Italia 1982: I Grandi di Spagna

Dal buio di Vigo alle luci di Madrid. Una sfida impossibile finita in trionfo… Ecco una splendida rilettura del più incredibile dei trionfi azzurri.


Ventidue leoni in gabbia si aggirano negli spazi dell’hotel Castillo di Sant Boi de Llobregat, peri­feria di Barcellona. Ventidue uomini toccati, feriti e inquieti. Dal fresco di Vigo alla canicola ca­talana hanno portato sulle spalle una messe di risentimenti e una novità assoluta per il calcio italiano: il silenzio stampa.

Il mondiale spagnolo è giunto alla seconda fase. Le po­tenze sono ancora tutte in corsa, anche se nella maggior parte dei casi il loro cammino non è stato trionfale: la Spa­gna padrona di casa ha superato la Jugoslavia solo in virtù di una condotta arbitrale da censura; l’Argentina campione in carica ha accusato un passo falso contro il Belgio; Germa­nia Ovest e Austria hanno fatto fuori una splendida Algeria accordandosi spudoratamente nell’ultima partita. Solo In­ghilterra e Brasile hanno ottenuto il lasciapassare a punteg­gio pieno. Addirittura, lo squadrone sudamericano ha mes­so a segno dieci reti, subendone solo due.

Quanto all’Italia, si può definire grande solo per i fasti passati. Non sembra esserci più traccia della squadra che quattro anni prima, rinnegando il cinismo del calcio all’ita­liana, ha sfiorato la finale. Nel clan azzurro c’è aria pesante, alimentata dai responsi delle premondiali: sconfitta (0-2) con la Francia a Parigi; sconfitta (0-1) a Lipsia con la Ger­mania Est; pareggio incolore a Ginevra contro la Svizzera. Addirittura sconfortante il test sostenuto a tre giorni dal de­butto contro il Braga, serie B portoghese: 1 a 0, gol di Graziani e una manovra contratta e involuta.

Bearzot è il testardo capo di questi masnadieri ormai pri­vi di nerbo. E dire che la squadra è quella presentata in Ar­gentina nel ’78, salvo alcuni rimpiazzi imposti dalla carta di identità e la dolorosa rinuncia a Bettega, infortunato. Una quasi unanime campagna di stampa, nell’imminenza del mondiale, ha cercato di suggerire al condottiero friulano la chiamata del “genio” interista Beccalossi, che a 26 anni ha raggiunto i vertici della sua arte calcistica.
Ma Bearzot non ha sentito nessuno, per Beccalossi nella sua idea di squadra non c’è posto. Alla partenza per la Spagna, a Fiumicino, il commissario tecnico si è anche dovuto difendere da un in­sulto urlato con rabbia da una ragazza: «Bastardo!». Lo ha fatto rifilandole un ceffone, a scopo educativo.

I leoni in gabbia, nel “retiro” di Barcellona, non hanno certo superato le tensioni della vigilia. Anzi, il cammino fat­to nella prima fase dei campionati, benché concluso con la qualificazione, li ha messi ancor più alla berlina. Pareggio, discreto, con la Polonia; pareggio, brutto e affannoso, con il Perù; pareggio, opaco e calcolato, con il Camerun. Risul­tato: secondo posto nel girone e passaggio alla seconda fase per differenza reti, ai danni del Camerun.

Le critiche sono cresciute dopo ogni prova e dall’Italia hanno raggiunto gli azzurri nell’umida dimora di Vigo. Cri­tiche al gioco, al difensivismo a oltranza, all’impreparazione fisica, all’ostinazione di Bearzot nel tenere in campo il palli­do, smagrito e inconcludente Rossi. Già, proprio il Pablito strepitoso di Argentina, rimasto impegolato nello scandalo scommesse e uscito dai due anni di squalifica proprio qual­che settimana prima dell’inizio del mondiale. Per il pubblico che lo attendeva come il messia quei due anni non sono passati, ma per Rossi sì. Il ragazzo sorridente e disponibile di prima adesso si isola ed evita per quanto possibile i giornalisti. Si capisce che la squalifica, per fatti di cui si è sempre dichiarato innocente, lo ha segnato non so­lo nel fisico.

Al ritiro azzurro si è presentato cinque chili sottopeso e ancora non li ha recuperati tutti. Le difficoltà evi­denziate anche nelle giocate più semplici, la condizione atletica inquietante, l’evanescenza nello scontro fisico, gli hanno rapidamente alienato i favori del pubblico. Durante un allenamento, alla vigilia dell’incontro con il Camerun, un italiano gli ha gridato al megafono: «Rossi, sei comico!». Per lui ha reagito Graziani: «Se siete venuti solo per attac­carci potevate restare a casa». Anche quando tutti ne chie­dono la testa, Bearzot continua a ritenere Rossi troppo im­portante per non attenderne il risveglio.

Ma gli strali polemici non sono venuti solo dalla stampa. Dopo la partita col Perù hanno chiesto a Matarrese, presi­dente di Lega, se Catuzzi, allenatore del suo Bari, si sarebbe comportato come Bearzot; cioè, se avrebbe mandato in cam­po Causio, e non un attaccante, al posto di Rossi. La risposta: «Non offendiamo Catuzzi». E ancora: «Al posto del presiden­te federale Sordillo non sarei sceso negli spogliatoi, perché avrei dovuto prendere tutti a calci nel sedere». E dall’Italia è giunta anche la bordata del giovane tecnico Fascetti: «Mi ver­gogno di appartenere alla stessa categoria di Bearzot».

Fin qui, rilievi più o meno tecnici. Ma c’è dell’altro. Innanzitutto la diatriba sul premio di qualificazione: si è parlato di 60-70 milioni a testa e su tali voci si sono levate proteste nell’opinione pubblica, un’interrogazione parla­mentare e un esposto alla Procura della Repubblica di Ro­ma. Poi è intervenuto Sordillo, precisando che ogni azzur­ro avrebbe ricevuto una ventina di milioni lordi. E Carraro, presidente del Coni, ha assicurato che per il pagamento si sarebbero utilizzate le percentuali sugli incassi. A questa tensione di fondo si è aggiunta poi una ventata di basso giornalismo, con volgari insinuazioni su Rossi e Cabrini compagni di camera.Insomma, l’aria di Vigo si è rivelata umida in tutti i sensi. Così, al momento di lasciare la Galizia per Barcellona, la squadra, provata anche psicologicamente dalla passata paura dell’eliminazione, ha annunciato il silenzio stampa. Nessun giocatore, a termine indefinito, avrebbe più rilasciato dichiarazioni, salvo capitan Zoff.

Al sole di Barcellona, quindi, gli azzurri si leccano le ferite e meditano una vendetta difficilissima, considerati gli abbinamenti per la seconda fase. Con il secondo posto del turno eliminatorio, l’Italia s’è guadagnata infatti due ter­ribili compagni d’avventura: Argentina e Brasile. La prima arrivata di questo terzetto va in semifinale, le altre a casa.
Bearzot ha un unico credo: difendere i suoi, fino allo stremo. Rivelerà poi di aver visto nella fase eliminatoria, in particolare contro il Perù, la squadra letteralmente terroriz­zata dalla paura di perdere; ma intanto distribuisce ai gioca­tori elogi che, a fronte della realtà, paiono senz’altro esage­rati.

I giocatori, di conseguenza, fanno blocco in favore del loro tecnico, anche se, per la verità, qualche crepa affiora: il giovane Massaro, per esempio, è segnalato come uno dei più in forma, ma si dice sia stato “cancellato” da Bearzot do­po l’amichevole di Braga, quando il giocatore ha espresso critiche ai compagni. E Altobelli, che in allenamento segna a ripetizione, rimugina amaro sul suo ruolo di panchinaro. L’emergente Dossena, invece, che molti vedrebbero volen­tieri in squadra, si adatta di buon grado a fare il “turista”.

II silenzio stampa non piace al presidente Sordillo, che prima del debutto nel secondo turno, contro l’Argentina, tenta di convincere la squadra a desistere. Zoff risponde picche. Di fronte all’Italia di Vigo, l’Argentina sembra uno sco­glio titanico. Rispetto a quattro anni prima, i campioni del mondo hanno aggiunto al loro organico un po’ invecchiato il miglior giocatore in circolazione, quel Maradona che gio­cherà davanti ai suoi prossimi tifosi, visto che ha da poco fir­mato un contratto principesco con il Barcellona. Maradona con la palla al piede fa prodigi che non si vedevano dai tem­pi di Pelè. Degli azzurri lo conosce molto bene Tardelli, che lo ha affrontato due volte: la prima con la Nazionale nel ’79, a Roma; la seconda in un’Argentina-Resto del Mondo. In quest’ultima occasione Tardelli fu espulso per rudezze ai danni del giovanissimo e imprendibile avversario.

Bearzot fa strenua pretattica, non vuole dare alcun vantaggio al carismatico Menotti, tecnico avversario, con il quale i rapporti non sono al momento idilliaci. L’argenti­no, infatti, ha imbastito critiche abbastanza dure nei con­fronti della squadra azzurra, definita “squilibrata” e netta­mente inferiore a quella presentata in Argentina. Bearzot non digerisce e rimanda al mittente: «Anche la sua squadra, durante le amichevoli premondiali, poteva essere definita squilibrata. E poi cosa ne pensa della prestazione dei suoi contro il Belgio?».
Schermaglie a parte, il cittì azzurro non ha intenzione di toccare nulla rispetto agli uomini impiegati contro il Camerun: Zoff tra i pali; Collovati, Gentile e il libero Scirea a for­mare il pacchetto difensivo, con Cabrini fluidificante a sini­stra; a centrocampo, Oriali, Tardelli e Antognoni, con il supporto di Conti; Rossi punta centrale, Graziani in appog­gio.

Rimane un unico dubbio: chi marcherà Maradona? Bearzot è indeciso fra Tardelli e Gentile. Ma Maradona gio­ca in chiave esclusivamente offensiva, e Tardelli su di lui dovrebbe fare il difensore puro, privando così la squadra di una spinta importante. Così, negli spogliatoi, a pochi minu­ti dal fischio d’inizio, Bearzot prende da parte Gentile e gli fa un discorsetto di questo tipo: «Maradona lo prendi tu. E’ un grandissimo, il tuo compito è fondamentale. Ma io ho fi­ducia in te. Va’ in campo e annullalo». Per uno come “Gheddafi” basta e avanza: l’ultimo momento in cui Mara­dona può muoversi senza un’ombra azzurra appiccicata ad­dosso è quello del riscaldamento.

Il piccolo Sarrià, secondo stadio di Barcellona dopo il Nou Camp, è una fornace ribollente: le prime fasi si risolvo­no in una sequela di scontri durissimi. Gli azzurri mostrano i tacchetti, ma dall’altra parte, con gente come Passarella e Gallego, non ricevono sorrisi. Maradona prova ad esibirsi, si vede che il suo bagaglio è superiore. Ma l’ombra azzurra che gli è alle costole sembra avere cento mani e cento piedi: il “pibe de oro” è trattenuto, bloccato, “massaggiato”. E quando, verso la metà del tempo, riesce ad andar via e pun­ tare dritto alla porta, viene steso senza pietà dal classico e generalmente correttissimo Scirea.

Si va al riposo sullo 0 a 0. Neanche male, almeno non si sono riviste le mollezze e i timori di Vigo. E nella seconda parte, dopo una dozzina di minuti, parte dai piedi di Conti un contropiede che taglia in due i biancocelesti. L’ultimo tocco è di Antognoni per la veloce sovrapposizione di Tardelli che, spostato a sinistra, piazza un rasoterra nell’angolo lontano. E’ una rasoiata al petto dell’Argentina. Un sogno? Neanche per idea, perché da quel momento l’Italia tiene botta di fronte agli attacchi avversari senza concedere più nulla.

Lo stesso Gentile non ricorre nemmeno più al fallo per fermare Maradona. Gli azzurri formano ora un mecca­nismo perfetto, in cui lo stesso Rossi dà cenni di ripresa. E proprio a Rossi, poco dopo, capita l’opportunità di filare da solo verso il portiere Fillol. Al momento della battuta, in preda alla fatica e a tutte le sue tensioni irrisolte, Paolo si rattrappisce scomposto e consente a Fillol la respinta. Il mondo potrebbe crollargli addosso, se quel pallone non fosse subito artigliato e giocato magicamente da Conti, che dopo aver nascosto la sfera allo stesso Fillol, la serve indie­tro a Cabrini. Sinistro secco e 2 a 0.Ora si va in discesa. Esce esausto Rossi ed entra Altobelli, appena in tempo per prendersi una perfida gomitata in fac­cia da Passarella. Lo stesso Passarella calcia una punizione mentre Zoff sta ancora sistemando la barriera e porta l’Ar­gentina sul 2 a 1, fra le proteste italiane. In chiusura, folleg­gia ancora Bruno Conti, capace di uscire palla al piede da un nugolo di gambe che lo falciano come motoseghe.

Cosa è successo? Non è facile spiegarlo, sta di fatto che i giocatori hanno trasformato la sindrome da assedio da cui è nato il silenzio stampa in una straordinaria forza morale. Ecco cosa meditavano i leoni in gabbia, nella tesa vigilia. Bearzot si presenta in sala stampa senza sorridere. Anche per lui è una rivincita ed evidentemente le ultime polemi­che il cittì le ha ancora sullo stomaco. Pur nel successo, ten­de ancora a giustificare le precedenti magre: «Nelle prime partite – dice – c’è mancato il colpo del k.o.».Fra gli azzurri, molti cominciano a pensare che sarà diffi­cile fermare la “nuova” Italia. Eppure, è alle viste l’incontro con i “mostri” brasiliani, predestinati al trionfo. Intanto, c’è modo di rilassarsi. Il giorno dopo la battaglia, Graziani, Ros­si e Collovati scendono presto in sala video per rivedersi l’incontro. Gli altri dormono fino a tardi e nel pomeriggio sciamano per le vie di Barcellona in tutta libertà. Chi vuole, può tornare anche alle soglie della mezzanotte.

La mattina del 2 luglio, a Casa Italia piomba il presi­dente del Consiglio Spadolini, diretto a Madrid. Non sono momenti facili per lui e per il suo governo. Ma soprattutto non sono momenti facili per l’Italia, che si scopre infestata dalla P2 e nelle more oscure dell’affare Calvi, trovato qual­che giorno prima impiccato a Londra. Di fronte a Spadoli­ni, Sordillo si lancia in un discorso aulico, con riferimenti addirittura alla fatale avventura di Leonida alle Termopili.Nel pomeriggio, gli azzurri si recano di nuovo al Sarrià, ma questa volta in veste di spettatori interessati: c’è Argenti­na-Brasile, un grande classico del calcio mondiale. Il Brasile signoreggia contro un avversario ormai provato. Uno, due, tre gol, a cui gli argentini oppongono solo una segnatura in extremis. Maradona si fa prendere dall’ira, piazza i bulloni sul fianco di Batista e conclude il suo mondiale con un car­tellino rosso. A scusante della sua magra pone i colpi presi contro l’Italia. «Non è ancora maturo», sentenzia il grande Pelè, che ha invece eletto Bruno Conti a suo preferito.

Italia-Brasile è quindi lo scontro decisivo. A Casa Italia i rapporti fra stampa e squadra non sono certo tornati alle­gri: fra Gentile e Lino Cascioli del Messaggero si viene quasi alle mani. Ai sudamericani basta il pareggio, per la migliore differenza reti. Bruttissimo affare: bisognerà scoprirsi. Nelle certezze del Brasile affiora comunque qualche preoccupa­zione. Il selezionatore Santana teme il contropiede azzurro e si dice ammirato dalle giocate di Conti e Antognoni. Le due squadre sono al completo, l’unico dubbio è la presenza di Zico, maestro fra i maestri, vittima di un’entrata assassina di Passarella. L’opinione comune è che fra le due formazio­ni ci sia un forte divario. Eppure, nel cammino trionfale del Brasile è possibile intravedere piccole falle, soprattutto nella scarsa affidabilità del portiere Valdir Peres e nell’assenza di un uomo d’area più prolifico di Serginho. Inoltre, gli italia­ni hanno riposato cinque giorni, i loro avversari due.Zico passa la vigilia con la borsa del ghiaccio sul polpac­cio sinistro, ma alla fine decide di giocare. Bearzot ha previ­sto di affidarlo a Oriali, dirottando Gentile sull’ala Eder, mancino temibilissimo. Invece, proprio dieci minuti prima dell’inizio, Bearzot chiama Oriali e Gentile e rimescola le carte: «Ti ho visto molto bene su Maradona – dice a Gentile – perciò prendi anche Zico. Oriali va su Eder».

Sul campo, gli azzurri fanno la parte delle vittime predestinate solo per 5 minuti. Poi, Conti opera un lungo dribbling sull’out destro, cambia gioco per Cabrini, che alza la testa ed effettua il traversone arcuato. E’ un attimo: die­tro ai difensori si materializza Rossi, che di testa va a coglie­re l’angolo lontano. Incredibile: gol al Brasile e gol di Rossi! Il Brasile è un gigante colpito da un pallino di gomma: qualche secondo dopo ha già ripreso a infiorettare gioco con somma noncuranza dell’avversario. E fortuna che Serginho ciabatta malamente a tu per tu con Zoff. Poco dopo, però, Zico ruba il tempo a Gentile e chiama all’incursione Socrates: il “Dottore” accenna il cross e va invece beffarda­mente a trafiggere Zoff sul primo palo.

L’illusione è durata poco. I brasiliani fanno girare palla con sicurezza, orchestrati dal centrocampo delle meraviglie: Falcao, Cerezo, So­crates, con gli apporti di Junior e Eder. Zico è una volpe: le sue giocate di prima mandano spesso a vuoto Gentile, che in una occasione gli si aggrappa alla maglia e gliela strappa. Ma la troppa sicurezza a volte tradisce: su un passaggio oriz­zontale di Leandro, Cerezo e Junior la prendono un po’ al­la leggera; fra i due sbuca Rossi, davanti al quale si spalanca il corridoio verso la porta avversaria. Breve corsa verso Valdir Peres, botta di destro e gol. Eccolo di nuovo il Pablito conosciuto in Argentina, il predatore che riesce a farti rim­piangere per la vita un attimo di disattenzione. Intanto, Collovati è uscito per infortunio e Bearzot ha mandato in cam­po il non ancora diciannovenne Bergomi, che i compagni, per l’aria seria e i baffoni, chiamano “zio”.

Tutto sembra filare liscio, nel secondo tempo, fino a quando il romanista Falcao trova una buco centrale al limite dell’aria e batte Zoff. La sua gioia sfrenata è la nostra di­sperazione, anche perché mancano solo 17 minuti. Il Brasi­le a questo punto vuole il trionfo, continua ad attaccare an­che se il pareggio gli va benone. L’Italia guadagna un cor­ner, la difesa respinge dalle parti di Tardelli, che tenta la battuta. Non sarebbe niente di straordinario, se in mezzo al­la mischia non sbucasse un piede di Pablito a mettere den­tro per la terza volta. Per Rossi un tris memorabile, ma per l’Italia non è finita.

Gli attacchi brasiliani adesso sono dispe­rati e affannosi. Zoff ha urlato come un ossesso durante tut­ta la partita e adesso sembra non aver più neanche un filo di fiato. Ma su un colpo di testa di Cerezo, si lancia sulla sinistra e blocca la palla proprio sulla linea, togliendo dieci anni di vita a milioni di italiani. Va via l’Italia in contropiede, Antognoni tira e fa gol, ma l’arbitro annulla per un fuorigio­co che non esiste. E bisogna soffrire qualche altro minuto, prima del triplice fischio.I tifosi brasiliani, che nei giorni precedenti avevano riempito di musica e balli le ramblas, rimangono impietriti. Piangono, come piange Falcao in campo. La festa italiana comincia invece all’unisono a Barcellona come nelle nostre piazze. Ricompaiono bandiere tricolori tirate fuori da chissà quale anfratto.

Rossi è un eroe. Perfino quelli che lo trattavano da bido­ne vanno a manifestargli la loro ammirazione. In novanta minuti ha rimesso la sua carriera su binari lasciati due anni prima. All’hotel Castillo adesso regna l’euforia. Gli azzurri ormai sono straconvinti che nessun ostacolo si potrà frap­porre alla conquista del mondiale.
In semifinale ci tocca la Polonia. Grave rischio: dopo le imprese con Argentina e Brasile, i polacchi, già incontrati nella prima partita, possono essere considerati solo una for­malità da sbrigare in tutta fretta. Tanto più che il loro uomo migliore, il prossimo juventino Boniek, è squalificato. Qual­che problema, in verità, ce l’ha anche Bearzot: Gentile non ci sarà, anche lui per squalifica; Vierchowod, suo eventuale sostituto, è infortunato; Tardelli e Oriali sono malconci, ma in grado di farcela. Al posto di Gentile gioca Bergomi.

Barcellona è un forno a 40 gradi. Titola la “Van­guardia”: «La temperatura più alta del secolo». Ribadisce il “Noticiero”: «Un cinturone di fuoco attorno a Barcellona». Sale anche la temperatura degli italiani, il cui numero nel capoluogo catalano è aumentato notevolmente. Contro la Polonia si gioca nello sterminato Nou Camp. Stavolta è l’Italia a recitare la parte della favorita. I polacchi si difendo­no non senza rudezze, ma per il gol del vantaggio bisogna aspettare solo una ventina di minuti. Calcio di punizione dalla destra di Antognoni e palla in rete. Ci vorranno due o tre replay per accorgersi che su quella traiettoria è spuntato il piede rapinoso di Rossi per una deviazione fatale. Poco dopo, lo stesso Antognoni, ancora toccato dal gol annulla­togli contro il Brasile, va a tentare un’improbabile conclu­sione, benché in ritardo sull’avversario. Risultato: squarcio sul piede e sette punti di sutura. Al suo posto, Marini. Sorte analoga tocca nel secondo tempo a Graziani, sostituito da Altobelli per un infortunio alla spalla. Ma l’Italia va spedita verso la finale, così come va spedito Conti sulla fascia sini­stra, prima di crossare un morbido e comodo pallone, sul quale Rossi si inginocchia firmando il 2 a 0 definitivo.

Cinque gol in due partite: nei giorni bui di Vigo, Rossi aveva cercato di profetizzare: «Giudicatemi alla fine. Credo che se segnassi un gol mi sbloccherei». Ma quanti gli aveva­no prestato fede?Uscendo dal campo, Zoff si avvicina a Bearzot, che si in­trattiene con una televisione, e lo bacia. In quel gesto fra friulani schivi c’è la compattezza e la coesione di tutto l’or­ganico. Al di là delle scelte tecniche, sembra questo il tratto distintivo di questa nazionale.

Bene, è finale. Una finale di straordinario valore simbolico, visto che metterà di fronte due grandi della sto­ria del calcio: Italia e Germania Ovest. Entrambe le nazio­nali aspirano a raggiungere il Brasile con i suoi tre titoli mondiali, I tedeschi hanno agganciato la finale ai rigori contro la Francia, dopo essere stati in svantaggio di due gol ai tempi supplementari. Ce n’è abbastanza per alimentare la loro fama di irriducibili. Ma l’Italia ormai ci crede se ci fosse uno strumento per misurare la carica agonistica, con gli azzurri scoppierebbe.

Ecco Madrid, finalmente: la comitiva italiana alloggia all’Hotel Almeda, già prenotato dai brasiliani, Ma guarda un po’ come va a ripetersi la storia: nel ’38, prima della se­mifinale Italia-Brasile, Pozzo andò dai brasiliani che in vista della finale avevano prenotato l’unico aereo per Parigi, a chiedere di cedere i posti nel caso di vittoria italiana, «Spiacenti – risposero – ma non avete alcuna possibilità di batter­ci». L’Italia vinse 2 a 1 e andò a Parigi in treno. Il baluardo del silenzio stampa non crolla neanche a un giorno dalla finale: l’unica deroga viene concessa a Bergomi, che così può spiegare le sue sensazioni di diciottenne nella mischia del mondiale.

Da Roma, arriva anche Pertini. Il presidente si era sempre rifiutato di raggiungere la Spagna, temendo, in caso di eventi negativi, di fare la parte del menagramo. Ha ce­duto solo all’invito espresso del re Juan Carlos. Non ha questi problemi invece la folla variopinta degli italiani riversatisi da Barcellona nella capitale.Bearzot e il suo collega Derwall hanno un grande pro­blema ciascuno: Antognoni da una parte, Rummenigge dall’altra. Il regista azzurro soffre ancora per l’infortunio su­bito in semifinale; l’attaccante tedesco ha problemi musco­lari, ma vuole esserci lo stesso, tanto più che contro la Fran­cia il suo ingresso è stato provvidenziale.

Le decisioni dei due cittì sono opposte: fuori Antognoni, dentro Rummenigge. Per sostituire il suo uomo, Bearzot ri­mescola parzialmente le carte: ignora Dossena, il sostituto naturale, e Marini, altro centrocampista, facendo invece avanzare Cabrini. In difesa inserisce di nuovo Bergomi. Non solo: al giovanissimo difensore Bearzot assegna il con­trollo di Rummenigge, l’uomo di maggior spicco, che con cinque reti contende a Rossi il titolo di capocannoniere.

Alla vigilia i tedeschi sono sicuri di farcela. Ma il giorno della partita, uscendo dall’albergo, ricevono subito un auspicio infausto: il percorso che porta allo stadio è qua­si interamente invaso da striscioni e bandiere italiane. Cer­to, non basta questo a piegare una squadra zeppa di vetera­ni. A parte capitan Breitner, già punto di forza della Germania Ovest campione nel ’74, c’è gente come Stielike, “catti­vo” per eccellenza, o come il portiere Schumacher, che in semifinale ha deturpato l’arco dentario a Battiston senza battere ciglio.

La preponderanza del tifo italiano è riscontrabile anche all’interno del monumentale Bernabeu. Ma una partita si gioca sul campo, e sul campo le cose per l’Italia stentano a mettersi bene, tanto più che dopo sette minuti Graziani, dolorante, deve lasciare il campo. Lo sostituisce Altobelli, così com’era accaduto contro la Polonia. Il duello Bergomi-Rummenigge pende subito dalla parte dell’italiano, anche perché Kalle mostra tutti i suoi acciac­chi. Intanto, nei pressi dei due, aleggia un ritornello costante: «Calmo, zio, calmo». Sono Zoff e Scirea che incoraggia­no il giovane compagno di reparto.

Si lotta su ogni pallone, senza troppo costrutto. Do­po poco più di venti minuti, la mole del decatleta Briegel crolla sul peso leggero Conti: rigore. Va Cabrini. Davanti a lui un glaciale Schumacher. Breve rincorsa, un sinistro scomposto e arrotato all’eccesso, che termina a lato. Cabri­ni rimane in trance, mentre il primo tempo va a finire sen­za altri scossoni.

Negli spogliatoi i compagni scuotono Cabrini e si prepa­rano alla stretta finale senza più pensare all’occasione del rigore. Tutt’altra aria alberga fra gli avversari, un po’ sor­presi dalla solidità morale degli azzurri: «Di solito nell’in­tervallo discutevamo – ricorderà poi Rummenigge – ognu­no dava consigli, suggerimenti. Quella sera invece non fia­tava nessuno. Un silenzio quasi irreale, pareva di essere sot­to di tre o quattro gol, invece eravamo sullo 0-0, potevamo ancora giocarci il titolo. Niente. Solo le parole di Derwall, ma nessuno di noi aprì bocca».

Le paure si materializzano dopo undici minuti del se­condo tempo. Gentile mette in area un pallone, Cabrini va per colpirlo, ma si sente travolgere da una furia: è Rossi, che con un mezzo tuffo incorna e mette dentro: 1-0, anco­ra per merito di Pablito, fin lì annullato da Karl Heinz For­ster. Ora la Germania attacca e scopre il fianco. Passa solo una decina di minuti, prima che Scirea, autore dell’ennesi­ma magnifica prova, scenda palla al piede. Il libero azzur­ro, nei pressi dell’area avversaria, prima scambia con Bergomi. poi pesca al limite Tardelli. Questi ha un controllo impreciso, poi, prima che la palla gli sfugga, l’arpiona con un sinistro micidiale, che batte sul palo e lascia di sasso Schumacher. L’incontenibile, commovente incontrollata esplosione di gioia del giocatore diventerà il simbolo del mondiale.

Il resto è apoteosi azzurra: Conti galoppa sulla destra e taglia basso per Altobelli. Controllo a eludere il portiere e palla per la terza volta nel sacco. Esulta anche Pertini, che salta in piedi e fa di no col dito: «Non ci prendono più». Il gol della bandiera di Breitner arriva solo a sette mi­nuti dalla fine, ma sono sette minuti di sofferenza per il pubblico italiano, che teme una delle rimonte impossibili di cui è piena la storia della Germania. Il triplice fischio del brasiliano Coelho è quindi una liberazione.

Campioni del mondo! Zoff solleva la Coppa in un gesto che dodici anni prima, sull’erba dello stadio Azteca, ha vi­sto fare a Carlos Alberto, capitano del magico Brasile di Pelè. Quel giorno era in panchina. I suoi compagni di allo­ra sono da anni allenatori, dirigenti o chissà che. Dino in­vece, a quarantanni anni vive la massima soddisfazione della carriera.

I leoni in gabbia di Vigo sono ora sul tetto del calcio. Hanno cominciato a vincere quasi per rabbiosa ripicca, poi hanno abbattuto ogni ostacolo, a dispetto di un cammino difficile. Tornano in Italia, a Roma, accolti da una folla in festa. Con loro viaggia anche Pertini, che durante il volo, in coppia con Zoff, dà vita a una memorabile sfida a scopo­ne contro Bearzot e Causio.

Con la vittoria spagnola il calcio italiano cancella dopo due anni la depressione indotta dallo scandalo scommesse. Le vicende del pallone attireranno come mai in passato il pubblico femminile, allargheranno il loro già robusto spa­zio sui giornali e invaderanno gli schermi televisivi, fino a toccare livelli esagerati.
La banda Bearzot perderà lentamente i pezzi fino al fal­limento dei mondiali messicani del 1986. Il suo ciclo, ini­ziato con la grande avventura argentina del ’78, è in effetti terminato proprio nella magica notte del Bernabeu…