Mondiali 1982: Il sogno di una notte

di Oreste del Buono – Guerin Sportivo luglio 1982

TRICAMPIONI ! Essendo un emotivo psicola­bile, un viscerale impunito (e su questo forse dovrei eccepire, perché mi pare, anzi, di venir spesso punito a causa della mia visceralità proprio dalla fazione per cui tengo, la dico en passant, infatti mi pesa di non lamentarmi del Milan da un’eternità, un mese circa), ma essendo pure uno scribacchino, un imbrattacar­te, un mangiapane a tradimento a mezzo stampa (e forse anche su questo dovrei eccepire, perché mi pare, anzi, di non mangiare spesso pane né tanto meno companatico a causa del mio frequente inclinare alle dimissioni per incompatibilità di testata altrui e di crapa mia), ho avuto in questo Mundial 1982 ogni occasio­ne per smentirmi sinceramente e far splendida­mente la peggiore figura del mondo. Inviato speciale in Spagna di un grande e glorioso quotidiano, ho oscillato agli inizi tra solidarietà per i giornalisti in lotta con i calciatori azzurri e solidarietà per i calciatori azzurri in lotta con i giornalisti. A un certo punto, ho capito che proprio per interpretare meglio la mia parte di inviato speciale, per essere veramente speciale, dovevo rinunciare a qualsiasi complicità pro­fessionale ed essere semplicemente, emotiva­mente, psicolabilmente, visceralmente tifoso.

IL DIRETTORE del «Guerino», che non so perché si ostina a pubblicare queste mie insulse note di diario, mi ha gentilmente e malignamente definito «giornalista pentito» pazienza. Per fortuna, al contrario del Milan (che non ha ripagato affatto il mio tifo come, del resto, il Bologna non ha ripagato affatto il sostegno di Cucci sia pure «giornalista non pentito», ovve­ro giornalista che per tempo aveva visto lonta­no), la Nazionale mi ha dato gioie su gioie, e in più la consapevolezza di essere testimone, non tanto di memorabili partite, del resto, rivelate a tutti, anche ai più lontani dalla televisione, quanto della nascita di un gruppo d’italiani capaci di farsi rispettare oltre che dagli stranieri dagli stessi italiani. Questa è la cosa che mi ha più impressionato, commosso ed esaltato du­rante il mio soggiorno in Spagna.

SCRIVENDO o comunque parlando, forse neppure parlando o pensando in solitudine con se stessi, si è mai sicuri della sincerità assoluta. Io, però, non sono tra quelli che mistificano il passato prossimo o remoto, i militanti del revisionismo storico o cronachistico. Dunque, non sono in grado di dire che avevo capito tutto subito o quasi. Bearzot sostiene che la squadra italiana ha giocato già molto bene, gol esclusi, nella seconda parte di Italia-Camerun. Non mi sogno di mettere in dubbio quanto afferma il nostro commissario tecnico. Ma non mi sogno di affermare con il senno di poi che pure io me ne sono accorto allora. Se ricordo Italia-Camerun, e non solo il secondo tempo, ci metto anche il primo, continuo a rivederla come un’orribile partita, una delle più penose esibizioni della Nazionale dal 1910 (è vero, nel 1910 non c’ero ancora, non potrei garantire, e può darsi che Italia-Ungheria 1-6 di quel 26 maggio sia stata peggiore; posso garantire solo dal 1931, Italia-Scozia 3-0 del 20 maggio vista a Roma). Io, allora, non me ne sono accorto che la squadra italiana fosse già a punto per grandi imprese. Ma a sperare ho tuttavia cominciato alla vigilia di Italia-Argentina, e non per mia sapienza tecnica, piuttosto per mio intuito umano, anzi (non posso mobilitarmi in nessun modo, dato che non mi marco «a zona» ma «a uomo») per mia solidarietà di cattivo carattere. Scusate se mi cito, ma lo stampato, e per di più lo stampato su «La Stampa» ovvero al cubo, è una valida prova a discarico come a carico: «Se si può giudicare dalla vigilia, Italia-Argentina dovrebbe essere una partita combattuta. I ragio­nieri, nel senso di giocatori del passato, italiani contro i futuristi, nel senso di giocatori dell’ avvenire, argentini è un tema di scontro abba­stanza avvincente di per sé». Ma il tono dell’attesa si è andato alzando, è finito non perché si siano riconciliati, ma perché hanno preso a insultarsi vivacemente. Chiedo scusa, ma, con­siderate le circostanze, preferisco le parolacce e gli inviti a compiere atti non del tutto edi­ficanti…

OH, COME LA RICORDO bene, quella mattina. 28 giugno. Campo di allenamento a Gavà, nei pressi di Barcellona. Molti fotografi, giornalisti, radiocronisti e telecronisti italiani presenti per tempo ai margini, nell’ansia che una qualche incrinatura si apra nel fronte del mutismo azzurro. Entrano finalmente i calcia­tori in maglia verde. Gentile e Dossena, scher­zosi, chiamano in campo il radiocronista Ezio Luzzi, croce degli ascoltatori di A di «Tutto il calcio minuto per minuto», perché, seguendo la B, ha l’abitudine di interrompere le radiocrona­che più altolocate di Enrico Ameri, di Sandro Ciotti, eccetera; con futilità cadette (dal prossi­mo campionato, caro direttore del «Guerino», che hai l’aria di benevolmente compatirmi tanto, le futilità cadette riguardanti Bologna e Milan parranno anche a noi due superiori alle notizie concernenti la A). Gentile e Dossena fanno finta di parlare a Luzzi, di concedergli un’intervista, ma aprono e chiudono la bocca senza rumore, accigliandosi o illuminandosi in sorrisi senza motivo. Lo scherzo è capito da qualche giornalista, non da tutti, perché recen­temente la tensione tra giornalisti e calciatori si è andata esasperando. Poi arriva Marco Tardelli e invita qualcun altro a venir fuori, ad avanzare sul campo di allenamento. È prescrit­to che ogni bel gioco debba durar poco, e converrebbe concedere maggior credito ai pro­verbi che sono la saggezza dei popoli dissennati. Tardelli ha una sua brutta fama con i giornali­sti, avendo già detto delle parole grosse durante una loro visita alla Casa Del Baron, lassù nella piovigginosa Galizia del primo capitolo azzur­ro in Spagna. Sarà perché è toscano, e i toscani sono naturalmente malelingue. Ma è toscano anche il giornalista Mario Sconcerti, e reagisce all’ironico invito. Botta e risposta in puro stile toscano. Tardelli si sfoga, Sconcerti pure. A un certo punto, Sconcerti propone a Tardelli addirittura di andare fuori campo a liquidare la questione. E Tardelli non si mostra alieno dal seguire l’idea. Ma comincia l’allenamento, e ci si preoccupa di far stringere almeno la mano prò forma ai due contendenti.

ME LA RICORDO BENE, quella mattina. Io sono toscano, e durante l’incidente non proprio di gioco al campo d’allenamento al Gavà, mi sono sentito molto tentato a intervenire. Per una parte e per l’altra. Nel senso di contro una parte e contro l’altra. L’importanza, l’essenzialità, l’utilità di quella scenata nel particolare che mi ha fatto pensare che forse tutto non era perduto. Che c’era capacità di reagire. Che c’era volontà di non rassegnarsi alla sconfitta pronosticata. E da allora ho continuato a vedere in Tardelli uno dei protagonisti, parolacce a parte, parolacce comprese, della riscossa. Nel caldo, recinto del Sarria, durante Italia-Argentina, è stato il primo lui a cercare la porta avversaria con un formidabile tiro da lontano. Poi ancora con un altro gran tiro. E poi, è stato proprio lui a segnare, su meravigliosa azione corale. E, quando non era immediatamente impegnato nel gioco, vociava ai compagni, li incitava, rimproverava, incoraggiava, mentre lo straor­dinario Gentile riduceva la boria e aumentava la confusione di Maradona, primadonna abi­tuata a palcoscenici maggiormente riverenti e complici. Non mi è parso scandaloso che fossero soprattutto il primo marcatore di gol Tardelli e il primo marcatore a uomo Gentile i più entusiasti alla fine nell’alzare i pugni vitto­riosi e minacciosi verso le tribune, dove erava­mo anche noi, i giornalisti. Invece di indignarci avremmo dovuto essere orgogliosi di avere sia pure in minima dose provocato tanta aggressi­vità. Un buon sparring-partner ha il diritto di menar vanto della durezza che il campione da lui allenato mostra al momento della verità. Ecco tutto, per quanto mi riguarda. Non per non essere sleale con i miei colleghi, con la mia categoria, semplicemente per riconoscere i miei limiti, da allora mi sono proclamato solo tifoso.

E A ITALIA-BRASILE è fiorito Paolo Rossi. Mi aveva detto, quando non vigeva ancora il silenzio tra la stampa e la Nazionale; «I piedi vanno bene, ma mi mancano due mesi di gioco. Mi sono allenato, certo, ma non è lo stesso. Mi mancano i due mesi di partite ufficiali, di partite vere. Cercherò di recuperare sul campo…». Ha anticipato i tempi, cominciando a sbaragliare avversari alla quinta partita ufficiale, senza aspettare oltre; tre gol al Brasile, due alla Polonia, uno solo alla Germania, ma quello che contava di più, quello che ha pareggiato per gli azzurri la sfiga di aver sprecato un rigore con Cabrini. Insomma, Bearzot l’ha avuta vinta con Rossi come l’ha avuta vinta con tutti gli altri, dall’intramontabile Zoff, che ha fatto le più belle parate della sua vita, all’indomabile Con­ti, che ha furoreggiato da brasiliano all’attacco ma ancor più ha reso in difesa, al tenace Oriali che ha combattuto oltre le sue forze, all’olimpico Scirea, gran difensore dell’«area de castigo», propria, ma anche fluidificante insi­dioso nell’«area de castigo» altrui. Al coraggio­so Graziani, che s’è rotto due volte nel generoso tentativo di coprire contemporaneamente cin­que ruoli d’attacco, al novizio Bergomi, entrato a far bravamente la sua parte con consapevolez­za di veterano, eccetera.
Bearzot non ha sba­gliato un nome, una marcatura, una mossa. Mi rendo conto che sto scrivendo fregnacce. Smet­to, è la notte di un vero trionfo nazionale. In Italia, mi dicono, sta avvenendo qualcosa che rassomiglia a tutte le feste nazionali messe insieme, il 24 maggio, il 28 ottobre, il 25 luglio, il 25 aprile e così via, poi domani ci sveglieremo da questo sogno vero davanti a una realtà anzi un’irrealtà di merda. Non abbiamo un lira. Pazienza, facciamo durare questa notte. Non dovrebbe passare mai…

Oreste Del Buono, Luglio 1982