Nel calcio, i ritorni sono spesso ammantati di nostalgia e speranza. Come il tentativo del Profeta dello Scudetto di far rivivere la magia del passato in un presente profondamente mutato.
L’estate del 1997 segnò un punto di svolta per la Sampdoria. Il club blucerchiato, che negli anni ’80 e ’90 aveva vissuto il suo periodo d’oro, si trovava ora di fronte a un lento ma inesorabile ridimensionamento. La morte del presidente Paolo Mantovani, vero artefice di quei successi, e la gestione del figlio Enrico, non all’altezza di quella paterna, avevano già iniziato a minare le fondamenta di quella gloriosa squadra.
Ma il colpo di grazia arrivò con l’addio di due figure chiave: l’allenatore Sven Goran Eriksson e, soprattutto, il capitano Roberto Mancini. Il “Mancio”, simbolo e bandiera della Sampdoria, decise di seguire il tecnico svedese alla Lazio di Sergio Cragnotti. Per i tifosi fu un trauma difficile da superare, la fine definitiva di un’epoca d’oro che sembrava ormai irripetibile.
L’esperimento Menotti
Per sostituire Eriksson, la dirigenza sampdoriana decise di puntare su un nome altisonante: Cesar Luis Menotti. L’allenatore argentino, campione del mondo nel 1978 con l’Albiceleste, arrivava in Italia preceduto da una fama di sergente di ferro e uomo di grande personalità. Tuttavia, la sua mancanza di esperienza nel calcio europeo faceva storcere il naso a molti.
Menotti non si fece intimorire dalle critiche e, nonostante i suoi quasi sessant’anni, sbarcò a Genova con l’entusiasmo di un esordiente. La rosa a sua disposizione non era di primo livello, ma poteva contare su elementi interessanti come il giovane bomber Vincenzo Montella, autore di 22 reti nella stagione precedente, e l’esperto Jurgen Klinsmann.
L’inizio di stagione fu promettente, con 7 punti nelle prime tre giornate. Ma l’eliminazione dalla Coppa UEFA per mano dell’Athletic Bilbao già a settembre fece ripiombare l’ambiente nell’incertezza. I risultati altalenanti in campionato e l’eliminazione dalla Coppa Italia contro il Milan segnarono il destino di Menotti: a metà novembre, dopo appena tre mesi, il tecnico argentino venne esonerato.
Il ritorno del Profeta
Il 12 novembre, Mantovani e il direttore generale Emiliano Salvarezza si imbarcarono in un viaggio che avrebbe potuto cambiare le sorti della stagione. La loro destinazione? Novi Sad, Serbia. Il loro obiettivo? Convincere Vujadin Boskov a tornare sulla panchina blucerchiata.
L’arrivo dei dirigenti sampdoriani fu una sorpresa per Boskov. Il tecnico serbo, artefice dei più grandi successi della storia del club, si trovò di fronte a una proposta inaspettata. Inizialmente, la sua reazione fu di cautela. Boskov era consapevole che la Sampdoria che aveva lasciato cinque anni prima non esisteva più. Il contesto era cambiato, le aspettative erano diverse, e il rischio di rovinare un ricordo perfetto era concreto.
Per ore, nel salotto di casa Boskov, si discusse di calcio, di ricordi, di progetti futuri. Mantovani e Salvarezza misero sul piatto non solo un contratto economicamente allettante, ma soprattutto fecero leva sul legame emotivo che univa il tecnico serbo alla Sampdoria. Gli parlarono della necessità di risollevare una piazza ferita, di riaccendere l’entusiasmo dei tifosi, di riportare un po’ di quella magia che aveva caratterizzato la sua prima esperienza a Genova.
Alla fine, furono proprio i sentimenti a prevalere sulla razionalità. Boskov, con gli occhi lucidi, accettò la sfida. “Alla Samp non potevo dire di no”, dichiarò poco dopo all’ANSA. “Conosco tutti, inoltre sono stato allo stadio due volte quest’anno e ho visto le partite della squadra contro Bilbao e Piacenza. So che non avrò problemi di ambientamento o conoscenza“.
La notizia del ritorno di Boskov si diffuse rapidamente a Genova, scatenando un’ondata di entusiasmo. I tifosi, ancora scossi dall’addio di Roberto Mancini pochi mesi prima, videro in questo ritorno un segno di speranza. Certo, alcuni erano consapevoli che i ritorni nel calcio non sempre funzionano, ma la maggioranza della tifoseria non vedeva l’ora di riabbracciare il “Profeta”.
Boskov firmò un contratto annuale da 1 miliardo e 200 milioni di lire, con l’obiettivo di raggiungere l’Europa. Ma più che le cifre o gli obiettivi, ciò che colpì fu l’energia e la determinazione con cui il tecnico serbo si approcciò alla nuova avventura. A quasi 67 anni, Boskov dimostrava lo stesso entusiasmo di un giovane allenatore alla sua prima esperienza.
Il suo ritorno rappresentava più di una semplice scelta tecnica. Era un tentativo di riallacciare il filo con un passato glorioso, di risvegliare l’orgoglio di una piazza che stava vivendo anni difficili. Boskov incarnava la Sampdoria dei sogni, quella capace di sfidare e battere i grandi club d’Italia e d’Europa.
Alti e bassi
Il debutto di Boskov–bis sulla panchina della Sampdoria avvenne il 19 novembre 1997, in una partita di Coppa Italia contro il Milan. Nonostante l’iniziale vantaggio firmato da Sinisa Mihajlovic, grande amico e connazionale di Boskov, la squadra genovese si arrese ai rossoneri, venendo eliminata dalla competizione.
La delusione per l’eliminazione fu forte, ma Boskov rimase fiducioso: ora, con il solo campionato su cui concentrarsi, la squadra avrebbe potuto lottare per un posto in Europa. Il nuovo esordio in Serie A, cinque anni e mezzo dopo l’ultima volta, fu più positivo: una vittoria per 1-0 contro il Bari, ancora grazie a Mihajlovic, in un Ferraris che accolse il tecnico serbo con striscioni, cori e applausi.
I primi mesi della nuova gestione Boskov furono caratterizzati da risultati altalenanti. A prestazioni convincenti, come il pareggio in rimonta a Bologna o quello contro l’Inter capolista, si alternarono pesanti sconfitte come il 4-1 subito a Empoli.
Il mercato di gennaio portò in dote Giuseppe Signori, bomber di razza che però a Genova vivrà la sua peggiore stagione in carriera. Nonostante ciò, la Sampdoria chiuse il girone d’andata in linea con gli obiettivi, in piena lotta per un posto in Coppa UEFA.
L’inizio del girone di ritorno sembrò confermare le ambizioni europee dei blucerchiati, con due vittorie consecutive contro Brescia e Atalanta. Ma fu solo un’illusione: seguirono infatti due pesanti 3-0 contro Juventus e Udinese, che fecero precipitare nuovamente la squadra.
Il momento più basso della stagione arrivò il 14 marzo 1998, quando la Lazio passeggiò a Marassi vincendo per 4-0. Quel giorno, probabilmente, sia Boskov che Mantovani compresero che il progetto non avrebbe potuto proseguire oltre quella stagione.
La squadra si allontanò sempre più dalla zona UEFA, vivendo sussulti d’orgoglio come la vittoria a Bari o il brillante pareggio di Parma, ma senza mai dare l’impressione di poter realmente lottare per l’Europa. Tre vittorie consecutive nel finale di stagione contro Empoli, Napoli e Fiorentina non bastarono per centrare l’obiettivo.
L’addio definitivo
Sampdoria-Lecce 1-1 del 10 maggio 1998 fu l’ultima partita di Vujadin Boskov sulla panchina blucerchiata. Il tecnico serbo salutò il suo pubblico, consapevole che quella storia d’amore stava per chiudersi definitivamente.
La Sampdoria terminò il campionato all’ottavo posto con 48 punti, sufficienti per qualificarsi alla Coppa Intertoto ma lontani dalle ambizioni di inizio stagione. Il sogno di riportare i blucerchiati ai fasti di un tempo si era infranto contro una realtà ben diversa da quella che Boskov aveva lasciato cinque anni prima.
Il ritorno del Profeta dello Scudetto alla Sampdoria fu come riaprire un libro alla pagina sbagliata. Il calcio, spietato nella sua evoluzione, aveva voltato pagina. La magia degli anni ’90 era svanita, lasciando il posto a una realtà più cruda e meno romantica.
Eppure, in questo fallimento sportivo, emerse qualcosa di più prezioso. L’affetto dei tifosi per il “Profeta” rimase intatto, quasi amplificato dalla consapevolezza che certe alchimie sono irripetibili. Boskov non era più l’allenatore del presente, ma rimaneva il custode di ricordi gloriosi.
Questa seconda avventura, paradossalmente, cementò il legame tra il tecnico serbo e Genova dimostrando che oltre i risultati, oltre le tattiche, esiste un sentimento che il tempo non può scalfire.