Jorge Carrascosa, il Lupo che disse no ai colonnelli

La storia di Jorge Carrascosa, terzino sinistro dell’Argentina degli anni settanta, che si rifiutò di partecipare ai mondiali di calcio del 1978 che, Videla e i colonnelli – protagonisti in negativo di una delle dittature più spaventose e brutali del novecento – utilizzarono per dare un’immagine positiva dell’Argentina.

Chiudete gli occhi e immaginate: alzare la coppa del mondo, con la maglia della propria nazionale, davanti al proprio pubblico. Chi da bambino non ha mai fatto un sogno così? Un sogno, appunto. Si sarebbe disposti a tutto per realizzarlo. A tutto, forse, o quasi. Perché c’è anche chi, a quel sogno, ha deciso di rinunciare, perché non era giusto e perché non ne valeva la pena.

La storia di Jorge Carrascosa è una delle più belle che ci ha consegnato la memoria del pallone del ventesimo secolo eppure è una delle più dimenticate (non ha nemmeno una pagina su Wikipedia!): troppo grande, troppo incomprensibile fu il suo gesto, in un mare di indifferenza e di ipocrisia. Terzino sinistro dell’Argentina degli anni Settanta, buono, ma non un fuoriclasse.

Grande temperamento, pero’, quello del ‘Lobo’, il Lupo, Carrascosa, che gli aveva fatto guadagnare i gradi di capitano della Nazionale alla vigilia di quel campionato del mondo del 1978 sul quale Videla e i colonnelli che tenevano il paese sotto una delle dittature più spaventose del Novecento avevano investito tutto per diffondere all’estero l’immagine di un’Argentina Felix. La cosa, almeno fino a un certo punto, funzionò. Un paese intero, provato da una dittatura sanguinaria, per un mese si fermò.

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Carrascosa con un giovanissimo Maradona

Non si fermarono (se non per quelle due ore in cui scendevano in campo Mario Kempes, Bertoni e le altre glorie nazionali) le torture negli scantinati di Buenos Aires, le feroci cacce al nemico orchestrate dalla tripla A, l’Alleanza anticomunista argentina, le persecuzioni degli oppositori. Non si fermarono quei voli della morte che hanno gettato, vive, nell’oceano, decine di migliaia di persone, sopratutto ragazzi, come quelli con la maglia albiceleste che facevano sognare un popolo. Non si fermarono il pianto e la rabbia delle madri di Plaza de Mayo che chiedevano verità e giustizia per i loro figli desaparecidos, scomparsi nel nulla. E non si fermò il grande tourbillon del calcio. Videla e i suoi soci fecero di tutto per ottenere l’organizzazione del mondiale e ci riuscirono. E fecero di tutto per portare all’Argentina quel titolo mondiale che non era mai arrivato.

La squadra era ricca di talenti: oltre a Kempes e a Bertoni c’era un altro grande attaccante come Luque, c’era il bizzarro Ardiles, c’era il monumentale libero Daniel Passarella. Ma non c’era lui, il Lobo, Jorge Carrascosa. Non certo il più talentuoso di quella nidiata dove emetteva i primi vagiti anche Diego Maradona (non convocato però per il mondiale), ma di sicuro il più carismatico. L’anima di quella squadra. El lobo disse di no. Voltò le spalle ai suoi colonnelli, gettò a terra la sua fascia perché non voleva sporcarla di sangue. Non disse una parola, non la dirà mai più. A trent’anni non ancora fatti lasciò la nazionale, un anno dopo il calcio. Non avrebbe avuto senso alzare una coppa per quella gente, che teneva l’Argentina piegata dal terrore. Sarebbe stata una coppa sporca.

Ma la storia, anche quella del calcio, la scrivono i vincitori e dalle mani di Videla, che nel giorno della finale aveva accanto il gran maestro della P2 Licio Gelli, quella coppa la riceverà Daniel Passarella. Bella squadra, quell’Argentina. Ma che per vincere fece davvero di tutto. Come quella che è passata alla storia come la ‘Marmelada Peruana’, la vittoria per 6-0 sul Perù che le ha consentito di accedere alla finale (serviva infatti una vittoria con molti gol di scarto per superare il Brasile nella differenza reti). Il Perù schierò in porta Ramon Quiroga, ‘el loco’, argentino appena naturalizzato peruviano, che incassò sei gol da comiche e anni dopo ammetterà la combine. Prima di quella partita lo spogliatoio peruviano ricevette una visita di Videla con il Segretario di Stato americano Henry Kissinger. Il governo argentino aveva appena regalato un milione di tonnellate di grano al Perù, e venne aperta una linea di credito di 50 milioni di dollari. E sulla corruzione della squadra peruviana ci fu anche un coinvolgimento, mai chiarito, del narcotraffico colombiano.

La finale contro l’Olanda del calcio totale (orfana di Cruyff, rimasto a casa per un altro mistero mai davvero chiarito), arbitrata non senza polemiche dall’italiano Guido Gonella, vide l’Argentina vincere 3-1 dopo i supplementari. Si racconta che Menotti, l’allenatore, chiese ai suoi di non guardare i militari, ma la gente in estasi assiepata sugli spalti: ”non vinciamo per quei figli di puttana, vinciamo per alleviare il dolore del popolo”. In quei 120 minuti una nazione si fermò.

Accanto al Monumental di Buenos Aires dove si giocava la gara del secolo c’è la Escuela de Mecanica de la Armada, uno dei luoghi di detenzione più sanguinario, e in quei 120 minuti si fermarono anche le torture. Lì, come nel Garage Olimpo. Là dentro, in mezzo ad un paese in delirio, c’erano migliaia di prigionieri che si stavano facendo lentamente ammazzare. Avrebbero voluto essere là fuori, ad ubriacarsi e far festa con gli amici per il primo titolo mondiale dell’Argentina. Ma non avevano vinto loro, avevano vinto quelli che li stavano ammazzando. El Lobo Jorge Carrascosa dette un calcio ai suoi sogni di bambino e non volle essere uno di quelli.

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Vogts e Carrascosa in un amichevole del 1977

L’intervista

Nel 1978 lasciò la fascia a Passarella, che strinse la mano a Videla e alzò la Coppa della vergogna in un tripudio di papelitos. Passarella, che è diventato un eroe, un monumento. Ricco, famoso. E che molto, ma molto tempo dopo, disse: «Se avessi davvero saputo cosa stava accadendo nel mio Paese, anche io non avrei indossato la maglia della Nazionale».

Il Lupo ha sempre un’espressione triste e austera, ma per una volta se la ride: «Ah sì? Ha davvero detto così?». Vive in una modesta, pulita casa di Adrogué, a sud di Buenos Aires. Non vuole più fotografie, si vergogna. Chiacchiera lento davanti alla televisione durante una partita della sua squadra del cuore, l’Huracan. Ha un’espressione serena, giovanile. «Strano. Quando giocavo a pallone dicevano che ero un vecchio noioso».

Sospira, ricordando quelli che sostenevano che la fascia da capitano dell’Argentina gliel’avevano data solo perché era amico dell’allenatore, il Flaco Luis Cesar Menotti, un tipo sospettato d’essere mezzo comunista. «Un uomo speciale: nel ’73 avevamo vinto insieme un irripetibile campionato proprio con l’Huracan». Menotti e Carrascosa, che coppia.

Però mollare tutto alla vigilia di un mondiale in casa, da favoriti: perché, Gran Capitàn? «Fisicamente e dal punto di vista tecnico stavo benissimo: ma è dentro di te, che devi essere in forma. E quello che stava accadendo mi faceva stare male. Non avrei potuto giocare e divertirmi, non sarebbe stato coerente».

Per il regime, la Coppa del Mondo era una occasione imperdibile. La retorica del prestigio. «Invece erano solo delle partite di football. Certe cose – la patria, l’essere fratelli, la vita o la morte – non hanno niente a che vedere col prendere a calci un pallone. Si vince o si perde, però con dignità. Per questo non mi sono mai pentito della mia scelta».

Conserva qualche vecchio articolo, ma non ditelo in giro. Sui giornali dell’epoca lo descrivono come un difensore grintoso e tecnico, duttile, di grande personalità. Vinse un altro titolo col Rosario Central (insieme a una stagione con Sivori), esordì con il Banfield. Giocò trenta partite in maglia albiceleste e un mondiale: sì, ma era il 1974, il presidente era Peròn. Che morì il giorno dopo l’ultimo match, perso 2 a 1 con il Brasile.

«Eravamo nel girone dell’Italia. E successe una cosa molto brutta, non so se la conoscete: alcuni dei miei compagni organizzarono una colletta per “stimolare” la Polonia a dare il massimo contro gli azzurri. Una storia che mi segnò moltissimo, e che forse è anche uno dei motivi per cui – quattro anni più tardi – dissi di no. Che senso ha giocare quando sai che in un modo o nell’altro ti faranno vincere?».

Degli italiani cosa ricorda? «Ho una madre di origine italiana, piemontese: un fenomeno. Poi la Fiorentina, ci giocammo a metà degli anni Settanta: che bella squadra». Un giorno ha detto basta col calcio. E poi. «Ho scoperto che avevo fatto la scelta giusta. Che bisogna investire nell’amicizia, nella famiglia. Avevo altri anni di contratto da calciatore, ma i soldi non erano importanti. Con un amico siamo diventati assicuratori: un lavoro onesto, che mi ha permesso di conoscere tante belle persone. Di continuare a vivere nel mio quartiere. Una questione di valori, anche se non è facile trovare la pace interiore. Felice? Adesso alla mia età sono verso la fine della partita: però mi sembra di averla giocata bene».

Oggi Jorge Carrascosa non disputerebbe neppure un incontro: troppi soldi e compromessi, in giro. «Ogni epoca ha le sue sfide. Forse questa è più difficile, è tutto sempre più complesso e ingiusto: ma l’uomo deve continuare a cercare, a farsi delle domande. Chi lavora, ha l’obbligo morale di contribuire al miglioramento del suo lavoro e del mondo: coi fatti. Basta poco, ma ci vuole coerenza».