CHARLES John: il gigante buono

La favola del Gigante buono è stata tutta in salita, anche in campo, dove la rete, per lui, era sempre in cima a qualcosa, e ci volevano testa, cuore e fegato per arrampicarsi fin lassù. Il padre, Ned, ha piantato le tende fra le miniere di Swansea, Galles, quattro stanze senza cielo. John pesa un chilo e ottocentro grammi, la mamma, Lily, lo affida a un asilo per bambini bisognosi. Non ancora gigante, ma subito buono: i maestri, a scuola, lo elogiano per la condotta. Si arrangia: minatore e, pur di giocare, ciabattino e spazzino a disposizione dei titolari. A insegnargli la lealtà è il pugilato, che pratica durante il servizio militare, aggiudicandosi un sacco di incontri. Poi il calcio, solo quello.

Fine anni quaranta: a Leeds l’allenatore è Franck Buckley, ex centromediano cui la Grande guerra aveva messo fine a una brillante carriera, ed è lui a scovare Charles nello Swansea e a portarlo a Leeds nel 1948. Nel gennaio del 1949 John firma il suo primo contratto da professionista. Buona tecnica individuale ed eccezionali mezzi fisici, insuperabile da centromediano, addirittura travolgente quando si spingeva in avanti, Charles ha nel colpo di testa una formidabile arma con la quale abbatte i portieri avversari. Forte e dinamico, in campo si muove con grande sicurezza, tanto che Buckley lo impiega indifferentemente come difensore e attaccante.

Ben presto Charles diventa l’idolo di Elland Road e per i tifosi sarà sempre “King John”, il gigante buono. Nel campionato ’53-54 vince la classifica marcatori con 42 reti, ma non bastano a tirare su il Leeds che si classifica solamente al decimo posto. Curiosamente, l’anno successivo Charles viene impiegato quasi esclusivamente da centromediano e il Leeds finisce in quarta posizione. Nel ’55-56, stagione vissuta da attaccante, le reti sono “solo” 30 ma finalmente il Leeds United torna nel massimo campionato.

Charles non risente del salto di categoria e lo dimostra andando a segno trentotto volte. Il 1956-57, però, è segnato dall’incendio che il 18 settembre del 1956 distrugge quasi tutto lo stadio di Elland Road, le fiamme ingoiano divise, palloni, trofei e tribune, ma nessuno vuole abbandonare la casa in cui la squadra è cresciuta. A pochi giorni dall’incendio il Leeds ospita l’Aston Villa, davanti a quei pochi spettatori che trovano spazio tra le macerie: la vittoria per 1-0 con rete di “King John” è la scossa di cui tutto l’ambiente aveva bisogno. L’anno successivo lo stadio, costato 130.000 sterline, è di nuovo in piedi, anche se l’impegno economico ha richiesto un sacrificio: la cessione di Charles alla Juventus, per 65.000 sterline (circa 110 milioni di lire), una cifra che, all’epoca, fece scalpore. Alla famiglia, l’ha segnalato Gigi Peronace, pittoresco e tenace esploratore del mercato inglese.

L’ultimo scudetto bianconero, il nono, risale al 1952 e Agnelli è deciso a interrompere il digiuno. Oltre a Charles, la Juve ha ingaggiato un argentino tutto genio e astuzia, Omar Sivori, e un promettente ragazzo padovano, Bruno Nicolè, la cui carriera verrà compromessa da un’ insopportabile tendenza a ingrassare. Charles somiglia a Nordahl, il colosso svedese che qualche anno prima ha contribuito alle fortune del Milan. Usa indifferentemente il destro e il sinistro, riesce a liberarsi con disinvoltura delle marcature, ma è soprattutto devastante nel gioco di testa.

A Bologna, la prima Juve di Boniperti, Charles e Sivori subisce una memorabile stangata in amichevole (1-6). Tutto qui? si danno di gomito i critici. E’ la vigilia della stagione 1957-58: 51 punti e scudetto, Charles 28 gol e capo-cannoniere, Sivori 22, Boniperti 8. Tutto qui, serve altro? Boniperti c’è già, Sivori e Charles arrivano insieme. Altra musica. Perché sì, John, pastosa voce da baritono, si diletta pure a cantare. Gli amici lo convincono a incidere un disco: su una facciata, «Sixteen Tons», cavallo di battaglia dei leggendari Platters; sull’altra, «Love in Portofino», un successo di Fred Buscaghone. Una sera, si esibisce alla mitica Capannina di Viareggio. I testimoni narrano che un paio di giovanotti un po’ brilli lo fischiano e lo sfottono. Morale: a un tavolo c’era Sivori, volarono cazzotti e bottiglie, toccò a Charles in persona placcare, e placare, Omar e la sua ira selvaggia.

Formidabili quegli anni: gli italiani vanno in Vespa e scoprono la televisione. Federico Fellini gira «La dolce vita», Roma ospita le Olimpiadi, il Paese fa boom. Boniperti, Charles e Sivori, tre scudetti e due coppe Italia dal 1957 al 1962, sequestrano le copertine. Sivori è il genio arrogante e capriccioso, il «vizio» dell’Avvocato, Boniperti la bussola, Charles la torre, il traliccio, il colpo di testa e di martello. Quando finisce contro un palo, è il palo che invoca la spugna del massaggiatore. E se per caso gli scappa ima gomitata, chiede scusa. Fatti, non parole. Dicono che in carriera abbia mollato solo una sberla (a Sivori, per calmarlo) e picchiato solo un avversario, il fratello, nel corso di un’amichevole fra Juve e Arsenal: Mel lo marcava, e John non voleva che la gente pensasse a un duello fìnto.

Così Boniperti ricordava la lealtà ai limiti dell’eccesso del gallese: «Quando eri vicino a lui ti sentivi bene. Eri protetto dalla sua figura, eri protetto dal suo silenzio. Con lui al fianco avresti affrontato il mondo. Ma quante ne prendeva John e non ha mai reagito. Lo picchiavano per fermarlo o per non farlo saltare e lui niente, sopportava. Mai un lamento. Quando proprio non ce la faceva più, mi diceva: “Boni, quello picchiato me”. Già, come se io non avessi visto. Quante volte nello spogliatoio, nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo, mi dimenticavo di bere il té per cercare di convincerlo a saltare alzando i gomiti, in modo da proteggersi. “Tu non devi fare fallo – gli spiegavo – devi solo saltare tenendo le braccia larghe. Sarebbe sufficiente. E se fai così noi facciamo gol sempre”. Lui annuiva, giusto per farmi contento, Poi tornava in campo e si comportava esattamente come prima. L’unica sberla l’ha data a Sivori per stoppare una reazione isterica verso l’arbitro. E Omar l’ha presa. Fermo, zitto. L’ha guardato solo un po’ così»

Il mestiere e la vita però non sempre si prendono per mano. Peggy, la prima moglie, gli dà quattro figli – Peter, Terry, Melvyn, David – ma non la pace. Un donnone autoritario, una virago dai modi spicci e l’umore mobile qual piume al vento. Nel 1962, Umberto Agnelli invita Boniperti, che si era appena ritirato, a prolungare il contratto di John. Non facesse il taccagno, per uno così questo e altro. Emozionato ed etemamente grato, il gallese firma. Quel pezzo di carta e quello scarabocchio durano una notte. Ancora fresco di rasatura, Charles si precipita nell’ufficio di Boniperti e straccia il foglio: «Scusami, Giampiero, ma Peggy vuole tornare a casa».

Ci tornano giusto il tempo per accettare, fra un litigio e l’altro, l’offerta della Roma. Gioca centro-mediano L’atmosfera giallorossa dell’epoca, infarcita di intrighi e rivalità, fa il resto. Dieci partite e quattro gol sono il misero bottino di Charles, che a fine campionato torna definitivamente oltre Manica per giocare nel Cardiff e chiudere la carriera, quasi quarantenne, in una squadra di quarta divisione, l’Hereford.

John sapeva modulare la voce, non alzarla. Beveva (chi dice il giusto e chi troppo), fumava (tutti d’accordo: troppo), il fisico da toro si trasforma piano piano in un corpo debole, vulnerabile. A Torino, dalle parti della stazione di Porta Nuova, aveva aperto un ristorante, «King’s restaurant», in società con un suo compagno d’armi. Umberto Colombo. Non avrà fortuna, e andrà a rotoli anche il pub gestito a Leeds. Ama Peggy, John, e soffre come un cane finché non incontra e sposa Glenda. Gliel’avevano presentata amici comuni, alta, magra, capelli rossicci ben pettinati, il viso giovanile e abbronzato. Gli ha riempito il cuore ma non è riuscita ad arrestare l’agonia. Di sicuro, gliel’ha resa meno straziante.

Non era ricco, John Charles. Da Torino Boniperti e gli amici d’antan (fra i quali Benito Boldi) lo tengono costantemente sotto controllo, la Juve di Platini e Scirea gli dedica l’incasso di un’amichevole organizzata ad hoc. Lontano, ma non solo: questo mai. Tenta l’avventura del coach (in Canada, addirittura), si inventa improbabili mestieri, capisce di essere un peso, l’orgoglio e la dignità gli impediscono di lanciare sos. Nel gennaio 2004 soffre di un attacco di cuore prima di un’intervista per la televisione italiana, che richiede la parziale amputazione di un piede per problemi circolatori. Muore nel febbraio dello stesso anno, a Wakefield, all’età di 72 anni.