Stranieri d’Italia: L

LALAS – LAUDRUP – LAW – LIBONATTI – LIEDHOLM – LINDSKOG – LOJACONO


LALAS: il chitarrista innamorato del 'soccer'

Non è stato un campione, Alexi Lalas, eppure ha in qualche modo lasciato una traccia importante nel nostro calcio, riuscendo a rimanere a galla nel football del business e dei miliardi senza rinunciare alla propria individualità di simpatico anarchico della vita. «Probabilmente suono meglio di come gioco. Però nel soccer metto una grandissima energia»; questo il suo “manifesto” al momento di presentarsi ai giornalisti il giorno del suo sbarco a Padova, anno di grazia (iridata) 1994. Prima del Mondiale statunitense Lalas è soltanto un dilettante che Bora Milutinovic, Ct USA, ha scoperto ai tempi della sua militanza nella squadra del college. Non esistendo un campionato vero e proprio, il tecnico della selezione americana tiene i suoi ragazzi in ritiro per due anni, per farne una squadra in vista della World Cup da giocare in casa. Al momento del dunque la sua formazione non sfigura, viene eliminata con onore negli ottavi dal Brasile futuro campione e molti osservatori stranieri mettono gli occhi sui giocatori yankee.
Fra questi spicca per il suo look proprio il rosso e barbuto stopper Lalas, una sorta di incrocio fra Buffalo Bill e il Generale Custer. E al termine del Mondiale, fra lo sbalordimento generale, il Padova ingaggia il musicista-calciatore. Istrionico per natura, annuncia che per lui il calcio non conta più della musica. La sua popolarità valica i confini della città, viene conteso dalle trasmissioni televisive e invitato ad esibirsi dal vivo con la chitarra. Incide un Cd (“Far from dose”), ma non si limita agli aspetti coreografici. Smentendo ogni previsione, in campo Lalas sa farsi rispettare.
Centrale difensivo di grande temperamento e eccezionali doti fisiche, segna una rete al Milan, spianando alla sua squadra la strada di una vittoria epica. All’ultimo tuffo il Padova si salva e conferma Lalas anche per la stagione successiva, che però interromperà per tornare al “soccer” made in Usa.

LAUDRUP: il principe danese

Strano rapporto, quello fra Michael Laudrup, etereo principe danese, e l’Italia. Destinato i spaccare le tifoserie: in curva c’era chi lo adorava e chi non poteva soffrirlo. La sua avventura italiana iniziò per volere di Boniperti, consigliato dall’ex fenomeno bianconero John Hansen, osservatore per la Juve nella sua Danimarca.
La raccomandazione fu talmente forte che la Signora parcheggiò l’appena diciannovenne talento alla Lazio di Chinaglia. Le due stagioni trascorse nella capitale furono contraddittorie: il primo anno “Miki il Vichingo”, tocco morbido, gran dribbling e invenzioni geniali, contribuì in maniera determinante alla salvezza in extremis della squadra, ma nulla potè nel campionato successivo, che si concluse con la retrocessione dei biancazzurri. Quello sfortunato episodio diede il “la” a tutte le sue future tribolazioni: il suo tecnico di allora, Lorenzo, lo soprannominò ”Pollo Freddo”, alludendo alla sua scarsa propensione al sacrificio. La Juventus lo volle comunque alla sua corte, per realizzare una delle squadre capolavoro di Trapattoni. Schierato sulla fascia sinistra, dirimpetto a Mauro con Serena sfondatore centrale e l’appoggio di un certo Platini, Laudrup visse una stagione straordinaria, vincendo la Coppa Intercontinentale (con una sua importantissima rete), poi il ventiduesimo scudetto. La sua avventura in bianconero continuò con risultati meno convincenti, e tra polemiche che lui non alimentava e non amava. A venticinque anni, Michael Laudrup partì per la Spagna, prima Barcellona e poi Real Madrid, dove diede nuovi saggi della sua raffinatissima classe prima di chiudere la carriera con l’Ajax nel 1998

LAW: il talento scozzese tradito dal Torino

Professionista a nemmeno 17 anni, Denis Law diventa celebre in tutta la Gran Bretagna e gli inglesi del Manchester United lo acquistano nel 1960, appena ventenne. L’anno seguente il Torino, battendo la concorrenza di numerose società italiane, si assicura il giovane fuoriclasse, che pare la spalla ideale per l’inglese Baker. Il tandem Law-Baker non delude: lo scozzese si dimostra generoso e pronto al sacrificio fino all’esauri- mento delle forze, non disdegnando la puntata a rete. Law, autentico mago del pallone, imposta il gioco, detta i ritmi della squadra, duetta coi compagni e va in gol come un attaccante: sotto la Mole diviene ben presto un idolo che strabilia tutto il calcio italiano. Inevitabilmente, la concorrenza vuole strappare il biondo d’oltremanica al vecchio Torino: a fine stagione (pare senza avvertire il giocatore, tornato in patria per le vacanze), la società granata lo cede ai cugini della Juventus. Questo non va però giù a Denis, che dichiara guerra al Toro, dal quale non si aspettava una simile mancanza di riguardo. Arrabbiato, lo scozzese se ne torna al Manchester (dove con lo United formerà la straordinaria “Holy Trinity” assieme a Best e Charlton) a disegnare nuove prodezze calcando i campi di calcio fino a 34 anni. Si ritirerà nel 1974 dopo aver partecipato con La Scozia al suo unico Campionato del Mondo.

LIBONATTI: il bomber del 'trio'

Fu il primo oriundo a giocare in Nazionale, il 28 ottobre 1926 a Praga, e proprio la norma che consentiva ai figli di italiani nati all’estero di possedere la doppia nazionalità era stata alla base del suo ingaggio da parte del Torino ricco e ambizioso del conte Marone. Piccolo di statura, forte come una quercia, coniugava la classe purissima al senso pratico dei migliori giocatori argentini. Il che gli consentiva di andare in gol in proprio, ma anche di fornire spettacolari assist ai due compagni del leggendario “trio” granata: il sontuoso regista Baloncieri e Rossetti. Dopo aver subito da lui il gol del primo risultato utile italiano in terra iberica. Ricardo Zamora, il portiere spagnolo considerato tra i più grandi della storia del calcio, lo definì «l’attaccante più pericoloso del mondo».
Nel 1927 vinse lo scudetto, poi revocato per il “caso Al-lemandi”. Si ripetè l’anno dopo, quando tutta Italia ammirava il gioco armonioso e spettacolare del “trio”: 89 gol misero a segno in tre (35 Julio, 31 Baloncieri, 23 Rossetti). Fantastica anche la carriera in Nazionale, con 17 partite e 15 reti. Nel 1929 si ammalò e fu a lungo fuori squadra. Si riprese prontamente e chiuse nel Toro sostituendo Baloncieri, ritiratosi, e lasciando la maglia a Busoni. Emigrò al Genoa, per riportarlo in A, poi tornò in patria, dove è morto nel 1982. Viveur instancabile, di allegria contagiosa, spendeva cifre enormi per coltivare la propria eleganza. Al punto che, nonostante i lauti guadagni, dovettero pagargli il biglietto del piroscafo quando decise di fare ritorno nella sua Argentina.

LIEDHOLM: il monumento che si innamorò dell'Italia

Leggenda del calcio, campione di perfezione applicata alla sfera di cuoio, giunse a Milano nel 1949, con la raccomandazione del padre (contrario alla passione del figlio) di non soffermarsi all’estero per più di due anni: Nils Liedholm non se ne andò più, innamorato di questo paese che diventò la sua seconda patria. Da bambino prometteva di diventare campione di sci, solo d’estate, per non restare inattivo, si dedicava al calcio. Campione di discesa libera a 15 anni, una improvvisa malattia agli occhi, che il medico di famiglia giudicò causata dal riverbero della neve, lo constrinse ad abbandonare lo sport preferito. Si dedicò allora al pallone con rinnovato entusiasmo, emergendo presto tra i giovani del Norrköping. Alto di statura, longilineo, eccelleva nel gioco di testa ma soprattutto per la pulizia del tocco, la precisione assoluta del passaggio e la visione di gioco. Alle Olimpiadi di Londra 1948 si rivelò al mondo, assieme ai compagni Gren e Nordahl, vincendo il titolo. Il “pompiere” fu il primo a trasferirsi in Italia, l’anno dopo anche Nils (che si guadagnava da vivere come ragioniere in uno studio legale), su sollecitazione dello stesso centravanti, venne chiamato dal Milan, che con lui, Nordahl e il “professor” Gren costituì un trio d’attacco tra i più spettacolari ed efficaci della storia del calcio.
Liedholm divenne una istituzione rossonera, conquistando 4 scudetti e due volte la Coppa Latina, antesignana della Coppa dei Campioni. Leggendario per la precisione del gioco, vuole la leggenda che un applauso liberatorio di San Siro salutasse, dopo anni, il suo primo passaggio sbagliato. Nel 1958, a trentasei anni, fu gran protagonista del Mondiale, segnando il gol d’apertura nella finale col Brasile, poi vincente, di Pelé. Via via arretrò il proprio raggio d’azione, prima a centrocampo, da mezzapunta a sontuoso regista offensivo, poi in difesa, come “libero” di straordinaria efficacia, eccellente nelle chiusure, specie in acrobazia, e impeccabile nei rilanci, da vero regista arretrato della squadra. Per anni, senza sbavature, dispensò il suo magistero di strepitoso campione anche di correttezza: in dodici campionati, non subì mai un’ammonizione.
Diede l’addio al calcio giocato a trentanove anni, con una bacheca colma di trofei. In Svezia, contava due scudetti e 23 presenze in Nazionale, con ben undici reti. Diventato allenatore (Milan, Roma, Fiorentina, Verona e Varese), vinse altri due scudetti con Milan e Roma.

LINDSKOG: il fuoriclasse travesito da fantasma

Arriva in Italia nel 1956, proveniente dal Malmö, su segnalazione di Ramon Filippini, ex Legnano. E’ l’Udinese a ingaggiarlo, per scoprirlo, dopo un breve periodo di adattamento, come uno dei migliori giocatori del campionato. Interno di raffinata classe, fisicamente prestante, capace di proporsi sia come suggeritore che come realizzatore, in particolare partendo da lontano, diventa il leader della formazione. Al termine della seconda stagione a Udine, viene accolto alla corte dell’Inter, che intende affiancarlo a Firmani e Angelillo in un trio delle meraviglie. Gli inizi in nerazzurro sono però quanto mai deludenti: non sembra neppure l’ombra del fenomeno che aveva illuminato la formazione friulana. Solo la terza stagione nerazzurra svela il fuoriclasse. Liberato dalla presenza ingombrante di Angelillo, Lindskog non è più l’oggetto misterioso, ma il faro dell’intera squadra, che illumina con le sue invenzioni e i suoi gol. Al termine del suo miglior campionato lo svedese, che ha anche ottenuto la fascia di capitano, viene scaricato senza una parola dal club, per fare posto ai “nuovi” Hitchens e Suarez. Amareggiato, deve accontentarsi di una sistemazione triennale a Lecco, fra A e B, senza più toccare le vette raggiunte nell’ultima stagione interista.

LOJACONO: talento puro e dolce vita

Era forte come un toro e geniale come il più puro fuoriclasse della sua terra, l’Argentina. Francisco Ramón Lojacono arrivò in Italia giovanissimo, nel dicembre 1956, ingaggiato dalla Fiorentina. Avendo già straniero (Julinho) e “oriundo” (Montuori), il club viola campione d’Italia lo prestò al Vicenza, dove le sue diaboliche invenzioni furono determinanti per la salvezza: celebri i suoi gol al volo e le sue punizioni, potenti e beffarde, con traiettorie arcuate e imprevedibili. Riscattato dai viola dopo l”‘italianizzazione” di Montuori, non fu subito pari alle attese, sballottato tra i ruoli d’attacco e mai ottenendo da Bernardini la libertà di inventare che il suo calcio tutto istinto chiedeva. L’anno successivo esplose in tutta la sua classe. Divenne un idolo della folla, facendosi però spesso tradire dal proprio carattere violento: mandato a quel paese da Gratton per un passaggio mancato, rispose rifilandogli un poderoso ceffone. Stanchi delle sue bizze e delle continue espulsioni, i dirigenti lo cedettero alla Roma. Le tentazioni della Capitale lo avvolsero: divenne un protagonista della dolce vita, passando da amori da rotocalco (mentre il suo matrimonio naufragava) a lunghe sedute al tavolo da gioco. Protagonista anche in Nazionale come “oriundo” (otto presenze e cinque reti, debutto il 28 febbraio 1958 contro la Spagna. Fu un suo tiro a provocare una celebre «papera» di Nicolò Carosio durante Cecoslovacchia-Italia 2-1: «Gol, anzi palo!»), perse il posto in squadra e venne considerato finito. Lo riprese la Fiorentina con un contratto a gettone, ma deluse. Tornò alla Roma che lo rifilò alla Sampdoria. Sembrava un “ex”, poi a sorpresa rinacque in B nell’Alessandria e continuò fino a 35 anni.
Spentosi nel settembre 2002 per complicazioni sovvenute a seguito di un’operazione ai polmoni, i magistrati indagarono sulla sua morte ritenendola “sospetta” in relazione al fatto che Lojacono avesse militato nello stesso periodo nella Sampdoria in cui vi militarono altri quattro calciatori le cui morti furono dovute alla SLA: Tito Cucchiaroni (morto in un incidente stradale, ma presumibilmente affetto da SLA), Ernst Ocwirk, Guido Vincenzi e il portiere Enzo Matteucci.