Una finale di coppa, un pronostico scontato, una squadra di amici e novanta minuti che sovvertirono ogni logica nella piovosa Glasgow del 1971.
Ci sono momenti in cui il destino si diverte a trasformare la certezza in farsa, la presunzione in commedia. Quel grigio pomeriggio di Glasgow del 1971, mentre la pioggia batteva sui vetri degli studi BBC con l’insistenza tipica della Scozia, Sam Leitch si sistemò la cravatta davanti alle telecamere di Grandstand. Era un uomo abituato a dispensare verità calcistiche come un oracolo moderno, uno di quelli che il calcio credeva di conoscerlo come le proprie tasche.
Con la sicurezza di chi sta per annunciare che il sole sorgerà a est, Leitch guardò dritto nell’obiettivo e sentenziò: “Giornata di finale di Coppa in Scozia, ad Hampden Park si affrontano Celtic e Partick Thistle, che non ha nessuna speranza.” Le parole gli uscirono naturali, quasi banali.
Non poteva immaginare, il buon Sam, che il nastro di quella trasmissione sarebbe stato riprodotto infinite volte nei decenni a venire, non come esempio di sagacia giornalistica, ma come monumento all’imprevedibilità del calcio. Non poteva sapere che in quei precisi istanti, negli spogliatoi di Hampden Park, quelle stesse parole stavano trasformandosi in benzina sul fuoco della determinazione di undici uomini in maglia giallo-rossa.
Trenta minuti. Bastarono trenta minuti per trasformare il “profeta” Leitch nel Cassandra al contrario del giornalismo sportivo britannico. La sua previsione, apparentemente scritta nel marmo della logica calcistica, si sarebbe sbriciolata come un biscotto nel tè, creando uno di quei momenti che rendono il calcio lo sport più imprevedibile e amato al mondo.
Ma questa è solo l’introduzione di una storia che ha il sapore delle grandi imprese, di quelle che si raccontano nei pub di Glasgow ancora oggi, quando la birra scorre e i ricordi si fanno più vividi.
Davide contro Golia
Il Celtic del 1971 era molto più di una squadra di calcio. Era una dinastia che aveva conquistato sei campionati consecutivi, tre Coppe di Scozia e cinque Coppe di Lega. I loro numeri erano impressionanti: più di cento gol segnati in campionato per tre stagioni consecutive, dal ’66 al ’68. L’apice era stato raggiunto nel 1967 con la vittoria della Coppa dei Campioni contro l’Inter di Herrera a Lisbona, un’impresa che aveva fatto il giro del mondo. Guidati dal carismatico Jock Stein, erano una macchina perfetta.
Con sede nel quartiere di Maryhill, il Thistle ha sempre incarnato un modo diverso di vivere il calcio nella città più calcistica di Scozia. Niente settarismi religiosi, niente rivalità esasperate. Solo calcio, quello puro, giocato con il sorriso sulle labbra e la voglia di divertire prima ancora che di vincere. “Un club di amici, mandato avanti da amici in un’atmosfera amichevole” – così si autodefinivano, e non era uno slogan vuoto.
Nel 1971, sotto la guida di Davie McParland, la squadra aveva appena riconquistato la massima serie. McParland portava con sé una filosofia precisa: ogni partita andava giocata per essere vinta, ma sempre attraverso il bel gioco. In porta c’era il diciannovenne Alan Rough, destinato a diventare una leggenda del calcio scozzese. La squadra giocava un calcio offensivo e spettacolare, che faceva stropicciare gli occhi agli appassionati.
Mentre il Celtic dominava in Scozia e in Europa, i Jags (che in scozzese significa ‘cardi’, proprio come il fiore simbolo della squadra) se la giocavano sempre a viso aperto, incuranti della differenza di blasone. Non si accontentavano di galleggiare come le altre neopromosse, ma si avventavano su qualsiasi avversario con la stessa fame. In una città dove il calcio è sempre stato molto più di uno sport, il Partick Thistle rappresentava una boccata d’aria fresca, un modo diverso di vivere la passione più grande di Glasgow.
La scintilla dell’orgoglio
A volte bastano poche parole per accendere una scintilla, per trasformare un’ordinaria giornata di calcio in qualcosa di straordinario. Mentre i giocatori del Partick Thistle ispezionavano il campo di Hampden Park, Lou Macari del Celtic passò accanto a loro con quel tipico incedere di chi sa di essere destinato alla vittoria. Si avvicinò a uno dei Jags, un sorrisetto stampato sul volto, e lasciò cadere quelle parole come si lascia cadere una moneta a un mendicante: “Beh, se non altro la medaglia per il secondo posto l’avete già vinta.”
Una frase apparentemente innocua, una di quelle battute che scivolano via nel pre-partita. Ma quando quelle parole varcarono la soglia dello spogliatoio del Partick, qualcosa cambiò nell’aria. Il silenzio che seguì fu diverso dal solito silenzio pre-partita. Era il silenzio di chi ha appena ricevuto uno schiaffo morale, di chi si sente trattato come un semplice sparring partner in quella che dovrebbe essere la partita della vita.
In quegli istanti, mentre l’eco delle parole di Macari risuonava ancora tra le pareti dello spogliatoio, undici uomini in maglia giallo-rossa smisero di essere la simpatica squadretta di Glasgow. L’orgoglio ferito stava trasformando quei romantici sognatori in qualcosa di diverso. Non erano più lì solo per giocare una finale, erano lì per dimostrare che nel calcio non esistono vittorie già scritte, che la presunzione può essere il più pericoloso degli avversari.
La tempesta perfetta
I primi cinque minuti furono un assaggio di quello che sarebbe stato: un calcio da “end-to-end” come dicono in Scozia, senza timori reverenziali. Coulston che sfreccia sulla sinistra, McQuade che fa tremare i guanti del portiere con un diagonale velenoso da 25 metri, il Partick che gioca come se non sapesse di essere l’underdog.
E poi, all’10° minuto, l’impensabile diventa realtà. Un corner apparentemente innocuo, un batti e ribatti in area, e la palla che schizza verso il limite dell’area dove Rae è appostato come un cecchino. Il suo pallonetto al volo è di quelli che si provano mille volte in allenamento senza riuscirci mai. Questa volta la parabola è perfetta, la palla si infila sotto l’incrocio. Hampden Park ammutolisce, tranne quel settore giallo-rosso che esplode d’incredulità.
Il Celtic è stordito, vacilla come un pugile che non si aspettava il primo pugno. E quando sei instabile, ogni colpo può essere fatale. Al 15° minuto arriva il raddoppio, ed è un gol che meriterebbe di essere dipinto. McQuade cambia gioco trovando Lawrie al vertice sinistro dell’area. Lo stop è di quelli che fermano il tempo: controllo di destro che lascia Hay immobile come una statua di sale, e poi un interno di precisione chirurgica sul palo più lontano. Due a zero, e non è un sogno.
L’entusiasmo diventa energia pura. Il Partick non si accontenta, assedia la metà campo avversaria come se fosse il Celtic e non viceversa. Al 23° Johnstone, il funambolico attaccante dei Bhoys, deve alzare bandiera bianca per infortunio. È un segnale: gli dei del calcio oggi hanno scelto da che parte stare.
Il terzo gol, al 28° minuto, è il frutto di questa pressione asfissiante. Ancora un corner, ancora un’azione convulsa in area. La conclusione di Bone viene respinta sulla linea, ma McQuade è lì, rapace, a ribadire in rete. Tre a zero, e ora sì che sembra davvero un sogno.
Ma il calcio sa essere più imprevedibile di qualsiasi sogno. Al 35° minuto, mentre dagli spalti si alza il coro “We want more“, il Partick orchestra un’azione che è pura poesia calcistica. Forsyth lancia sulla sinistra, Bone controlla e fugge verso il fondo superando due avversari. Il cross arretrato trova Lawrie che pennella in area per McQuade. Il suo tiro viene respinto miracolosamente, ma è solo il preludio al gol che arriverà un minuto dopo.
È il 37° quando Lawrie batte una punizione dalla fascia. Il cross spiove in area dove la difesa del Celtic sembra ipnotizzata. Bone si alza in cielo, completamente solo, e di testa firma il poker. Quattro a zero. Lo speaker della BBC dovrà ripetere due volte il risultato durante le news dell’intervallo, per essere sicuro che la Scozia intera capisca che non è un errore.
I primi quarantacinque minuti più incredibili che Hampden Park abbia mai visto stanno per concludersi. Il Partick Thistle, la piccola squadra romantica di Glasgow, ha appena dato una lezione di calcio ai campioni d’Europa. E la favola non è ancora finita.
La resistenza eroica
Negli spogliatoi del Partick durante l’intervallo regnava un silenzio surreale, rotto solo dal rumore della pioggia sul tetto. Nessuno osava parlare, come se le parole potessero spezzare l’incantesimo di quei 45 minuti perfetti. Fu McParland a rompere quella quiete carica di elettricità: “Quindici minuti. Resistete quindici minuti senza subire gol e la coppa sarà nostra.”
Il giovane Alan Rough, seduto nell’angolo dello spogliatoio, ripensava a quei primi 45 minuti in cui era stato quasi uno spettatore privilegiato: “Sapevamo che potevano rimontare. Con il nostro modo offensivo di giocare, rischiavamo di ritrovarci sotto 6-4 alla fine.“
Il secondo tempo fu l’essenza stessa della resistenza eroica. Il Celtic si riversò in attacco con la furia di chi non accetta l’umiliazione. Ma il Partick non si limitò a difendersi: nei primi dieci minuti McQuade sfiorò due volte il quinto gol, mentre Bone mancò di poco l’incrocio di testa.
Solo a metà ripresa Dalglish riuscì a trovare la via del gol, ma era troppo tardi. La pressione dei campioni si infrangeva contro un muro giallo-rosso, mentre il cronometro scorreva inesorabile verso la storia. Quando l’arbitro fischiò la fine, Glasgow aveva una nuova favola da raccontare. Il Partick Thistle aveva compiuto l’impossibile: era regina per un giorno.
Miracle Day
Si dice che quella sera, nei pub di Maryhill, non ci fosse abbastanza whisky per celebrare. La coppa passava di mano in mano come una reliquia sacra, mentre i giocatori del Partick venivano portati in trionfo da un locale all’altro. Non erano più semplici calciatori: erano diventati gli eroi di una favola moderna, i protagonisti di quella che in Scozia chiamano ancora oggi “The Thistle’s Day“.
Sam Leitch, il profeta del pronostico sbagliato, ebbe l’eleganza di ammettere il suo errore in diretta televisiva la sera stessa. La sua previsione, insieme alla battuta sprezzante di Macari sulla medaglia del secondo posto, sono diventate parte del folklore calcistico di Glasgow, citate ogni volta che una squadra più debole affronta un gigante.
Anni dopo, in un’intervista, Alan Rough rivelò un dettaglio mai raccontato prima. La mattina della finale, passando davanti a Firhill Park, lo storico stadio del Partick, aveva notato un cardo selvatico cresciuto tra le crepe del marciapiede. Quel piccolo fiore spinoso, simbolo del club, aveva resistito all’inverno scozzese proprio come la sua squadra avrebbe resistito ai campioni del Celtic poche ore dopo…