HAMRIN Kurt: il volo dell’uccellino

«C‘è un’ala al mio paese che non ha rivali in Europa. Si chiama Kurt Hamrin. Il giorno che metterà piede in Italia, farà stravedere»

La frase è di Nils Liedholm, “grande vecchio” del calcio svedese e del Milan, e risale alla metà degli anni Cinquanta. All’epoca Kurt Hamrin ha poco più di vent’anni e una fama ancora acerba fuori dai confini svedesi. In patria tuttavia è già qualcosa più di una promessa: frequenta infatti la Nazionale, da quando si è rivelato precoce talento nelle file dell’AIK Solna, squadra di un sobborgo di Stoccolma, vincendo la graduatoria dei cannonieri a vent’anni con 22 reti in 21 partite. Vola leggero come un uccellino (e questo diventerà in Italia il suo soprannome), tanto il suo dribbling è leggero e aerea la rapidità di movimenti; quando però si tratta di colpire, la sua efficacia è micidiale e proprio l’abilità in zona gol ha solleticato i grandi club italiani, notoriamente sensibili all’argomento “campioni stranieri”.

Nel 1955, in occasione di un’amichevole in Portogallo con la Nazionale, in tribuna c’è Sandro Puppo, allenatore della Juventus. L’occhio dell’esperto non tradisce e a fine partita lo stesso tecnico avvicina il giovane Kurt (non è ancora tempo di procuratori…), chiedendogli se se la sentirebbe di partire per l’Italia, destinazione Juventus. Figlio di un imbianchino, Hamrin era entrato a far parte dei “pulcini” dell’AIK a cinque anni, da lì, percorrendo tutta la trafila delle squadre giovanili; ma già a quattordici aveva dovuto lasciare la scuola per trovare un lavoro (operaio in una zincografia) e dare una mano economica alla famiglia.

Facile dunque immaginare la risposta del giovane zincografo-attaccante a quella proposta: un entusiastico sì, tradotto nella firma sotto il contratto, alla fine di quello stesso anno, con relativo trasferimento a Torino. Chiudeva la sua carriera svedese con 59 gol in 63 partite di campionato. Solo a partire dalla stagione successiva, tuttavia, Hamrin poté diventare professionista a tutti gli effetti. E gli effetti non furono granché, non tanto per colpa sua, ancorché un minimo prezzo all’ambientamento fosse logico che lo pagasse, quanto per la stagione infelice vissuta dall’intera squadra. Puppo, alla guida di un gruppo di giovani promettenti (soprannominati “i Puppanti”) non riuscì neppure a concludere la stagione, sostituito, prima che certi segnali diventassero allarmi veri e propri, da Baldo Depetrini. Il posto finale per la Juventus rappresentava uno smacco pesante e Umberto Agnelli, che contava appena 22 anni, decise di passare ufficialmente al comando del club, dopo il breve tirocinio “ufficioso”.

hamrin-aik-wp
Kurt Hamrin con la maglia dell’AIK Stoccolma

Il suo ingresso in scena fu fragoroso, scortato da due acquisti boom quali dovevano rivelarsi quelli di John Charles, centravanti, e Omar Sivori, genio, entrambi goleador emeriti. Hamrin venne sacrificato non solo alla dirompente classe dei due, ma anche all’idea di una certa fragilità che il suo andirivieni dall’infermeria alla squadra aveva suggerito. L’esordio era stato fulminante: doppietta all’Olimpico contro la Lazio, rete alla Spal la domenica dopo a Torino. Ecco una nuova stella, avevano titolato i giornali, sull’onda di un guizzo in area leggero e inafferrabile come una piuma che un attimo prima del gol disorientava difensori e portieri.

Poi, erano cominciati i malanni, infortuni uno dietro l’altro a bollare le sue caviglie con un’etichetta imbarazzante: “di vetro”. Venne ceduto in provincia, al Padova, che sotto la guida di Nereo Rocco faceva incetta di campioni dismessi dai grandi club e li ricostruiva assieme alle proprie fortune. Kurt Hamrin non solo non aveva le caviglie di vetro, ma in quell’anno a Padova dimostrò di possedere armi micidiali sulla via del gol. A fargli compagnia in avanti, un altro “infortunato di lusso” dell’anno prima, il centravanti Sergio Brighenti della Sampdoria, destinato a salire fino alle prime posizioni nella graduatoria assoluta dei cannonieri italiani di tutti i tempi.

I due si intendevano talmente bene da dar vita a una coppia d’attacco micidiale, che coi suoi gol fiondò la provinciale di lusso fino al terzo posto in classifica, record assoluto della storia biancoscudata, dietro Juventus e Fiorentina. Inevitabile che il “big” recuperato lasciasse in fretta il bacino di carenaggio di provincia, per mete più prestigiose.

Hamrin in mezzo ad Azzini e Scagnellato nell’anno d’oro del Padova

Hamrin tornò alla Juve, che, già coperta com’era in fatto di assi di fuorivia, non faticò a trovare estimatori per quel minuscolo gioiello da 20 gol in 30 partite, che nell’estate di quell’anno, il 1958, ebbe modo di incantare il mondo in Svezia, arrendendosi con la Nazionale di Gren e Liedholm solo al Brasile, in una finale piena di gol e magie. La Fiorentina, dunque, reduce dal secondo posto e ansiosa di offrire una continuazione tricolore allo scudetto del 1956, si prese il vicecampione del mondo, nel quadro di una generale operazione di rinnovamento.

Il presidente Befani chiudeva il fastoso capitolo Bernardini, per portare in panchina Lajos Czeizler, il “Buddha” del calcio italiano, un allenatore ungherese “macchiatosi” per la sollecita eliminazione dal Mondiale 1954 alla guida della Nazionale. Se ne era andato il favoloso Julinho, aveva lasciato Firenze anche il discusso Virgili, poderoso ex enfant prodige, ormai criticato da una vistosa parte della tifoseria e c’era un gran bisogno di volti nuovi, specie in attacco. Hamrin avrebbe dunque preso il posto del brasiliano, fidando che la diversità del proprio gioco lo riparasse da diretti confronti, mentre al centro dell’attacco andava a piazzarsi il virgulto Petris, di ritorno dopo l’esperienza alla Triestina.

Esplosivo l’impatto sul campionato, complice il nuovo modulo di Czeizler, che abbandonava il contropiede caro all’alchimista (dello spettacolo) Bernardini per sguinzagliare i propri veltri in un modulo tempesta e assalto, tutto volto all’offesa. Ne sortì il terzo consecutivo secondo posto, con ben 95 reti realizzate in 34 partite e lo scudetto a un soffio, i tre punti in più totalizzati dal Milan. L’effetto-Hamrin fu dirompente e basta il dato numerico a sintetizzarlo: 26 gol in 32 partite.

Stupiva soprattutto, del nuovo idolo di Firenze, la leggerezza soave con cui levitava sulla partita, una sorta di foglia sospinta dal vento sempre nella stessa direzione: il gol. Dribbling fulminante, tiro implacabile dopo il classico zig-zag in area che ubriacava i difensori disorientando il portiere. Kurt, idolo della folla, capace di cancellare l’ombra malinconica di Julinho l’asso della fantasia. Felici furono anche le successive stagioni, pur nel declino della squadra. Andatosene zio Lajos, fu un altro straniero, l’argentino giramondo Luis Carniglia, a cogliere il secondo posto (quarto consecutivo) e poi lentamente i gigliati scesero di qualche gradino, accomodandosi su un terreno di sia pure aurea mediocrità, cui conferì peraltro non lieve lustro la conquista della prima Coppa delle Coppe e della Coppa Italia, nel 1961, e poi di nuovo la Coppa Italia oltre alla Mitropa Cup nel 1966.

Così recentemente Hamrin dichiarò l’amore per la Fiorentina e Firenze: «è una città piccola, c’è una mentalità provinciale e se arriva lo scudetto, come è successo nel ‘56 e nel ‘69, è un fatto episodico, che purtroppo non ha seguito. Le grandi città del calcio sono Milano con Inter e Milan e Torino con la Juventus. Quando arrivai a Firenze la squadra era molto più grande della società, che non aveva peso politico. Con una società più forte alle spalle, nel ‘59 e nel ‘60 avremmo anche potuto conquistare lo scudetto, anziché arrivare secondi».

Kurt Hamrin restò inafferrabile pilota dell’attacco fino al 1967, cogliendo tra l’altro un prestigioso primato. Accadde nel campionato 1963-64: seconda giornata di ritorno, a Bergamo la Fiorentina superò l’Atalanta con un eclatante 7-0 e ben 5 reti portavano la firma dell’inafferrabile Kurt, che diventava (e rimane tuttora) primatista assoluto delle reti segnate in trasferta in una sola partita.

A un certo punto però, si cominciò a dire che Hamrin era diventato vecchio. In realtà, la Fiorentina si era molto ringiovanita, lanciando per motivi economici una “linea verde” destinata a riportarla sulle piste dello scudetto. Coi suoi trentun anni Hamrin era il “nonno” della compagnia e così infatti lo chiamavano, come lui stesso ha recentemente rivelato: «Ero un po’ la chioccia di quei ragazzi, tanto che mi chiamavano affettuosamente “nonno”. Invitavo spesso a cena a casa mia De Sisti, Merlo, Brugnera e Bertini: mia moglie la chiamavano “mamma”!».

Qualcuno temeva che non fosse in grado di reggere i ritmi della compagnia di ragazzini e così anche l’idolo svedese di una intera tifoseria a un certo punto, annacquata leggermente l’immagine da un logico calo del numero di gol, fece le valigie. A premere per servirsi ancora dei suoi guizzi e della sagacia tattica con cui l’esperienza lo guidava a surrogare l’appannamento dello scatto e della forza fisica fu Nereo Rocco. L’antico “Paron” lo aveva rigenerato da ragazzino nel Padova, poi lo aveva richiesto per il suo Torino nei primi anni Sessanta, per ripiegare poi sull’altro attaccante viola, l’eterna promessa Orlando, nel timore che fossero risorti i guai fisici degli inizi italiani.

hamrin-milan-wp
Hamrin con Rocco negli anni d’oro del Milan fine anni sessanta

Nel 1967 dunque Rocco, tornato all’ovile rossonero, si ingegnò a costruire una squadra formidabile, mescolando insieme gioventù ed esperienza. Chiese dunque Hamrin e la Fiorentina, che voleva Amarildo, accettò, dovendo sborsare come sovrappiù un centinaio di milioni, Non tutti erano d’accordo: gli intellettuali fiorentini furono addirittura sul punto di riunirsi per firmare un manifesto contro la partenza di “Uccellino”. Lasciava comunque con 150 gol, primato assoluto in maglia viola fino all’avvento di Batistuta. L’operazione fece la fortuna di tutti. La Fiorentina di lì a un paio di stagioni avrebbe chiuso con lo scudetto la generale crescita di quella memorabile covata di giovani. Rocco invece col suo Milan vinse a raffica: Coppa delle Coppe, scudetto e Coppa dei Campioni in due anni.

Così ricorda Hamrin il suo amato Paròn:Non me l’aspettavo. Avevo 32 anni, ma Rocco aveva chiesto espressamente tre elementi di esperienza da inserire in una squadra giovane: Cudicini in porta, Malatrasi al centro della difesa e io in attacco. In quella squadra c’erano Trapattoni, Rosato e Rivera. E in due anni vinco tutto: la coppa delle Coppe, lo scudetto e l’anno successivo la Coppa dei Campioni“. E mette la firma personale nel primo successo: a Rotterdam sono due gol di Kurt nei primi 19’ a dare al Milan la coppa delle Coppe contro l’Amburgo. È il 26 maggio 1968.

Emigrò poi al Napoli, primo acquisto di un giovane presidente, Corrado Ferlaino. Sotto il Vesuvio chiuse la lunga e onoratissima carriera, a quasi trentasette anni.
Napoli è la cosa più bella che possa capitare ad un calciatore. Ma quando le cose vanno bene. Era una gran bella squadra con Zoff, Panzanato, Bianchi, Juliano Altafini e Sormani. Finimmo terzi. La leggerezza, il modo di fare dei napoletani mi ha fatto trascorrere un bel periodo

Con la Nazionale svedese aveva collezionato 17 reti in 32 partite. Lasciò Napoli per tornare a Firenze, la sua patria di elezione, dove tuttora vive e contatti… inevitabili col mondo del calcio, visto che una delle sue figlie ha sposato Moreno Roggi, ex gloria viola e poi procuratore di grande successo. Quel suo volo da Uccellino si libra ancora oggi nella memoria degli appassionati meno giovani.