La Roma di Liedholm: Zona sinfonia

Lo storico ritorno della Roma allo scudetto fu il frutto di un cammino giunto alla sua logica maturazione. In pochi casi come in questo, nella storia del calcio, la conquista avvenne per gradi, attraverso la realizzazione di un disegno lungimirante quanto audace.

Quando Nils Liedholm, di ritorno sulla sponda giallorossa dopo lo scudetto al Milan (stagione 1978/79), lanciò il “progetto zona”, raccolse poco più che sorrisi di compatimento tra i colleghi e i critici. In un panorama tattico bloccato da decenni, in cui i radi esperimenti di difesa a zona erano più o meno miseramente naufragati, quella del maestro svedese sembrava al più una trovata per offrire stimoli – magari polemici – a un ambiente pericolosamente incline, dopo tante delusioni, a vivacchiare cullandosi su ambizioni modeste.

Invece, non solo quell’impostazione attecchì senza provocare le marce indietro così frequenti per gli innovatori audaci (due esempi: Marchioro e Vinicio), ma dimostrò di poter funzionare e dunque di attendere solo gli interpreti di alto spessore tecnico per riuscire a decollare fino al massimo obiettivo. Il salto di qualità lo provocò l’avvento del brasiliano Paulo Roberto Falcão nel 1980, all’indomani della riapertura delle frontiere.

Un acquisto fondamentale, soprattutto per la completezza del campione di Porto Alegre: un brasiliano “gaucho”, cioè della parte meridionale del Paese, dunque più incline alla praticità che non agli estetismi fini a se stessi; nel contempo, un brasiliano “vero”, quindi provvisto della sublime qualità che ci si aspetta da un campione cresciuto nella terra del futebol; infine, un regista arretrato, il migliore nel suo Paese in questo ruolo decisivo nel riassumere tutti gli equilibri del gioco. Insomma, la base ideale per costruire un edificio solido ed esteticamente apprezzabile.

La prima pietra dello scudetto ha dunque il nome di Falcão, abile sin dall’inizio a spingere i migliori talenti giallorossi a dare il meglio, soprattutto sul piano della continuità. Dopo due stagioni in Italia, Falcão era stato tra i più superbi attori (se non il primo in assoluto) del Mondiale spagnolo del 1982, vinto dagli azzurri di Bearzot, e se sul piano mentale se ne poteva prevedere un contraccolpo negativo dopo l’eliminazione del suo superBrasile (a opera dell’Italia), l’accresciuta competitività della rosa giallorossa lo stimolò a cogliere nel campionato “più bello del mondo” la più sontuosa delle rivincite.

Il presidente Dino Viola, geniale spirito ligure artefice di una società finalmente solida e ben organizzata, sottile polemico ma anche grande stratega in perfetta sintonia col mago svedese, mosse sul mercato le pedine giuste per potenziare un gruppo già attrezzatissimo.

Nils Liedholm e Dino Viola: patto di ferro

Nell’estate 1982 arrivarono in difesa il poderoso Vierchowod, sempre di proprietà della Sampdoria, il terzino sinistro Maldera, già protagonista con Liedholm dello scudetto milanista, e il terzino Nappi, dal Perugia, combattente di qualità, abile sia come mastino che nella partecipazione al gioco, da rincalzo ideale.

A centrocampo, ecco un’altra iniezione di fosforo: l’austriaco Prohaska, solenne regista proveniente dall’Inter, andava ad aggiungersi alle teste pensanti di Falcão e Di Bartolomei. In attacco il piccolo e guizzante Iorio (dal Bari), partner perfetto del classico centravanti d’area Pruzzo.

A occhio, non sembra un gruppo particolarmente ben assortito, soprattutto nella zona di mezzo. Invece Liedholm lo “lavora” con raffinata abilità, traendone una macchina poderosa, dalla regolarità destinata a schiacciare la concorrenza e ricca di apparenti “anomalie” tattiche fatte apposta per complicare il compito degli avversari.

In difesa, davanti al gatto magico Tancredi, Liedholm schiera due… terzini sinistri: Nela, un mancino forza della natura dirottato a destra con esiti eccellenti, e Maldera: entrambi sono capaci di sostenere l’azione del centrocampo oltre che di chiudere sugli attacchi avversari. Al centro, il pilone Vierchowod accanto a un’invenzione all’apparenza paradossale: Agostino Di Bartolomei, gran cervello della manovra dotato di una poderosa botta da fuori, trasformato in libero, più o meno in linea col compagno, come zona richiede.

Di Bartolomei è bravo, ma il suo incedere lento sembra l’antitesi delle esigenze del ruolo. In realtà, sul campo risulta lui il primo regista, provvedendo la strepitosa rapidità e potenza fisica di Vierchowod a fungere sia da primo baluardo contro il centravanti altrui sia da estremo recuperatore davanti al portiere.

La manovra di centrocampo prosegue con Falcão e Prohaska, due raffinati ideatori di gioco abilissimi ad addormentarlo nella tipica “ragnatela” di Liedholm per poi svegliarlo con improvvise verticalizzazioni. Nelle quali eccellono Ancelotti, ex interno di punta del Parma trasformato in mezzala completa, recuperato dopo un grave infortunio, e le micidiali incursioni di Brunetto Conti, maestro del dribbling e cross che ha spopolato in Spagna guadagnandosi i galloni di migliore della rassegna iridata secondo il parere di un certo Pelé.

In avanti, Pruzzo partecipa alla manovra e se ne propone come finalizzatore, potendo contare sugli scatti di Iorio, leggero e inafferrabile, l’alter ego di Conti nello sparigliare le carte alle difese avversarie. Completano il gruppo una manciata di preziosi titolari aggiunti: il versatile Nappi per la difesa e il funambolico Chierico, tornante di eccellenti mezzi tecnici e fisici, il giovane Valigi, sorprendentemente a proprio agio come rincalzo del Divino brasiliano, e il marcantonio Righetti, centrale difensivo prodotto del vivaio.

Una squadra meno brillante, quanto a fiammate di gioco, rispetto alla grande rivale Juventus di Platini e Boniek (non per niente vincitrice di entrambi gli scontri diretti), ma dotata di una regolarità di rendimento superiore. In un campionato di gran presa spettacolare, dai valori diffusamente alti, degna prosecuzione del Mondiale, questo aspetto valse come un marchio di qualità assoluta.