Mondiali 1978 – Argentina!

Italo Cucci, Guerin Sportivo giugno 1978

Ha vinto in una sola volta il «Mundial» del calcio e quello della pace. L’Italia è la sola ad averla battuta

BUENOS AIRES. Al fischio idi chiusura di Sergio Gonella, dopo centoventi minuti di emozionante sfida, l’Argentina ha conquistato il suo primo titolo mondiale mentre gli ottantamila del River Plate erano vestiti di una sola bandiera, quella biancoazzurra, e gridavano — scandendola — una sola parola: «AR-GEN-TI-NA». in quell’attimo, chi ha potuto ha guadagnato frettolosamente l’uscita dello stadio a costo di essere scambiato per un tifoso olandese amareggiato. Era solo prudenza, invece: perché si sapeva che, di lì a poco, sarebbe scoppiata la rivoluzione.

Intorno al River Plate, un deserto che già minacciava di animarsi di una folla entusiasta, il frastuono che saliva carne un urlo di disperata gioia dal catino dello stadio, e da lontano l’eco di sirene, trombe, clacson che in ogni parte della metropoli già tifosi frenetici suonavano per sottolineare il grande, storico successo dell’Argentina e la prova maiuscola, davvero mondiale, di Mario Kempes, il «matador». Mi sono trovato quasi solo, mentre la festa del River continuava, come naufrago smarrito in gran tempesta. Intorno a me, un nugolo di poliziotti indecisi fra l’atteggiamento ufficiale e la voglia di gridare anche loro la gioia «mundial». Alcuni sventolavano banderillas biancazzurre, altri rispondevano con un gride agli sventolii e alle grida delle prime auto solitarie che sopraggiungevano nei pressi della «cancha» infuocata. Un poliziotto comprese il mio problema: come raggiungere il centro? «Esperamè, amigo», aspettami: fermò una macchina, confabulando un attimo con l’uomo che era alla guida, accompagnato da una donna e da un bimbo, poi aprì lo sportello: «Adios senor periodista, y suerte», buona-fortuna. Così cominciò un incredibile viaggio in una macchina gonfia di bandiere e poco dopo in mezzo a una fiumana di popolo biancoceleste che copriva con grida e canti il frastuono di migliaia di auto tutte dirette, come poche sere prima — dopo Argentina-Perù — verso l’obelisco il cuore della città, il cuore dell’intero Paese. Il mio amabile accompagnatore mi scoprì italiano: «Sono italiano anch’io, mi chiamo Testa, vengo da Olivos a festeggiare il trionfo della mia patria. La prego, scriva una cosa per me: dica che in Argentina ha vinto la pace. Siamo poveri, forse, ma felici, onesti e vogliamo che tutto il mondo lo sappia».

Si fa presto a cadere nella retorica, davanti a queste vicende, a queste affermazioni di sincera umanità, ma non si deve vergognarsene. Appena un mese fa, partendo dall’Italia, ognuno di noi portava nel cuore una grande paura: quella di partecipare a una drammatica cerimonia intrisa più di odio che di amore, di motivi politici più che di sport. Ma fin dal primo giorno qualcosa è cambiato in noi, man mano che ci s’imbatteva in questa gente impagabile che da sempre ha conosciuto amarezze e che finalmente si apprestava ad un banchetto di felicità e voleva condividerla con tutti, con gli stranieri in particolare. Ogni straniero ohe arrivava a Baires costituiva per gli argentini una minaccia, una paura, un esame da superare. E non ci hanno provato in cento, in mille, in centomila: ma in venticinque milioni. Era la scritta che si leggeva dappertutto, a cominciar dall’aeroporto di Ezeiza: «venticinque milioni di argentini giocano il mondiale». L’hanno giocato e l’hanno vinto. Contro tutto e contro tutti. Contro i nemici interni (pochi) e quelli esterni, tanti; contro il sospetto e la malafede di chi voleva cancellare con un solo colpo di spugna le speranze di tanta gente, credendo con ciò di dare un duro colpo ad un regime che ha i suoi lati oscuri (e ne parleremo, nei prossimi giorni) e invece avrebbe condannato a trasformarsi in incubi i sogni del popolo più desideroso di pace che ci sia al mondo. Perché solo chi è uscito da una grande tragedia, e ancora ne sente il peso, come il popolo argentino, può capire quanto valgano la pace, l’amore, la fraternità, la libertà.

Tutto questo è riuscito a fare il calcio, imponendosi all’attenzione del mondo come una delle rare risorse idi pacificazione in tempo di odio fratricida. Forse qualcuno troverà insoliti e fuori posto questi argomenti all’Inizio di un commento che riguarda una vicenda dello sport: eppure, così come il primo sentimento che ci ha accompagnato costì era la paura, è altrettanto vero che la prima sensazione che si è provata all’ultimo minuto del «Mundial» è stata di grande soddisfazione: siamo noi, uomini per diversi motivi dati allo sport, gli ultimi ambasciatori della pace, gli ultimi abitanti di un paese felice. E adesso, Argentina Mundial. Una vittoria giusta, meritata, esaltante perché sofferta per centoventi lunghi minuti durante i quali più di una volta le speranze argentine accennavano a spegnersi, e con loro quelle di venticinque milioni di… giocatori fuori campo.

Una vittoria giusta, conquistata dalla squadra di Cesar Luis Menotti, non dalla polizia di Jorge Rafael Videla e neppure dei tifosi; questo era il dubbio della vigilia: quanto sarebbe pesato, sulla sfida mondiale, il fervore sviscerato della folla, la «hinciada», la tifoseria di costì, è invece simile a quella di tanti Paesi meridionali, pronta a esplodere come ad abbattersi, mai utile nei momenti cruciali; entusiasmo alle stelle prima della partita, con una pioggia di «papelitos» (pezzi di carta) assolutamente inedita; eppoi gioia frenetica al primo gol di Kempes, il fantastico «matador» argentino, l’unica vera stella di questo Mundial di cui — con sei gol — si è laureato anche capocannoniere. Al gol di Nanninga, giunto a nove minuti dalla fine quando ognuno in cuor suo già pregustava la festa, prima un grande silenzio poi un urlo disperato raggelavano il River. E ancora silenzio e paura nei minuti del primo tempo supplementare, mentre l’Argentina andava organizzandosi con molta freddezza, mostrando un volto inedito, quello della ragione.

A mio avviso, Menotti ha vinto il suo Mundial in questi undici minuti di passione, dando alla squadra una impronta… italiana (ed è indubbio che la sconfitta con l’Italia gli ha insegnato qualcosa); ci si poteva aspettare, da un complesso pesantemente sbilanciato in avanti (e con un uomo nullo come Luque) e frustrato dall’inopinato pareggio olandese, una sorta di cieca carica suicida a testa bassa; e invece i biancazzurri si sono disposti saggiamente sulla difensiva e hanno risposto con ficcanti sortite in contropiede alle sfuriate massicce e pericolose degli olandesi, finendoli poi con un’altra sortita vincente di Kempes, avventatosi verso la rete avversaria con una spinta inarrestabile e tutta la sua non comune classe di autentico campione.

Era il 2-1, la fine di un incubo, l’inizio di un trionfo che di lì a pochi minuti Bertoni (l’uomo che un anno fa aveva detto sorridendo: «Ho sognato di diventare campione del mondo») avrebbe definitivamente siglato. Una vittoria giusta e meritata, questa, anche perché gli olandesi hanno dato fondo alle loro buone risorse di fisico e dì tecnica per conquistare il titolo mondiale strappatogli dai tedeschi quattro anni prima. Gli uomini di Happel hanno ripetuto la partita giocata con tro l’Italia, e devono imprecare alla malasorte che non gli ha fatto trovare… un altro Zoff, nella porta avversaria, ma un Fillol che si è superato, esibendosi in almeno un paio di occasioni, in parate da grande campione. Tutto questo sono riusciti a fare, gli olandesi, e hanno anche ottenuto un provvisorio pareggio, nonostante almeno quarantacinque minuti di arbitraggio gli fossero stati decisamente avversi.

Non intendo muovere pesanti accuse (come altri ha fatto) a Sergio Gonella, che ha ben rappresentato l’Italia in questa finalissima mondiale amaramente e scioccamente perduta dagli azzurri: voglio solo dire che ha peccato nell’affidarsi ciecamente ai suoi collaboratori, segnatamente all’austriaco Linemayer che ha inventato incredibili fuorigioco degli olandesi nella prima fase del match. Gonella ha anche ecceduto nel fischiar falli nella prima parte della gara, ma si è, visto dopo – quando la partita è proseguita all’insegna della massima regolarità – che la sua severità era adeguata ad un match iniziatosi all’insegna del nervosismo, addirittura preceduto da quel singolare gesto di rinuncia degli olandesi che nella tribuna stampa del River aveva fatto subito dire a tanti: «Ecco, l’Olanda fa una protesta politica, rifiuta di battersi con gli argentini». E invece si trattava solo di eseguire una richiesta dell’arbitro: Willy Van de Kerkhof aveva una fasciatura gessata a una mano e non poteva giocare in quelle condizioni: questa l’opinione degli argentini condivisa – regolamento alla mano – da Gonella.

Il seguito della partita – come dicevo – ha visto Gonella arbitrare con molta disinvoltura ed efficacia, e tuttavia fa sua prova non può restare indenne da critiche soprattutto per il motivo cui già ho accennato: l’arbitro italiano ha concesso l’eccessiva fiducia a Linemayer e a Barreto, i quali tendevano a favore gli argentini, a ignorarne i falli, a vedere solo quelli degli olandesi o addirittura a inventarne a loro danno. Questo discorso potrebbe portare lontano: mi limiterò a dire che è sbagliato utilizzare in ruoli di guardalinee arbitri titolati che subiscono il… declassamento con malcelato disappunto e tendono ad esprimersi in questo ruolo importante ma secondario con la loro personalità di «primi fischi-primedonne»; quello del guardalinee è un altro mestiere, importantissimo ma più oscuro. Se si deve – dunque – giudicare la terna arbitrale di Argentina-Olanda nel suo complesso, non si può non rilevarne errori e incertezze non degni di una finalissima mondiale.

Con tutto questo – dicevo – l’Argentina ha meritato la sua vittoria che è anche motivo di duplice consolazione per noi: prima perché l’Olanda ha dimostrato che la sua vittoria sull’Italia non era stata casuale, poi perché – al tirar delle somme – gli unici che hanno battuto l’argentina «Mundial» siamo noi, italianuzzi sottovalutati e sorprendenti che proprio con la squadra di Menotti abbiamo giocato la partita più bella e intelligente. Questo accenno agli azzurri ci riporta indietro (e Dio sa se rinuncerei volentieri a questo flash-back) alla prima parte del «film delle finali», a quella di sabato, cioè, fra Italia e Brasile, detta anche beffardamente «final de perdidores», il match dei vinti.

Ero certo che in condizioni normali l’Italia avrebbe battuto il Brasile, fosse questo avversario di terzo posto o di finalissima; ma quella di sabato, oltreché priva di due uomini-chiave come Benetti e Tardelli (ammoniti dal deprecabile Martinez al fine di ottenerne una squalifica che agevolasse l’Argentina in una eventuale finale con gli azzurri) era una formazione infelice per ben altri motivi, per precise scelte di Bearzot che non ho condiviso. Patrizio Sala è andato bene per un tempo, ed era tutto quello che poteva fare, soprattutto giovandosi di una fase di gioco favorevole per noi; poi doveva essere sostituito, magari da Claudio Sala, che invece è entrato al posto di un Antognoni meno incerto del solito (ma che delusione, nel complesso: se stava male, perché portarlo a offuscare la sua piccola gloria nazionale davanti a una platea mondiale?). E Aldo Maldera? è stato del tutto inutile, un corpo estraneo nel nucleo della Nazionale, e non è il caso di aggiungere altro.

Bearzot ha poi rinunciato all’inserimento di Graziani subito dopo il vantaggio acquisito dal Brasile. Ma si trattava — comunque — di una squadra che aveva già dato tutto, come ha dimostrato appena portatasi in vantaggio grazie al fenomenale spunto personale di Rossi e al bellissimo colpo di testa di Causio (la coppia più bella, forse, del clan azzurro): subito dopo, come con l’Olanda, tutti a casa, a difendere un’improbabile vittoria. Coutinho, invece, ha inserito un Reinaldo che ha rovesciato la partita come un guanto e ha favorito il successo dei brasiliani. Se è giusto criticare Bearzot, che dire di questo militar-ginnasiarca che ha azzeccato la formazione giusta solo nel secondo tempo dell’ultima partita?

Cala ora la tela sul «Mundial», ma tante cose ci saranno da dire, ancora, sulla manifestazione (che necessita di approfondimenti di vario genere) e sull’Argentina, un Paese che merita amore e solidarietà, ma anche un esame sereno e obiettivo dei suoi problemi, un esame che ho promesso ai lettori e che cercherò di approfondire, prossimamente, senza reticenze. Torniamo a casa, tutto sommato, soddisfatti di quel che l’Italia ha fatto, delle nuove risorse del nostro calcio evidenziate davanti al pubblico di tutto il mondo, un pubblico esigente di tecnici e spettatori che ci hanno coperto di complimenti; soddisfatti soprattutto di avere veduto giusto nel segnalare a tutti (l’abbiamo fatto noi per primi, e ne siamo orgogliosi) un grande talento, quel Paolino Rossi che ha segnato gol decisivi, strappato applausi a scena aperta, e che promette un futuro ancora più bello.

Per questo non piangeremo sul latte versato, augurando a Bearzot di trarre utili indicazioni dai successi e dalle sconfitte nel momento in cui si prepara a iniziare il delicato lavoro che ci porterà al Campionato d’Europa. Grazie a tutti gli azzurri, dunque, per quel che di buono ci hanno offerto. E un grazie di cuore — permettetemelo — a Bernard Lacombe. Non è stato forse lui, con quel gol bellissimo e maligno al trentaduesimo secondo di Italia-Francia a Mar del Plata, a farci scoprire un’Italia migliore?

Italo Cucci, giugno 1978