Un ’68 tutto azzurro

L’Italia di Valcareggi vinse gli Europei del 1968 con la generazione di calciatori più forti nella storia del calcio italiano, quasi tutti quelli che portarono la Nazionale in finale ai Mondiali del 1970. Ecco una collezione di ricordi…


Uno degli slogan di quegli anni formidabili, di quella generazione, fu «coloriamo la vita». Ma le foto dell’europeo 1968 sono ancora in bianco e nero, istantantanee del primo successo del calcio italiano nel dopoguerra. Gli azzurri vinsero battendo la Jugoslavia nella finale-bis. Nella prima gara, sabato 8 giugno, la squadra di Valcareggi strappò il pareggio con un tiraccio di Domenghini all’80. Gli slavi erano passati in vantaggio con Dragan Dzajic, uno dei grandissimi talenti del calcio di quegli anni. Nella ripetizione, scese in campo Gigi Riva e fu vittoria. Rombo di Tuono segnò al 12′, sul filo del fuorigioco.

Per 26 anni si credette che quel gol fu un mezzo regalo dell’arbitro spagnolo Ortiz de Mendibil, ma nel 1994, in occasione della festa dei 50 anni di Riva, fu fatta giustizia. La moviola dimostrò che il gol di Riva era stato regolare: un regalo gradito, la precisazione storica, per Giggirriva. La seconda rete di quel lunedì 10 giugno fu firmata da Anastasi al 31′: in mezzora l’Italia, che Valcareggi aveva stravolto dopo la partita di due giorni prima (sei cambi), chiuse i conti. Poi, fu festa grande, in campo e fuori, in un’Italia che, da qualche mese, si ritrovava spesso in piazza.

La foto della formazione dell’Italia-bis è un segno del destino. Il secondo in alto, da sinistra, è Zoff. Al suo fianco, Giggirriva, che di solito di fronte ai flash delle foto-ricordo si collocava ai lati. Indossò la maglia numero 17, lui che l’unica volta che aveva tradito l’11, nell’amichevole con il Portogallo del 27 marzo 1967, si era rotto la gamba. Fu proprio quel grave infortunio a far scoprire a Riva il Sessantotto.

L’anno dell’immaginazione al potere, degli studenti che si ribellavano, di una generazione che contestava i padri, dei capelli lunghi, della donna liberata, del sesso da vivere senza tabù, dei moti di piazza, dei manganelli e di Pasolini che si schierò con i celerini perché veri proletari in guerra con i figli di papà.

GIGI RIVA

«Quando mi infortunai con il Portogallo mi operarono nel reparto di ortopedia dell’università di Roma. Trascorsi in quel luogo buona parte della degenza e dalla finestra della mia stanza vidi i cortei, gli scontri studenti-polizia, le feste. Ero incuriosito, avevo 23 anni e mezzo e quella che stava sconvolgendo l’Italia era la mia generazione», racconta Giggirriva.

Rombo di Tuono fu il bomber azzurro di quella edizione: 7 gol in tutto, 6 in quella eliminatoria e 1, si è detto, nella finale bis. Una partita, quella dell’ultimo atto, che Riva rischiò di non giocare. Da mesi soffriva con la pubalgia. Una brutta bestia, che all’epoca si domava solo in un modo: il riposo. Saltò quarti di finale e semifinale, saltò anche la prima finale. Valcareggi, che lo aveva convocato imponendosi sullo scetticismo dei medici e dello stesso giocatore, decise di spedirlo in campo nella gara-bis con la Jugoslavia.

«Il gol mi caricò. Nella ripresa, però, pagai la mancanza di allenamento. Mi ritrovai solo davanti al portiere per il gol del 3-0, ma calciai alto. Non avevo più energie, ero sfinito, ma allora non si facevano le sostituzioni. Fu bellissima la festa dello stadio, migliaia di accendini accesi per fare luce, sembrava un concerto rock. In programma, dopo la partita, c’era una festa in un albergo in pieno centro di Roma, ma riuscimmo a raggiungerlo solo all’alba. Mi ritrovai in auto con Albertosi, i tifosi ci riconobbero e non ci fecero passare, poi guidammo a passo d’uomo e arrivammo in albergo alle 4 del mattino. Avevo fame, mi cucinai una bistecca, poi tre ore di sonno e poi di corsa all’aeroporto per tornare a casa. Quella vittoria ci fece diventare cavalieri. Fummo ricevuti dal presidente della Repubblica, Saragat, una cosa emozionante per un ragazzo come ero allora. Però mi vergognavo di quella carica, forse perché ancora suggestionato dal ricordo di un personaggio della mia Leggiuno, era un professore, ma tutti lo chiamavano il cavaliere, io ero piccolo e guardavo quasi intimorito quel signore austero. Consegnai l’attestato a mia sorella Lucia. Non l’ho più visto. E non ho più visto le foto e le cassette di quelle partite, conservo tutto in due bauli, è l’archivio creato dalle mie sorelle».

DINO ZOFF

Il Dino nazionale aveva 26 anni ed era come oggi: poche parole, quasi il desiderio di nascondersi. «Ricordo quegli anni, ricordo il sessantotto. Ero curioso, l’Italia stava cambiando pelle. Di quell’epoca abbiamo pagato il conto: cose belle e cose brutte». Zoff giocava nel Napoli e a Napoli, al San Paolo, aveva debuttato il 20 aprile 1968, nei quarti di finale del campionato, avversario la Bulgaria.
«In quella partita parai un tiro di Asparoukov che se fosse entrato ci avrebbe eliminato. Della finale ricordo invece la festa del pubblico, l’Olimpico ci fece venire i brividi. Ci portarono in albergo per la cena ufficiale e poi ci fecero affacciare alla finestra per salutare la gente che aveva invaso la strada».
Anche Zoff divenne cavaliere. Il mundial 1982 lo fece diventare commendatore. Ma il primo successo, quello che non si scorda mai, quello che è entrato nella storia in bianco e nero, vale più di qualsiasi carica.

PIETRO ANASTASI

«Non ricordo come stoppai la palla, ricordo solo il passaggio di De Sisti e il tiro al volo che s’insacca, feci tutto d’istinto, con l’incoscienza di un ragazzo di vent’anni». Parole e opere di Pietro Anastasi, siciliano, di Catania, figlio di operai, che nell’estate del ’68 corona due sogni: passa dal Varese, squadra con cui s’era messo in evidenza, alla Juventus e vince il Campionato Europeo per Nazioni con la Nazionale, 2-0 nella finale bis del 10 giugno contro una forte Jugoslavia. Da allora l’Italia non ha più rivinto questa manifestazione, andandoci vicinissima nel 2000.

«Arrivare in Nazionale dal Varese, quella fu davvero una gran bella soddisfazione. Valcareggi stava ricostruendo l’Italia dopo la debacle mondiale contro la Corea del Nord, io avevo fatto bene durante il campionato, così mi chiamò. Io e Riva, lui si stava riprendendo da un infortunio. Giocammo insieme una partita con l’Under 21 e poi fummo catapultati nella Nazionale maggiore».
Che Ct era Ferruccio Valcareggi? «Un padre di famiglia più che un allenatore. Non era il classico “sergente di ferro”, sapeva ascoltare».
Una finale doppia, era lontana la formula del golden goal… «Già, altri tempi, altro calcio. La Jugoslavia, allora, era tra le nazionali più forti d’Europa, forte fisicamente e tecnicamente. Nella prima partita meritavano di vincere 3-0. Ci salvò il gol di Domenghini su punizione, poi, da quel momento i valori in campo si sono completamente ribaltati».
L’esordio di Anastasi in Nazionale è datato 8 giugno 1968, primo match contro la Jugoslavia, due giorni dopo decide le sorti della storia azzurra con una rete indimenticabile… «Nel ’68 la novità della Nazionale era Anastasi. Però non si deve dire che feci vincere gli Europei, perché la vittoria è sempre della squadra»

Valcareggi ha la possibilità d’inserire giocatori freschi e cambia l’Italia per cinque undicesimi inserendo Mazzola e De Sisti in mezzo al campo. Oltre alla maggiore freschezza atletica la Nazionale mette in mostra un gioco divertente ed efficace, con Riva e Anastasi a fare coppia in attacco. Proprio loro segnano l’uno-due che mette al tappeto gli slavi e consegna nelle mani di capitan Facchetti la Coppa Europa. L’esordio di Anastasi in Nazionale è datato 8 giugno 1968, primo match contro la Jugoslavia, due giorni dopo decide le sorti della storia azzurra con una rete indimenticabile.
E il ’68? «Ne parlavamo, però ci rimbalzava adosso, si pensava solo a giocare. La cultura dei giocatori di adesso è superiore a quella dei miei tempi. S’immagini, io ventenne, figlio di operai, che provenivo dal profondo Sud…».

GIACINTO FACCHETTI

In semifinale si para davanti il tabù tradizionale, ossia la nazionale sovietica. La superiamo finalmente ma non per nostro merito, bensì per quello di una monetina che l’arbitro tedesco Tschencher lancia in aria. Così il compianto Facchetti, capitano azzurro, rievocava quella partita:«Al termine di una gara combattuta ma direi particolarmente tattica, con l’impegno massimo da parte nostra di non subire gol, così agendo in contropiede, ci ritrovammo – supplementari compresi – sullo zero a zero. Allora non erano previsti i calci di rigore, perciò ci si doveva affidare alla sorte».

I due capitani vennero introdotti nello spogliatoio dell’ arbitro: Facchetti scelse la testa e Scesternev croce. Tschenscher lanciò la moneta. «C’era da non crederci, la monetina si fissò in una fessura del pavimento e l’arbitro stesso la estrasse e subito la rilanciò. Questa volta cadde di piatto e così rimase e io in un lampo vidi ch’era testa e feci un balzo dirigendomi verso il sottopasso che dava sul campo. I miei compagni capirono dal mio atteggiamento che avevano vinto e così uscimmo sul prato a braccia alzate e la gente di Napoli impazziva…».

FERRUCCIO VALCAREGGI

«Alcuni episodi ci aiutarono ma ricordo che con la Russia restammo in dieci quasi tutta la partita e i supplementari, perche’ Rivera si infortuno’ subito». Si dice che la monetina dell’arbitro Tschenscher avesse due facce uguali: come aveva scelto Facchetti. «Malignita’, solo perche’ si era in Italia e Franchi, il nostro presidente, era un dirigente consideratissimo nel mondo. Ma lei immagina che la Russia, che allora era un blocco unico, potente e propagandava con lo sport il proprio modello politico, avrebbe accettato un imbroglio che la escludeva dalla finale?».
Come visse quei momenti?
«In campo. Solo Facchetti, il capitano, poteva assistere al sorteggio, nello spogliatoio, e non ci tenevo a essere presente. Capii tutto quando vidi Giacinto ritornare, esultando».
Che soddisfazione si prova per una vittoria cosi’?
«La stessa dei rigori, che furono adottati proprio dopo quel caso ma sono una soluzione iniqua e fortunosa quanto la monetina».
Con quel successo per 2-0 lei cancello’ il disastro di due anni prima contro la Corea ai Mondiali. Cosa sarebbe accaduto se non ce l’avesse fatta?
«Non lo so. Si giocava in Italia, c’era molta pressione perche’ vincessimo. Forse mi avrebbero processato e cacciato come il povero Fabbri, sul quale ricadde tutto il peso della tragica sconfitta di Middlesbrough. Si’, tragica. Nessuno si fermo’ a pensare che cose del genere capitano una volta nella storia e non ne ha colpa nessuno. Tantomeno Fabbri, che ne capiva».
Torniamo alla finale con la Jugoslavia: come la vinceste, se due giorni prima eravate stati tanto in difficolta’?
«La mia idea e’ che azzeccai la scelta di cambiare 5 uomini. I nuovi diedero un’iniezione di freschezza, di energia e anche di carattere, dopo le polemiche che si erano create tra chi voleva i cambiamenti e chi no»
Zoff: titolare vincente nel ’68, riserva di Albertosi nel ’70. Perche’?
«Nel ’68, Albertosi aveva dei problemi e misi Zoff proprio a Napoli, contro la Bulgaria, nei quarti di finale. Finsi l’incertezza fino all’ultimo, per creare suspense. Ricordo il boato dei napoletani quando l’altoparlante annuncio’ che il loro portiere avrebbe giocato».
Come si adatto’ alla Jugoslavia?
«Allora erano fortissimi, non sbriciolati come oggi in quattro o cinque Nazionali, il problema era contrastare la loro superiorita’ tecnica e tattica. Dzaijc era un attaccante terribile, un po’ meno potente e distruttivo di Riva, un po’ piu’ bravo nella tecnica, perche’ aveva anche il destro. Per fortuna Burgnich era un difensore che fregavi poco, perche’ guardava sempre la palla, mai le gambe».
Il 1968 era un anno di fermenti, il maggio nelle Universita’ francesi, i giovani in rivolta. Voi, in quel vostro Europeo, ve ne accorgeste?
«Tutto rimase fuori dalla porta. Si leggevano i giornali soltanto per capire che aria tirava nella nostra parrocchia: chi voleva in squadra questo e chi quello. Io non mi interessai di quanto accadeva fuori. Ne’, credo, i ragazzi. L’unico fermento, nella loro giovinezza, era la partita da giocare».