La nascita del FOOTBALL

Le prime testimonianze della nascita del football si ritrovano nel racconto omerico che narra dei viaggi di Ulisse: sull’isola di Scheria uomini e donne davano spettacolo lanciandosi una sfera. Da allora, attraverso continue evoluzioni nei secoli, si è giunti al 1800, ovvero alla nascita ufficiale del «Football».

«Nelle man tosto la leggiadra palla / si recaro, che ad essi avea l’industre / Polibo fatta, e colorata in rosso, / L’un la palla gittava in ver le fosche / nubi, curvato indietro; e l’altro, un salto / spiccando, riceveala, ed al compagno / la rispingea senza fatica o sforzo, / pria che di nuovo il suol col pie toccasse» (Omero)

Circa 3.000 anni fa, cent’anni più cent’anni meno, dopo una lunghissima successione di avventure durate vent’anni, Ulisse, di ritorno da Troia sbarcò nell’isola di Scheria (oggi Corfù) abitata dal felice popolo dei Feaci. Alcinoo, monarca di quelle genti, lo accolse con grande cortesia, pur non sapendo di trovarsi al cospetto del violatore della città di Priamo, gli offerse banchetti ricchi delle più prelibate vivande ed indisse in suo onore un ciclo di gare di corsa, lotta e lanci di pietre levigate che tanto ricordano, nei versi di Omero, le discipline olimpiche del getto del peso e del lancio del disco. A completare il trattenimento offerto all’illustre ospite, i figli di Re Alcinoo, Laodamante e Alio, tratta dalle mani di un liberto una «vermiglia palla», inscenarono una danza nel corso della quale diedero corso ad una estemporanea esibizione di pallamano.

Quindi tremila anni fa, lo strumento che caratterizza oggi una buona parte degli sports di squadra era conosciuto ed utilizzato per discipline atletiche solo lontanamente ravvisabili in alcuni giochi moderni. E’ impensabile infatti, cercare le origini del «football» che noi conosciamo oltre il XIX secolo. Anche se l’harpastum romano fece scrivere al medico greco Claudio Galieno che «… la superiorità del gioco della palla rispetto alle altre discipline non è mai stata sufficientemente analizzata… io affermo che il migliore di tutti gli sports è quello che non solamente fa lavorare il corpo, ma serve anche a divertire…» con ciò facendo intendere che l’indefinibile fascino del nostro calcio, permeava anche quell’antico gioco, sarebbe una forzatura arbitraria cercare la genesi in tempi lontani, contrabbandando per simili, discipline che in comune avevano solamente l’oggetto, la méta e l’aggressività dell’atleta. L’harpastum era un misto di calcio e di rugby, di lotta e di boxe, ed era il passatempo preferito dei rudi legionari romani che lo giocavano quando l’esercito stazionava nei territori dell’impero, ed è senz’altro il progenitore del calcio che si giocava nella Firenze medicea.

Anno 1688: il calcio a Firenza in una tavola dell’epoca

Sarebbe interessante analizzare e definire una volta per tutte, la traccia che collega il rude passatempo dei legionari romani al «football» dei collegiali inglesi passando per il calcio fiorentino, ma la mancanza di fonti che definiscano i regolamenti dei giochi più antichi, ne impedisce lo studio e la comparazione. Così il cordone ombelicale che unisce la danza di Laodamante e Alio, ai nostri stadi gremiti di folla ad ammirare le gesta dei ventidue atleti rimane l’oggetto del gioco: la palla. E’ dimostrato che nell’antichità l’abilità nel gioco della palla era ritenuta sintomo certo dì fertilità, e con l’andare dei secoli, nelle diverse parti del globo per meritare la benevolenza degli dei il contadino sotterrava una palla nel campo di patate o nella terra del grano. Così facendo ci si garantiva un raccolto di ricche messi e ciò fa intendere che l’oggetto era simbolo di qualità divine, che gli derivavano forse dalla forma sferica simile al sole e alla luna.

I romani dei tempi di Marziale conoscevano quattro tipi di palla, fra loro differenti per la grossezza e utilizzate per quattro diversi tipi di gioco. Il progenitore del nostro pallone da calcio è forse l’arpasto lasciato dai romani a semina nella fertile terra degli anglo-sassoni. E quel popolo virile, aduso alle conquiste della spada, ma anche al sano esercizio fisico per rinvigorire i muscoli seppe tramandare nel tempo la tradizione del gioco che creava salutare divertimento ma anche risse e baruffe nelle fazioni in lotta. Spulciando negli annali di storia inglese, non è difficile scovare ordinanze come questa di Nicola di Farndone, Lord Mayor di Londra nel 1314, che «in nome del Re interdiva sotto pena di arresto, il gioco della palla con mani e piedi, dal territorio della città». E cinquant’anni dopo Edoardo III confermava tale editto, consigliando ai popolani che volevano «conseguire sano divertimento» nei giorni di festa «il tiro con l’arco e le frecce» piuttosto che il violento «gioco con la palla». Ma gli editti e i divieti ebbero poca fortuna evidentemente e agli inizi del XIX secolo ritroviamo il gioco con la palla come disciplina sportiva nei colleges frequentati dalla migliore borghesia inglese.

Si deve a William Webb Ellis la definitiva scissione tra "foot-ball" e "rugby"
Si deve a William Webb Ellis la definitiva scissione tra “foot-ball” e “rugby”

Quella borghesia che aveva innescato la rivoluzione industriale e assicurato alla corona britannica larghissimi domini, diede vita nel corso del 1800 a quasi tutti gli sports oggi conosciuti. Il progenitore del nostro calcio si chiamava già allora «football» (piede-palla) poiché questa dizione semplificava tout-court il «ball-play» (gioco di palla) o il «playing at ball» (giocare a palla). «Football» appare per la prima volta in un editto che ne vietava il gioco per gli abitanti di Halifax e questo significa che fra le diverse discipline in voga allora, una prevedeva essenzialmente l’uso dei piedi per giocare la palla ed infilarla nel corso della disputa fra due legni che delimitavano la méta avversaria.

Nell’era moderna quindi il «football» arriva con regole tramandate dagli usi, ma non codificato da regolamentazioni precise. Ed è appunto nel 1823, nel college di Rugby, durante una partita, che lo studente William Webb Ellis, impossessandosi della palla con le mani e portandola fin oltre la linea di méta avversa aprì il «casus-belli» e da quel giorno il gioco che prevedeva l’impiego degli arti inferiori prese il nome di «football» e l’altro «rugby». Le regolamentazioni verranno poi codificate nel 1848 dall’Università di Cambridge e nella stessa occasione si stabiliscono le misure del campo, la larghezza della porta, le norme di marcamento e le relative punizioni derivanti dalle infrazioni. Il numero dei componenti ogni squadra è indicato in undici ma non si sa quale origine abbia. E’ molto probabile che il fondamento di tale scelta dipenda dal numero dei letti di ogni camerata, appunto undici.


 

La prima partita internazionale

Questo lungo preambolo, dedicato alle origini del gioco del calcio ha quindi stabilito la nascita del «più grande spettacolo del mondo», come qualcuno lo ha definito, nella verde Inghilterra. Ed è proprio nella terra di Albione, culla del gioco, che viene disputata la prima partita internazionale di tutti i tempi: la diretta progenitrice dei match fra nazioni che diedero poi vita alla Coppa del Mondo. I tornei che si giocavano nei colleges, interessavano strettamente gli studenti e i familiari di questi, ma il gioco era praticato anche fuori delle mura delle public-school, ed e forse su iniziativa di ex-universitari già inseriti nella vita pubblica che il «football» fu strutturato con la nascita della Football Association nella Freemasons’ Tavern di Queen Street in Londra, lunedì 26 ottobre 1863.

Siamo arrivati agli anni decisivi del nostro calcio, nei tre lustri che vanno dal 1857, nascita dello Sheffield primo club calcistico d’Inghilterra al 1872, “first official England von Scotland” e le strutture del football britannico vengono collaudate dalle prime manifestazioni impegnative. Nel 1871 nasce la Football Association Cup con la partecipazione di quindici società, nel 72 vengono uniformati peso e misura della palla da gioco ed è proprio con lo strumento definitivamente regolamentato che Scozia ed Inghilterra danno vita, il 30 novembre, alla prima partita che termina la reti inviolate. Con il passare degli anni le strutture del calcio inglese si rafforzano e quello che è il gioco moderno nel senso delle regole che conosciamo si modella successivamente con l’introduzione di dettagli come il calcio di rigore, penalty kick, nel 1891, con la dizione goal-net inventata da un certo Mister Brodie di Liverpool nel 1890.

La Freemasons' Tavern di Queen Street a Londra
La Freemasons’ Tavern di Queen Street a Londra

L’avvento dell’International Board nel 1886 rende omogeneo il regolamento del gioco, e quindi lo spettacolo prende sempre più consistenza, di interesse nel pubblico che accorre numerosissimo agli incontri delle manifestazioni più popolari, come il Campionato di Lega organizzato a cominciare dal 1888 e la Football Association Cup. Alla finale di Coppa del 1901 allo stadio del Crystal Palace di Londra, fra Tottenham e Sheffield United assistono 114.000 persone. Un impulso formidabile proviene dal riconoscimento a tutti gli effetti del professionismo e come effetto decisivo la strutturazione interna dei clubs che si organizzano assumendo preparatori ed allenatori.

Già allora il calcio britannico poteva vantare grandissime figure come Steve Bloomer, cannoniere devastante, Johnny Goodall artista e costruttore scientifico del gioco, Ernest «Nudger» Needham, giocatore polivalente capace di operare in tutte le zone del campo e a questi idoli che furono i primi divi nella storia del football non fu difficile strappare alle proprie società contratti professionistici abbastanza remunerativi. La Football Association da parte sua, prevedendo gli sviluppi spettacolari del gioco, aveva permesso fin dal 1885, diritto d’identità ai giocatori professionisti, con ciò sciogliendo quel nodo gordiano che in altre parti del mondo susciterà travagli ed equivoci.

1872: il primo match internazionale tra Inghilterra e Scozia
1872: il primo match internazionale tra Inghilterra e Scozia

L’Espansione: sbarco sulle rive del Plata

Figlio del progresso industriale nel regno britannico, con l’espansione dell’influenza inglese nei territori che si preparavano a sfruttarne l’esperienza facendo capo ai tecnici di quella nazione, il football nell’ultimo trentennio dell’800 cominciò ad espandersi a macchia d’olio sul continente europeo e sulle rive sudamericane dell’Oceano Atlantico. La struttura industriale inglese, nata verso la fine del XVIII secolo con lo sfruttamento dei grandi giacimenti di ferro e carbone, esigeva una adeguata intelaiatura commerciale incentrata sui traffici oltremare.
Da questa bisogna scaturirono una infinità di iniziative che diedero grandissimo sviluppo alle attività di esportazione, ma anche di sfruttamento delle possibilità produttive di nazioni che allacciarono con il Regno Unito una fittissima rete di import-export. Il dominio dei mari conseguenza diretta della vittoria di Wellington a Waterloo, rese possibile la conquista dei mercati, l’installazione di succursali commerciali e industriali e un traffico continuo con la madre patria. Quasi tutti i portatori del germe del football sono marinai delle navi inglesi e funzionari delle agenzie della rete commerciale e industriale britannica.

In Argentina verso il 1860 una compagnia inglese fu incaricata della costruzione della rete ferroviaria attorno a Buenos Aires che già allora stava espandendosi a dismisura sulle sponde del Rio della Plata. Nello stesso periodo il commercio mondiale della carne, di cui l’Argentina era ed é grande produttrice, richiese la costruzione di grandi frigoriferi per la conservazione e naturalmente gli inglesi si appropriarono gli appalti per l’edificazione e lo sfruttamento degli stabilimenti industriali. Il grande sviluppo dei porti nella costa meridionale sudamericana, rese possibile l’incremento dei traffici anche in Montevideo, capitale dell’Uruguay nello stesso periodo dell’insediamento commerciale inglese in Argentina.

Le due nazioni conobbero il football contemporaneamente e giocarono il loro primo incontro internazionale ancora prima che Charles Miller sbarcasse in San Paolo del Brasile con un pallone da football sotto il braccio. In realtà quella non fu una partita fra uruguagi e argentini, al massimo si potrebbe riconoscere la qualifica di residenti a tutti i componenti delle formazioni che portavano nomi inequivocabilmente britannici. Comunque é di notevole rilievo storico sapere che nei 1899, a Montevideo, nei centro sportivo «La Blanquesda», argentini (Buenos Aires team) e uruguaiani (Montevideo team) disputarono la sfida e i bonaarensi vinsero per 3-0.

In Brasile invece il football sbarca più tardi e a farvi entrare il germe fu un certo Charles Miller nativo di San Paolo ma figlio di un residente inglese che lo aveva mandato in Inghilterra a completare gli studi. Al ritorno il giovane Charles si portò appresso un pallone da football e introdusse nella grande nazione sudamericana lo strumento per il quale lo sport brasiliano é piu conosciuto nei mondo. Il football si sviluppo principalmente in San Paolo nell’ultima decade del XIX secolo e come in ogni altra parte gli inizi furono sostanzialmente inglesi. L’elemento bianco indigeno si appassiono immediatamente al nuovo sport; neri e meticci si applicarono al football con lieve ritardo, ma quando lo fecero la loro supremazia, pur in una nazione che non conosce conflitti razziali, fu abbastanza netta.

Charles Miller, al centro seduto, posa con il Sao Paulo Athletic Club nel 1904
Charles Miller, al centro seduto, posa con il Sao Paulo Athletic Club nel 1904

La conquista dell’Europa

Sul continente europeo le direttrici di sviluppo del football furono diverse ed assolutamente indipendenti l’una dall’altra, tranne alcuni casi che vedremo. Le fonti sono sempre le stesse. Navi inglesi alla fonda nei porti, marinai e funzionari impegnati nei tempo libero alla disputa di interminabili partite. In Francia dove il primo club fu fondato nei 1872, Havre Football Club, Spagna, Huelva Recreation Club, sempre nei 1872, istituito dagli impiegati inglesi delle miniere del Rio Tinto, in Italia, Genova attorno al 1890, Portogallo, Olanda, tutte le nazioni affacciate sul mare conobbero in quegli anni la presenza interessata degli inglesi e quindi l’introduzione del nuovo sport.

Ma dove per mancanza dell’elemento naturale, marinai e funzionari non ebbero modo di svolgere la loro attività propagandistica, di questa bisogna si incaricarono personaggi imprevedibili come il giardiniere dei Rotschild, che fu fra i fondatori del First Vienna nei 1894, oppure Mister Karoly Lowenrosen che in occasione della Grande Esposizione di Budapest nel 1896 fra le merci che aveva portato dall’Inghilterra esibi un pallone da football ed organizzo, coadiuvato da una ventina di ragazzi il primo incontro di calcio di Budapest. La scarsa conoscenza del gioco produsse in quell’occasione un numero elevato di incidenti e Lowenrosen fu costretto alla fuga dalle mogli degli infortunati… Incerti da pioniere.

Konrad Koch, il padre del football tedesco

Konrad Koch, il padre del football tedesco

La Germania conobbe il calcio per luce riflessa. Lo introdusse a Berlino il Prof. Konrad Kock nei 1876 dopo una lunga permanenza per ragioni di studio in Inghilterra. Il primo Club tedesco fu il Germania di Berlino che si fece propagandista ed organizzatore delle prime competizioni nella Capitale. Nelle file del Germania giocava un certo Hugo Pauli che in seguito si incaricò di far conoscere il calcio in Jugoslavia.All’inizio del XX Secolo, nonostante i mezzi di comunicazione di massa fossero allo stato sperimentale e ancora di là da venire il calcio era giocato su buona parte del globo.

La rivoluzione industriale, l’evoluzione capitalista della società, l’antico detto romano «panem et circenses» fecero il resto. Nelle grandi metropoli la concentrazione industriale imponeva un flusso continuo di manodopera. Nascevano nuovi problemi e le rivendicazioni sindacali tendevano ad una regolamentazione degli orari di lavoro per affrancare gli operai dallo sfruttamento. I pesanti turni di fabbrica suggerivano qualcosa che servisse a scaricare le tensioni e il football si offrì alla bisogna anche se definirlo «oppio dei popoli» come ha fatto qualche sociologo di facili costumi ci sembra assolutamente sproporzionato.

Nasce la FIFA

Il 30 novembre del 1872 Scozia ed Inghilterra disputarono il loro primo incontro internazionale e nel decennio che segui le partite incrociate fra le diverse nazionalità britanniche si moltiplicarono suggerendo alla Football Association un vero e proprio torneo fra le quattro distinte rappresentative. Fu chiamato Home Championship, campionato di casa, disputato nel 1884 ed appannaggio della Scozia che vinse tutte le partite contro Inghilterra Irlanda e Galles, grazie ad atleti che già allora giocavano un calcio più razionale ed organizzato. Nel continente europeo Austria e Ungheria si incontrarono a Vienna nel 1902 e solo due anni dopo l’attività internazionale prese sviluppi rapidi con le partite fra Belgio, Francia e Olanda.

Le partite fra rappresentative raffiguranti una omogeneità nazionale cominciarono in Sudamerica già nel 1901 fra Argentina ed Uruguay. Rileggendo le formazioni di quella prima occasione di scontro balza evidente che l’elemento britannico è preminente sulla presenza di indigeni nelle due formazioni. Ma già quattro anni più tardi quando Sir Thomas Lipton, grande magnate del thè mette in palio fra le rappresentative delle due nazioni la classica Coppa che porta il suo nome, nelle formazioni l’elemento locale comincia a trasparire. Nell’Argentina imperano i Brown, ma c’è anche il portiere Laforia e nell’Uruguay l’elemento inglese è quasi del tutto scomparso e troviamo i Saporiti, i Camacho, i Rovegno ecc. ecc.

I primi tre Presidenti della FIFA: Robert Guerin, Daniel Burley Woolfall e Jules Rimet

Il calcio quindi in apertura del XX secolo ha già strutture adeguate a richiederne una proiezione in campo internazionale, anche perché fin dal 1900, alle Olimpiadi di Parigi, un breve torneo dimostrativo a tre squadre ha incontrato notevole successo di pubblico… L’incrociarsi e il susseguirsi delle iniziative suggerisce ad un giornalista francese del «Matin» l’idea di una Confederazione che regoli ed organizzi l’attività internazionale delle varie federazioni e con il fine ultimo di dar vita ogni anno ad una specie di campionato del Mondo per squadre di club.

II giornalista francese Robert Guerin interessa alla cosa l’olandese Hirschmann. I due precursori sanno bene che sarebbe impossibile organizzare qualcosa di valido senza il predominante assenso della potente Football Association inglese. E perciò già l’8 maggio del 1902, Guerin va a sottoporre il suo progetto all’approvazione di Sir Frederik Wall che non aderisce all’iniziativa e rimanda nel tempo l’eventuale adesione dell’ente britannico. Non ha miglior fortuna un paio d’anni più tardi quando a presiedere la Football Association è Lord Kinnaird, e visto che gli inglesi non intendono aderire all’iniziativa non essendone stati gli ideatori e anche per una certa ritrosia ad esportare ufficialmente i segreti ed i regolamenti del nuovo sport, Robert Guerin cui non manca certamente la tenacia decide con la complicità di Hirschmann, di dar mano al progetto anche senza l’appoggio britannico.

Emanati gli inviti, alla convocazione a Parigi per il 21 maggio 1904 rispondono otto federazioni. E’ il primo Congresso della Federazione Internazionale di Football e oltre alla Francia e all’Olanda partecipano i rappresentanti di Germania, Svezia, Belgio, Svizzera, Spagna e Danimarca. In rue Saint’Honoré, al n. 229, sede della Federazione Francese, si tiene il primo «meeting» associativo del calcio mondiale e viene stilato il primo statuto. Oltre al regolamento per la partecipazione ai diversi campionati i congressisti proposero di unificare le norme degli incontri internazionali e sotto la spinta di Guerin, che fu il coordinatore delle varie esigenze, nacque il proposito dell’organizzazione annuale di un campionato europeo per squadre di Club che precorreva chiaramente i tempi, visto che a qualcosa del genere si arriverà ben cinquantanni dopo.

Comunque il progetto venne stilato e quale scadenza per le iscrizioni venne stabilita la data del 31 agosto 1905. Le adesioni dovevano pervenire al segretariato di Ginevra, ma al solito l’ideologia fa sempre a pugni con la pratica, e quando si trattò di tirare le somme circa la partecipazione delle squadre campioni invitate ci si accorse che nessuna società aveva risposto all’invito. Comunque la felice riuscita del congresso parigino aveva suscitato l’effetto sperato sui dirigenti della Federazione inglese. Un anno dopo ed esattamente l’1 aprile 1905 aderirono alla FIFA ed organizzarono il secondo congresso dell’associazione. Dopo la delusione per la mancata attuazione dell’ambizioso progetto relativo al campionato, Mister Wolfall succeduto al dimissionario Guerin, prese in mano autoritariamente le leve di comando in occasione del congresso di Berna del 1906.

Mister Wolfall presidente della FA e della FIFA, nel discorso di insediamento si affidò più al pragmatismo che alla ideologia velleitaria. In quattro parole evidenziò le pecche della giovane associazione ed indicò quelle che dovevano essere le direttrici di sviluppo del calcio continentale. Riconoscimento di una sola federazione e di un solo campionato nazionale, rispetto uniforme per le regole del gioco e quindi riconoscimento dell’International Board, unico depositario del regolamento e delle eventuali modifiche. Riconosciuta l’incapacità ad organizzare un qualsiasi campionato internazionale, per le ancora troppo deboli strutture, Mister Wolfall, suggerì di sfruttare convenientemente l’opportunità offerta dal Comitato Olimpico Internazionale, che già aveva organizzato i giochi dell’era moderna a cominciare dal 1896 con cadenza quadriennale.

Il calcio alle Olimpiadi

Come abbiamo visto, nel 1900 ai giochi di Parigi, l’Upton Town formazione di lega, inglese, aveva vinto un triangolare organizzato a scopo dimostrativo, prevalendo su francesi e belgi che avevano accettato con entusiasmo l’invito a partecipare. Il mini-torneo ebbe discreto successo, ed è per questo che il CIO accolse di buon animo la proposta lanciata da Mister Wolfall. Già a quei tempi la Federazione inglese aveva superato il nodo del professionismo e le strutture del calcio britannico erano regolate da un ordinamento razionale ed efficace. A livello di prima divisione dilettanti e professionisti coesistevano senza traumi di sorta. Il giocatore più rappresentativo della nazionale che vinse la prima Olimpiade calcistica ad esempio, era Vivien Woodward, un autentico dilettante dal talento eccezionale, tiratore formidabile che poteva ricoprire tutti i ruoli dell’attacco e di professione architetto. Ma sugli altri componenti la nazionale dei maestri era lecito nutrire qualche dubbio.

Alla Olimpiade calcistica di Londra che si disputò nell’ottobre del 1908 parteciparono due formazioni francesi etichettate A e B ma di pari valore, Inghilterra, Danimarca, Svezia e Olanda. Francia e Svezia si caricarono del ruolo di squadre materasso della competizione. Gli scandinavi furono sommersi per 12-1 nell’incontro che li opponeva agli inglesi, i transalpini subirono ben 26 reti nelle due partite disputate con i danesi. Alla finale ebbero accesso Inghilterra e Danimarca, le rappresentative più quadrate e meglio organizzate che vantavano una ben maggiore esperienza di calcio giocato e sperimentato.

La nazionale inglese alle Olimpiadi del 1908

Potrà stupire la presenza della Danimarca come finalista del torneo che si disputava sul campo di White City nel recinto dell’Esposizione Mondiale, ma qui occorre ricordare che il calcio di quel paese, ispirato al modello britannico, conobbe fin dall’inizio larga fortuna fra i praticanti, tanto che la Nazionale danese fu giudicata fra le più forti in assoluto del continente fino a minacciare come caratura la supremazia dei maestri inglesi. Ne è testimone anche il risultato della finale chiusa sul classico punteggio di 2-0 per i padroni di casa con i nordici che seppero opporre alla grande individualità di Vivien Jack Woodward, vero e proprio dominatore della rappresentativa inglese, il non meno famoso Nils Middelboe, che proprio in seguito alle esibizioni entusiasmanti nel torneò olimpico, seppe meritarsi l’ingaggio da parte del Chelsea di Londra, una società molto importante nel panorama calcistico britannico.

Nel 1912 le Olimpiadi si svolsero a Stoccolma e alla finale si classificarono ancora una volta danesi ed inglesi. Era ormai al tramonto la stella di Woodward e si affacciava alla ribalta Ivan Sharpe che diventerà apprezzato giornalista sportivo. Gli inglesi dominarono ancora e prevalsero per 4-2, grazie alle prodezze del centravanti Walden degli «speroni roventi» di Tottenham, autore di ben 10 reti nei tre incontri disputati. Per il gigantesco Middelboe e per la pletora degli Hansen che componevano la nazionale danese, non ci fu nulla da fare nemmeno in questa occasione nonostante l’impegno generosamente profuso. La partecipazione calcistica a questa Olimpiade svedese fu molto più nutrita. Presero parte alla competizione ben 11 nazioni Europee, essendo ancora impossibile organizzare un torneo a caratura mondiale per la difficoltà di comunicazione. Per valicare l’oceano, l’unico mezzo possibile era il piroscafo e il viaggio durava mediamente dai quindici ai venti giorni compatibilmente con le condizioni del mare.

Quindi fra andata, permanenza e ritorno, ad una qualsiasi nazione sudamericana, sarebbero occorsi non meno di due mesi, periodo troppo lungo per qualsiasi dilettante finto o reale. Finlandia, Olanda, Svezia, Austria, Germania, Inghilterra, Ungheria, Russia, Norvegia, Danimarca e Italia presero parte al torneo, vinto, come abbiamo visto da Vivien Woodward e compagni. E il riscontro è importante perchè fu quella l’ultima competizione internazionale vinta dai maestri inglesi fino ai mondiali di Londra del 1966. L’Italia che si era affiliata alla FIFA nell’estate del 1905 e aveva debuttato in campo internazionale sconfiggendo inaspettatamente la Francia per 6-2 all’Arena di Milano il 15 maggio 1910, aveva aderito coraggiosamente alle Olimpiadi del 1912, anche se i risultati riportati dopo la vittoria sui transalpini non erano stati esaltanti. Avevamo perso due volte con l’Ungheria, pareggiato con Francia e Svizzera e proprio in preparazione delle Olimpiadi eravamo stati sconfitti duramente dalla Francia a Torino per 3-4, in un incontro passato poi agli annali della nostra nazionale come «disastro Faroppa». Il riscontro della nostra partecipazione alle Olimpiadi di Stoccolma non fu esaltante. Sconfitti di misura dai finlandesi (2-3) dopo i tempi supplementari, gli azzurri si presero una bella rivincita nel torneo di consolazione battendo di misura (1-0) gli svedesi padroni di casa.

E fu quella la prima vittoria all’estero della nostra nazionale che già da un anno aveva abbandonato la divisa bianca delle prime partite indossando maglia azzurra e pantaloncini bianchi. Il tempo per gioire fu molto breve, poiché l’Austria pochi giorni dopo ci richiamò alla realtà con il severo punteggio di 5-1. Responsabile della squadra in quella prima spedizione azzurra era Vittorio Pozzo, segretario della federazione ma ugualmente ferrato sul piano tecnico accettò la conduzione della squadra alla sua prima ambiziosa esperienza. Dopo le due sconfitte, il futuro grande condottiero della nostra rappresentativa calcistica, indicò nella scarsa disciplina… notturna dei nostri la principale ragione degli scarsi risultati raggiunti. E certamente quella non fu una scusa di comodo visto che al seguito degli azzurri era aggregato il grande mezzofondista Emilio Lunghi, definito durante le Olimpiadi del 1908 «troppo bello e corteggiato dalle donne» dai giornalisti inglesi che erano al seguito delle gare atletiche.

Italia-Finlandia alle Olimpiadi del 1912

Dai vecchi ai nuovi Maestri

Dopo Stoccolma il grande conflitto del 1914-18 paralizzò l’attività sportiva e la barbarie della guerra insanguinò le nazioni del mondo. L’odio prese l’avvento. L’aggressività, la tenacia, lo spirito di sacrificio e di adattamento, divennero peculiarità del soldato costretto al fuoco sui suoi simili, non qualità particolari cui affidarsi per la ricerca di un record, per la conquista di una vittoria nell’agone sportivo. Finiti gli orrori della guerra in una Europa ricoperta di croci, l’assegnazione della VII Olimpiade alla città di Anversa, fu un atto di coraggio significativo dell’ansia di riscatto dell’umanità. Il «fiore del mondo», la gioventù rinata dalle rovine, ritrovò la strada della lealtà sportiva. Aderirono alle Olimpiadi che il Re del Belgio inaugurò il 14 agosto 1920, ventinove nazioni e il calcio ebbe una partecipazione consistente, tanto che il torneo di Anversa si può configurare se’ non come una vera e propria Coppa del Mondo, con un campionato Europeo di buon livello certamente.

La sconfitta degli imperi centrali nella Grande Guerra, il nuovo ordine europeo partorito dalla conferenza di Versailles, impedirono ad Austria e Germania di essere presenti. Anche l’Ungheria, che aveva sempre partecipato con onore alle precedenti edizioni, si vide rifiutare l’adesione per i rivolgimenti politici interni successivi alla tentata rivoluzione comunista di Bela Khun. In campo calcistico tali defezioni furono parzialmente mitigate dalla presenza di Spagna, Cecoslovacchia e Jugoslavia. Proprio in occasione delle Olimpiadi belghe gli iberici fecero debuttare la loro «Seleccion». Il football era sbarcato nella Spagna del nord, nella regione mineraria del Rio Tinto nel 1872, la Coppa aveva avuto regolare svolgimento fin dal 1902, indetta da Alfonso XIII nel giorno della sua incoronazione, ma ad una rappresentativa nazionale gli spagnoli arrivarono solamente in occasione delle Olimpiadi di Anversa, quando per l’incontro di apertura con la Danimarca mandarono in campo una formazione di buona levatura con Ricardo Zamora e José Samitier.

Dallo sfacelo dell’Impero Asburgico, nel 1918 era nata sotto la presidenza di Thomas Masaryk, l’entità plurinazionale composta da Boemia, Moravia, Slesia e Rutenia che dalle due rappresentanze etniche più omogenee e dagli idiomi diffusi nel territorio prese nome di Cecoslovacchia. L’unità cecoslovacca diede vita ad uno stato progredito, ricco, industrializzato e quindi già in grado un paio d’anni più tardi di mandare una rappresentativa nazionale alle Olimpiadi. I cechi misero in vetrina personalità spiccatissime come Karel Pesek più conosciuto con l’appellativo Kada, semplificazione dialettale del nome, il guercio Antonin Janda temibile cannoniere, e poi Yan Vanik, Vaclav Pilat, Antonin Hojer, Frantisek Kolenaty. Anche gli jugoslavi scelsero le Olimpiadi di Anversa per far debuttare la loro rappresentativa nazionale con risultati purtuttavia del tutto sconfortanti. Il tocco di esotismo era assicurato dalla presenza dell’Egitto e alla prima giornata un risultato imprevedibile quanto clamoroso lasciò stupefatti i tecnici convenuti in terra belga.

1920, finale olimpica tra Belgio e Cecoslovacchia

La nazionale olimpica inglese composta da dilettanti che giocavano purtuttavia nel campionato di lega, era stata sconfitta per 1-3 dalla Norvegia. Altra piacevole sorpresa fu fornita dalla Cecoslovacchia, che diede fuoco alle polveri battendo la Jugoslavia per 7-0 e procedendo sullo slancio eliminò Norvegia (4-0) e Francia (4-1), per presentarsi alla partita decisiva con i belgi padroni di casa che avevano battuto Spagna (3-1) e Olanda (3-0). La finale ebbe uno svolgimento inaspettato e mai più ripetuto in competizioni di tale livello. I cechi giocavano un football gagliardo, maschio e l’arbitro inglese Lewis giudicò eccessiva la decisione dei difensori nello stroncare le iniziative dei belgi. Le continue interruzioni del gioco ingenerarono in Kada e compagni il sospetto di un risultato pilotato in favore dei padroni di casa. Il fattaccio che aggravò la situazione avvenne verso la fine del primo tempo, quando Lewis decise di spedire negli spogliatoi il terzino Steiner reo di una entrata troppo gagliarda ai danni di un attaccante belga. I cechi protestarono e dopo la sosta non si presentarono sul campo di gioco permettendo così la vittoria dei belgi per squalifica. Gli azzurri furono inaspettatamente eliminati dalla Francia (1-3) dopo aver superato il primo turno a spese dell’Egitto (2-1). Nel girone di consolazione una vittoria sulla Norvegia (2-1) fresca vincitrice dell’Inghilterra e una sconfitta inflittaci dalle «furie rosse» spagnole.

L’VIII e la IX Olimpiade vennero organizzate a Parigi e ad Amsterdam, rispettivamente nel 1924 e nel 1928 appena un anno prima della grande depressione economica, e le strutture del calcio moderno, le novità tattiche successive alla variazione della regola del fuorigioco (1925) hanno le loro radici in quelle due fantastiche edizioni olimpiche che furono la vera cartina di tornasole del favore che il gioco esportato dagli inglesi aveva incontrato nel mondo. All’edizione parigina del 1924 avevano aderito 22 nazioni, ma la novità più interessante proveniva dalla presenza dell’Uruguay, atteso alla prova circondato di una morbosa curiosità. Sulla rappresentativa uruguaiana erano nati miti e leggende ancora prima che la delegazione arrivasse a Parigi, quando si era appreso che durante gli allenamenti sostenuti in Spagna, avevano giocato nove partite vincendole tutte con apparente facilità. Le notizie che arrivavano allora dal Sudamerica erano incerte e contraddittorie.

Si sapeva del grande valore dell’Uruguay che aveva vinto il Campionato Sudamericano e che l’Argentina era la sua più irriducibile avversaria fin dalla prima edizione del torneo che aveva avuto inizio nel 1916. Di più non si sapeva e quindi la curiosità che circondava tutti quei figli d’emigranti spagnoli, italiani, portoghesi, ecc. era più che legittima. Il campo dimostrò chiaramente che le leggende erano ben affondate nella realtà. Giocatori come José Leandro Andrade, Hector Scarone, Pedro Cea, «El Mariscal» José Nasazzi suscitarono grandissima impressione per la tecnica raffinata e per la capacità di convertire in rete manovre geometriche perfettamente congegnate.

L’Uruguay che stupì il mondo alle Olimpiadi francesi del 1924

Gli uruguaiani nelle 5 partite disputate compresa la finale con la Svizzera segnarono la bellezza di 20 gol, subendone solamente due ad opera di Francia e Olanda. Vinsero tutte le partite dall’alto di una organizzazione di gioco più razionale e grazie alle grandi individualità già citate. A maggior merito degli uruguaiani è necessario sottolineare che quella non era nemmeno la migliore formazione che potesse vantare in quel momento la nazione sudamericana. Mancava ad esempio il «colored» Isabelino Gradin, meraviglioso atleta che alternava la pratica calcistica alle gare atletiche ed era stato definito «el terror das pistas». Giocava interno sinistro e sfruttava appieno la velocità di cui era dotato per appoggiare il gioco di Fedro Petrone, che verrà poi alla Fiorentina e che nella storia del calcio uruguaiano rivoluzionò la figura del centravanti. Era assente José Piendibene, che durante un incontro con la nazionale Argentina dopo aver dribblato l’intera difesa composta in gran parte dai fratelli Brown, fu elogiato da uno di questi «Mi complimento. Sei un vero maestro», e divenne «El maestro» per tutti i tifosi uruguaiani. Piendibene fu l’espressione più calzante della figura del centravanti arretrato nello schema «en abanico» (ventaglio) di derivazione scozzese e introdotto nel 1909 da Juan Harley nel Penarol.

Lo schema di questa tattica d’attacco prevedeva il centravanti arretrato di una quindicina di metri rispetto alle mezze ali deputate al gol, mentre le ali dislocate in profondità avevano il compito della scorribanda in diagonale con relativo tiro oppure la centrata per l’inserimento del centravanti o delle mezze ali. Piendibene, che fu anche grande goleador, inventò il «paseto» figura di gioco nella quale funzionava da «pared» (muro) per smarcare i compagni al tiro. Al potenziale di quella squadra già grande mancavano gli esponenti del Penarol. Gente come José Benincasa, Pellegrino Anselmo, Antonio Campolo che hanno un posto preciso nella storia del calcio uruguaiano. La grande risonanza della vittoria della «celeste» moltiplicò in Europa il desiderio di ammirare quei funamboli e l’anno dopo il Nacional di Montevideo, la società di Andrade e Scarone, Zibechi e Petrone cominciò una lunga «gira al exterior» che la portò su molti campi d’Europa a mostrare grandi spettacoli di gioco.

Ad Amsterdam un vero Mondiale

Le Olimpiadi parigine segnarono un notevole salto di qualità per la nazionale azzurra. Con Vittorio Pozzo Commissario Unico, l’Italia riuscì ad accedere ai quarti grazie alla combattutissima vittoria sulla Spagna di Zamora (1-0) e sul modesto Lussemburgo (2-0). Nei quarti fummo sbattuti fuori da un gol in fuorigioco segnatoci dallo svizzero Abegglen II e concesso dall’arbitro olandese Mutters. Perdemmo 2-1 e quella vittoria favorì il passaggio della Svizzera che grazie alla vittoria sulla Svezia riuscirà ad arrivare in finale per essere poi sconfitta nettamente dagli impietosi uruguaiani per 0-3. La completa valorizzazione della nostra nazionale coincise con la partecipazione alle Olimpiadi di Amsterdam nel 1928.

A livello di semifinale incontrammo i campionissimi uruguaiani e perdemmo per il minimo scarto (2-3): gli azzurri lasciarono una buonissima impressione sui tecnici presenti. L’Uruguay si salvò grazie alla mancata concessione di un rigore per un clamoroso mani di Andrade in piena area, ma la spedizione azzurra fu ugualmente positiva con la conquista del terzo posto (11-3) a spese dell’Egitto. I rilevanti progressi denunciati dalla nazionale che era guidata da Rangone saranno confermati un paio d’anni più tardi con la clamorosa vittoria di Budapest e con il successo nella Coppa Internazionale.

La Nazionale italiana all’arrivo ad Amsterdam

La partecipazione vittoriosa dell’Uruguay alle Olimpiadi del ’24 aveva acceso in Sudamerica la miccia dell’emulazione. In Argentina il successo della «celeste» era stato accolto con sarcasmo poiché la tifoseria di Buenos Aires era fermamente convinta della superiorità del calcio portenho e denigrando la vittoria olimpica trovava motivi di conforto. La successiva vittoria della «celeste» nel campionato Sudamericano disputato in Montevideo nell’ottobre del ’24 fece accettare il boccone amaro anche ai più irriducibili sostenitori della superiorità dei Tesorieri, Tarasconi, Seoane e compagni.

L’alternarsi dei successi nella massima competizione sudamericana, nella quale il Brasile faceva assai di rado sentire la sua voce, sollecitò comunque i dirigenti argentini a partecipare alle Olimpiadi di Amsterdam subito imitati da Cile e Messico. La «seleccion» argentina attirò su di sé i consensi come già aveva fatto quattro anni prima la consorella uruguaiana. Ventitré reti nei tre incontri disputati, undici agli Stati Uniti, sei cadauno a Belgio ed Egitto prima della doppia finale con l’Uruguay. Se Andrade, Petrone, Cea, Castro e Scarone erano i massimi esponenti della scuola uruguaiana, il capocannoniere del torneo Tarasconi, Nolo Ferreyra, Orsi, Monti e Paternoster non erano certamente da meno quanto a perfezione tecnica e vigoria fisica.

L’edizione olimpica di Amsterdam conobbe vertici di gioco eccezionali specialmente nel doppio confronto che si rese necessario ai fini dell’assegnazione della vittoria. Prevalse ancora una volta l’Uruguay grazie ad un gol del «mago» Scarone al 20′ della ripresa dopo che il primo tempo era terminato con una rete per parte. Il trionfo della scuola sudamericana ebbe larghissima ripercussione sul calcio europeo. In Italia ad esempio si aprì la caccia ai grandi esponenti del calcio rio-platense ed in tempi diversi approdarono al nostro campionato assi come Orsi e Monti, Scarone e Petrone ecc. ecc. Altri cercarono di ispirarsi a quella scuola che prevedeva perfezione tecnica e stilistica e rispetto delle geometrie nelle manovre.

Olimpiadi 1928: Una fase della finale tra Uruguay e Argentina

Nasce la Coppa del Mondo

Questa lunga panoramica sul calcio olimpico che spazia nei vent’anni dal torneo di Londra a quello di Amsterdam, si è reso necessario per stabilire le tappe successive del progresso calcistico nel mondo. Anche perché senza la vetrina olimpica il calcio non avrebbe avuto forse il rapido sviluppo che lo trasformò da semplice passatempo per la borghesia inglese, a vero e proprio spettacolo con retroterra di interessi che si facevano di anno in anno più consistenti. Dalle 4000 persone che si erano assiepate lungo i bordi del Partick Ground di Glasgow per assistere nel 1872 alla prima partita fra Scozia e Inghilterra, alle 45000 che videro il trionfo degli uruguaiani a danno degli olandesi ad Amsterdam si era giunti affrontando e risolvendo problemi strutturali di ogni genere.

Questa crescita esplosiva aveva innescato un problema che fu alla base del distacco del football dagli sport inquadrati nelle discipline olimpiche. Il problema del professionismo era nato rumorosamente durante l’edizione parigina del ’24. I due mesi passati dagli uruguaiani in terra europea avevano acceso la polemica. Fu chiaro che assi come Andrade, Scarone, Petrone, Nasazzi facevano del calcio una vera professione e quindi erano in aperto contrasto con le tavole della legge olimpica dettate da De Coubertin.

L’Inghilterra ad esempio si era già astenuta dal torneo di Parigi e mantenne l’ostracismo anche per Amsterdam. Austria, Cecoslovacchia ed Ungheria l’avevano imitata pur disponendo di formazioni di notevole livello qualitativo, certamente fra le migliori nel contesto europeo. L’edizione del ’28 aveva rischiato di saltare, ma furono gli olandesi che insistendo tenacemente con il CIO e con la FIFA resero possibile un compromesso così congegnato. Tutti i capi-delegazione si impegnavano sotto giuramento a non riconoscere ad alcun calciatore niente di più del «mancato guadagno» ammesso dalle norme olimpiche ed inoltre la manifestazione sarebbe stata organizzata nella prima quindicina di giugno come preambolo alle Olimpiadi vere e proprie che avrebbero avuto inizio a fine luglio.

Del progetto che Mister Wolfall aveva accantonato nel 1904, s’era riparlato nel 1919 durante il primo congresso post-bellico. La FIFA aveva rilanciato l’idea di una manifestazione aperta a tutte le federazioni affiliate e dopo il grande successo dell’edizione parigina del 1924 venne insediata una commissione composta dai Signori Bonnet, Meisl, Delaunay, Linnemann e Ferretti con il fine di studiare le possibilità relative all’organizzazione di un torneo mondiale con il patrocinio della FIFA.

La creatura di Jules Rimet

Questa commissione nata per volere dell’allora Presidente Jules Rimet concluse i lavori annunciando, durante il congresso di Amsterdam del 1928, la seguente risoluzione:«Questa Assemblea decide di organizzare nel 1930, una competizione aperta alle squadre nazionali di tutte le federazioni associate».Anche questa appariva ai più come una affermazione di principio chiaramente in anticipo sui tempi, ma gli scettici non avevano fatto i conti con la tenacia di Jules Rimet. Sotto l’impulso del Presidente, Bonnet, Delaunay, Meisl e Linnemann in forma di commissione esecutiva costruirono l’impalcatura teorica della manifestazione, rivolgendo particolare attenzione all’aspetto economico del problema. I timori di un nuovo fallimento nascevano appunto dall’elevato cumulo di spese richieste alla federazione organizzatrice, ma si andò avanti sulla strada dell’ottimismo e in occasione del congresso successivo, a Barcellona nel 1929, il regolamento di massima fu presentato all’Assemblea dei delegati:

«La FIFA organizzerà ogni quattro anni una competizione denominata “Coppa del Mondo”. L’oggetto d’arte sarà offerto dalla FIFA. La prova sarà aperta alle squadre nazionali di tutte le associazioni affiliate e si disputerà con incontri ad eliminazione. Gli accoppiamenti saranno sorteggiati. La competizione avrà luogo nel periodo dal 15 maggio al 15 giugno. Le partite avranno luogo sul territorio di una sola federazione nazionale. Se il numero dei partecipanti sarà superiore a 30, la FIFA si riserva il diritto di far disputare incontri eliminatori nel periodo precedente il torneo propriamente detto. Tutte le spese di viaggio e di soggiorno dei partecipanti e di organizzazione saranno a carico della federazione ospitante».

Ebbero ragione gli ottimisti; Ungheria, Spagna, Italia, Olanda, Svezia ed Uruguay avanzarono la loro candidatura e le pressioni dei delegati latino-americani, argentini in testa, spinsero i delegati ad optare per la soluzione uruguaiana. E’ qui che ha inizio il Romanzo dei Mondiali…