, alle prime vere esperienze da allenatore, aveva emarginato alcuni senatori come Ramos, Balboa e Lalas, innescando un’aperta rivolta che aveva inquinato l’atmosfera dello spogliatoio. L’esclusione dell’idolo John Harkes per una relazione extraconiugale con la moglie dell’amico Wynalda aveva poi fatto precipitare la situazione.
Tensione a Lione
Eppure, il 21 giugno 1998, queste due compagini un pò allo sbando si ritrovarono di fronte sul prato del Gerland di Lione. Un palcoscenico che, in quelle ore, avrebbe mostrato il lato più nobile e unificante del calcio.
Quando le due squadre scesero in campo, la tensione era palpabile. La polizia francese era in stato di allerta massima per il timore di attentati. L’ayatollah Khamenei aveva vietato ai suoi calciatori di avvicinarsi agli americani prima della partita, un divieto superato solo grazie alla mediazione di un connazionale della FIFA. Così nel prepartita, gli iraniani omaggiarono i rivali con rose bianche, simbolo di pace.
La partita
Gli Stati Uniti partirono subito all’attacco, sfiorando il vantaggio dopo soli 3 minuti con una incornata di Brian McBride che si stampò sulla traversa. Per buona parte del primo tempo furono gli americani a fare la partita, schierati da Sampson con un ardito 3-5-2 per ribadire la superiorità offensiva. Claudio Reyna colpì un secondo legno di testa al 30′.
L’Iran però non era lì per caso. Talebi aveva plasmato una formazione solida e micidiale in contropiede, mescolando con abilità l’organizzazione difensiva insegnata da Ivic alla classe dei talenti come Daei e Azizi, eroi dell’esaltante qualificazione. E proprio cavalcando un rapido ribaltamento di fronte, gli iraniani passarono inaspettatamente in vantaggio allo scadere del primo tempo. Un cross dalla sinistra trovò l’inserimento del centrocampista Hamid Estili, che di testa scavalcò Kasey Keller mandando in visibilio i connazionali sugli spalti.
La ripresa vide un copione simile, con gli USA a premere costantemente sull’acceleratore. McBride e compagni si divorarono altre nitide palle gol, colpendo addirittura una terza traversa con un’incursione del neo entrato David Regis. Ma se gli americani faticavano a trovare la via della rete, gli iraniani erano chirurgici nei rapidi ribaltamenti di fronte. Così al 65′ il ventiduenne Mehdi Mahdavikia, soprannominato “il razzo” per la sua esplosività, ripartì da solo dalla propria trequarti e fulminò Keller con un diagonale imprendibile, siglando lo 0-2 che di fatto chiuse i giochi.
Il gol della bandiera di McBride poco dopo non poté che essere un tardivo e inutile consolazione per gli USA, già fuori dai giochi dopo le due precedenti sconfitte. L’Iran invece festeggiava la prima, storica vittoria mondiale, coronando un’avventura al cardiopalma e mettendo una seria ipoteca sulla qualificazione agli ottavi.
Oltre il risultato
Eppure, quella partita rappresentò molto più di un semplice risultato sportivo. Per 90 minuti, il calcio aveva abbattuto barriere invalicabili, unendo nella passione due popoli tradizionalmente divisi. I tifosi si abbracciarono festanti sugli spalti, mentre i giocatori si prestarono ad una foto di gruppo nel post-partita.
“Abbiamo fatto più noi in 90 minuti che i politici in 20 anni“, commentò Jeff Agoos, terzino degli USA. Un sentimento condiviso da molti, compresi i leader delle due nazioni che colsero l’occasione per ridare slancio al dialogo tra i due paesi.
Nei giorni successivi, ambasciatori sportivi come Claudio Reyna promossero iniziative per cementare quell’inaspettato spirito di riconciliazione. Due amichevoli tra le due nazionali vennero programmate, una tenutasi regolarmente a Pasadena nel 2000, l’altra prevista in Iran ma poi cancellata per le eccessive tensioni lungo il percorso organizzativo.
La partita di Lione, però, aveva già raggiunto il suo scopo. Un breve istante di tregua in cui il gioco più bello aveva dimostrato la sua straordinaria capacità di abbattere pregiudizi, ricucire strappi e riavvicinare due mondi solo apparentemente inconciliabili. Una lezione di umanità più forte di ogni divisione politica o religiosa.