La storia del centrocampista che con umiltà e dedizione sostenne Diego Maradona nel trionfo dell’Argentina al Mondiale 1986, segnando il gol decisivo in finale.
Dietro ogni grande eroe si cela spesso un’altra figura, spesso sottovalutata eppure indispensabile. Colui che accetta di sacrificare il proprio prestigio e la gloria personale in nome di un obiettivo superiore. L’uomo che con umiltà e dedizione si fa ala portante del fenomeno, diventandone il compagno fedele e il sostegno imprescindibile. Nella storia dello sport, come nell’epica e nella mitologia, questi personaggi ricorrono di frequente. Batman non sarebbe stato nulla senza Robin al suo fianco. Sherlock Holmes trovava la sua dimensione grazie al Dr. Watson. Persino l’iconico Don Chisciotte ebbe bisogno del suo Sancho Panza per rendere immortale la sua avventura.
Il calcio non fa eccezione. Anche i fenomeni più straordinari necessitano di una spalla solida su cui reggersi. Un compagno di squadra in grado di esaltarne il talento e al contempo coprirne le fragilità.
Nella leggendaria spedizione dell’Argentina al Mondiale del 1986, questo ruolo fondamentale spettò a Jorge Burruchaga. Un centrocampista di valore cristallino, disposto però a restare dietro le quinte per sopperire alle esigenze del fuoriclasse del gruppo: Diego Armando Maradona.
Il “Pibe de Oro” era senza dubbio la stella principale di quella formazione. L’assoluto protagonista, la luce ardente attorno a cui l’intera squadra doveva orbitare. Maradona era la prima pagina, il volto celebrato ovunque. Burruchaga invece rappresentava l’anima silenziosa e laboriosa di quel gruppo. Il motorino instancabile, il mastice che teneva uniti i mattoni di quella costruzione.
Eppure, senza il suo apporto discreto ma determinante, quel Mondiale non avrebbe potuto avere lo stesso, glorioso epilogo. Quella finale del 29 giugno 1986 allo Stadio Azteca di Città del Messico rimane una delle più drammatiche della storia dei Mondiali. L’Argentina sembrava avere il trofeo in pugno, salvo poi vederlo sfuggire in pochi, concitati minuti di folle recupero tedesco. Maradona giocò una partita mostruosa, sovrastando chiunque gli si parasse davanti, ma il vero eroe di quella finale fu proprio Burruchaga, autore del gol decisivo che incoronò l’Albiceleste campione del mondo.
Un gruppo di caratteri forti
Prima dell’inizio del torneo, quella squadra argentina era tutt’altro che un gruppo coeso. Come ammise lo stesso Burruchaga: “C’erano grandi personalità, gelosie, piccole fazioni“. Eppure disponeva di grandissimi talenti. Una sconfitta in un’amichevole pre-Mondiale contro l’Atletico Nacional in Colombia aveva messo in dubbio la preparazione della squadra. Si decise allora di cancellare le altre amichevoli previste e volare direttamente in Messico, pur di preservare l’unità del gruppo.
La scelta si rivelò vincente. L’Argentina superò agevolmente la fase a gironi, battendo Bulgaria e Corea del Sud e pareggiando con l’Italia. Agli ottavi piegò l’Uruguay grazie a un gol di Pasculli, guadagnandosi i quarti contro l’Inghilterra.
Fu in quel match che Maradona e Burruchaga diedero un assaggio della loro intesa perfetta. Due prodezze del “Pibe de Oro” misero al tappeto gli inglesi, ma quando Bilardo decise di togliere dal campo Burruchaga per preservarlo in vista della semifinale, il gioco argentino perse mordente. Un errore che il CT non avrebbe più ripetuto.
Un centrocampista indispensabile
Burruchaga divenne l’interprete perfetto del gioco di Maradona, il suo maggiordomo di lusso in campo. Nelle semifinali contro il Belgio, toccò ben 98 palloni, più di ogni altro in quella edizione del Mondiale: erano quasi tutti scarichi e appoggi per il suo fenomenale compagno di squadra. Capì che dopo la prova contro l’Inghilterra, quello era il modo migliore per esaltare il fuoriclasse. Bastava servirgli palla per permettergli di fare la differenza.
“Ho sempre detto: grazie a Dio, Diego è argentino“, dichiarò Burruchaga. “Tutti sapevamo cosa significava per noi, anche se non dobbiamo dimenticare che avevamo una squadra straordinaria. Aiutavamo tutti Diego a diventare ciò che è stato. Era l’asso di picche, ma la squadra lo aiutava molto“. Nessuno più di Jorge Luis Burruchaga.
La finalissima
Il piano del CT Beckenbauer per la finale contro l’albiceleste era semplice e chiaro: disporre Lothar Matthäus come marcatore fisso su Maradona per renderlo meno incisivo. Nulla di nuovo per i tedeschi, che in passato avevano adottato questa tattica per limitare fenomeni come Bobby Charlton o Johan Cruijff.
Se fosse andata così, toccava a Burruchaga farsi carico di impostare il gioco in mediana, creando per Valdano e Maradona le opportunità per sbloccare il risultato. Ed effettivamente, dopo il vantaggio siglato da Brown su sponda del “Burru“, l’Argentina prese il controllo della partita, trovando anche il raddoppio con Valdano.
Poi, l’incredibile risveglio tedesco. Burruchaga racconta: “Iniziammo bene, finimmo il primo tempo sull’1-0 e segnammo ancora nella ripresa. Ed è lì che iniziarono ad andare male le cose“. In appena 7 minuti, la Germania pareggiò i conti con le reti di Rummenigge e Völler, trascinata dal calore del pubblico messicano.
“La folla messicana ci condizionò molto, festeggiavano anche i gol tedeschi. Ma noi restammo calmi“, ricorda Burruchaga. “Ricordo che tornammo al centrocampo, con Maradona che urlava qualcosa, e io gli dissi: ‘Stai tranquillo, andremo a vincere’. Ci guardammo, e quello sguardo valeva più di mille parole“.
Il gol della vita
Cosa si dissero in quello sguardo, solo loro due lo sanno. Ma di lì a poco Maradona e Burruchaga confezionarono il gol che avrebbe consegnato all’Argentina la seconda Coppa del Mondo della sua storia.
“A pochi minuti dal loro pareggio, io partii da sinistra verso destra, davanti a Förster sulla fascia, e gridai a Diego che mi stavo muovendo da solo, che c’era spazio. Anche se non mi aveva sentito, girandosi mi servì un pallone perfetto permettendomi di involarmi verso la porta“. Burruchaga vide lo spazio, disse a Maradona dove si sarebbe mosso, e il fuoriclasse lo servì puntualmente lanciandolo a tu per tu con Schumacher.
“Non vidi nemmeno Valdano dall’altra parte che urlava di servirlo. Per me era il momento più importante. Vidi la palla entrare in rete mentre correvo verso destra ad esultare“. Un attimo di sospensione, poi la realizzazione di ciò che aveva appena compiuto: “Il momento più divino che ho vissuto fu il successivo abbraccio con Valdano, che mi guardò negli occhi e disse: ‘Ora sì, siamo campioni del mondo’. E allora mi sono sciolto in lacrime“.
Quando fu il suo turno di sollevare l’ambita Coppa del Mondo, Burruchaga la baciò con devozione prima di mostrarla al cielo, come a riconoscere la grazia divina che gli aveva permesso di realizzare quel sogno. In quel momento, fu avvolto da un’emozione travolgente.
“Probabilmente ci rendemmo davvero conto di essere campioni del mondo solo quando ritornammo in Argentina e vedemmo tutta quella gente esultante” ricordò in seguito Burruchaga. “Era qualcosa di veramente impressionante, non solo per il trofeo in sé, ma per poter dire ad alta voce: ‘Siamo i campioni del mondo!’. Quelle sono parole magiche, soprattutto se sei il giocatore che ha segnato il gol decisivo della finale.“
L’accoglienza trionfale della folla argentina fu indescrivibile. Milioni di persone in delirio riempirono le strade per celebrare i nuovi eroi nazionali. Burruchaga, l’uomo che aveva regalato il secondo titolo iridato al suo paese con quella prodezza allo Stadio Azteca, fu sommerso dall’affetto e dalla gratitudine dei connazionali.
In quei festeggiamenti interminabili, con le vie della capitale trasformate in un’esplosione di gioia e colori albicelesti, il centrocampista rivisse le emozioni di quei magici attimi in cui aveva trafitto il cuore della Germania Ovest: la palla che rotola inesorabilmente in rete dopo il suo diagonale imprendibile, l’estasi della corsa verso il settore dei tifosi argentini, con le braccia al cielo. E soprattutto, l’abbraccio dolcissimo con Jorge Valdano, i loro occhi che si incrociavano e il compagno che gli sussurrava: “Ora sì, siamo campioni del mondo!”.
Un sogno che Burruchaga aveva inseguito sin da bambino, fin dai primi calci tirati nei campetti di periferia di Buenos Aires. Ora quel bambino poteva gridarlo al mondo intero, con quel trofeo stretto al petto: “Siamo i campioni!“. La gloria eterna, raggiunta da perfetto comprimario, con una prodezza che lo aveva reso immortale agli occhi di ogni appassionato di calcio. Jorge Burruchaga, l’eroe nascosto del Mondiale ’86, poteva finalmente uscire dall’ombra e brillare di luce propria.