Italo Cucci: Prisco, l’alpino dell’Inter

Con una biografia che lo raccontava eroico combattente sul fronte di Russia in divisa da alpino e illustre penalista per lunghi anni presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano, Peppino Prisco rispondeva – a chi gli chiedeva quale futuro sognasse – “da campione d’Italia”.

Era uomo di grandi qualità, di ottima cultura, professionalmente prestigioso, eppure al vertice dei suoi pubblici pensieri era l’Inter, alla quale dedicò sessant’anni della sua vita, cominciando da segretario sotto la presidenza di Carlo Rinaldi Masseroni e finendo da vicepresidente con Massimo Moratti dopo essere stato al fianco di Angelo Moratti, Ivanoe Fraizzoli e Ernesto Pellegrini. Basterebbe la sua sola storia per far capire che peso possa avere, nella vita, la passione calcistica, diffusa fra nobili e plebei.

Ma non renderei giustizia all’amico Peppino se non precisassi che in realtà egli era un ultrà dell’ironia, per questo ammirato e rispettato anche dai tifosi trinariciuti. E nelle battute ironiche sparse spesso con piglio satanico aveva un solo concorrente, che a sua volta le porgeva con principesco distacco: Gianni Agnelli. Si rispettavano, i due grandi contendenti del Derby d’Italia (un‘Inter – Juve che ahinoi non avrà più quel significato) ma certo l’Avvocato bianconero non avrà mai perdonato all’avvocato nerazzurro la sua più feroce battuta: «Dopo aver stretto la mano a un milanista corro a lavarmela. Dopo averla stretta ad uno juventino, mi conto le dita».

Peppino Prisco era anche un bonario profeta. Ci trovammo insieme in un viaggio che rivelò altre comuni sensibilità. Anni Ottanta, onestamente non ricordo la data che ci portò a giocare in Georgia una partita fra la Dinamo di Tbilisi e l’Inter di Fraizzoli. Ci eravamo avvertiti al telefono: «Vengo con voi», gli dissi ,«perché ho una certa idea…». E lui: «Forse è la stessa». E infatti appena arrivati a Tbilisi organizzammo per il dì seguente un viaggio a Gori, il paese natale di Stalin. La guida ci avvertì: «Fate finta di niente. Stalin è caduto in disgrazia e non se ne può neanche parlare». La guida era un’agente della polizia politica. Arrivati a Gori, trovammo al centro della piazza principale un’immensa statua di Stalin, ma facemmo finta di non vederla.

Lì vicino, c’era anche la piccola casa dov’era nato Stalin nel 1879 ma facemmo finta di non vederla. Poco distante, c’era anche un grandioso Museo Stalin, e decidemmo di vistarlo. Salimmo una ripida scala con molti quadri di Iosif Vissarionovic Dzugasvili, poi fummo introdotti nella sala dei regali. Il primo – e più vistoso: una botte di vino con boccali e litrozzi – gli era stato inviato dai Compagni della Sezione Pci di Sesto San Giovanni. E Peppino disse: “Fedelissimi”. Mi era parso di cogliere la sua ironia, e invece disse serio: «Gente che ha creduto in lui e ha sperato che gli desse un mondo migliore».

Come un epitaffio. La pensava all’opposto, Peppino, ma era rispettoso degli avversari. Purché non fossero juventini. Usciti, riprese la sua aria furbesca e mi propose un colpo di vita. Sempre seguiti dalla guida/agente ci portammo sotto la statua di Stalin. «Ci fa una foto, signorina?».
Lei fu compiacente. Prese la mia Nikon e ci mettemmo in posa. Poi, quando lei disse “Pronti?”, levammo in alto il pugno chiuso. «Un’altra?», disse lei. E quella volta facemmo il saluto romano costringendola a far quattro risate con noi. Più tardi, nella modesta casa di un campione olimpico bevemmo un vinello scipito fin nei catini di casa.

E anche in una lattina di coca-cola che il campione si era portato da un viaggio in Occidente, quasi una reliquia. allora Peppino mi raccontò nei dettagli quella storia della lattina che 20 ottobre del 1972 aveva provocato il 7 a 1 del Borussia Moenchengladbach sull’Inter: un giocatore nerazzurro l’aveva ricevuta addosso ed era stramazzato al suolo, Sandrino Mazzola aveva raccolto una lattina qualsiasi, l’aveva consegnata all’arbitro e Prisco aveva consegnato anche una riserva scritta.

Giorni dopo, con una prodigiosa arringa davanti al tribunale Uefa, Prisco ottenne l’annullamento del match e una ripetizione decisiva a Berlino, dove l’Inter vinse.
Se Peppino Prisco non se ne fosse andato, il 12 dicembre del 2001, Calciopoli sarebbe esplosa prima. Ero stato querelato da un arbitro accusato di “juventinite” dopo un’ingiusta sconfitta nerazzurra, Peppino aveva accettato di difendermi e la causa era stata fissata a Livorno per il 14. Ci andai praticamente solo, con la sua morte nel cuore, e lo ricordai commosso davanti al giudice.
Che mi condannò.

Italo Cucci (L’Indipendenteonline 30 aprile 2007)