L’altro PSG: Il sogno miliardario del Racing Paris

Negli anni ’80, il Racing Paris tentò di conquistare il calcio francese con un progetto miliardario, stelle internazionali e grandi ambizioni. Un sogno infranto che anticipa il moderno PSG.

Parigi, la Ville Lumière, ha sempre avuto un rapporto particolare con il calcio. Nonostante il suo status di capitale culturale mondiale, per oltre 160 anni è rimasta ai margini delle grandi storie calcistiche francesi. Mentre città come Marsiglia, SaintÉtienne e Nantes scrivevano pagine indelebili nella storia del calcio transalpino, Parigi rimaneva uno sfondo elegante ma distante. Le tribune dei suoi stadi non vibravano di passione come quelle del Vélodrome di Marsiglia o del Geoffroy-Guichard di SaintÉtienne

Ma prima dell’avvento del PSG Qatarpowered, ci fu un altro tentativo di portare il grande calcio nella capitale francese: la storia del Racing Paris degli anni ’80, un racconto di ambizione, denaro e sogni infranti che meriterebbe un posto speciale nella storia del calcio francese.

L’uomo che sognava in grande

Jean-Luc Lagardère non era un sognatore qualunque. Era un gigante dell’industria francese, un uomo che aveva costruito un impero che spaziava dall’aeronautica all’editoria, con la capacità di trasformare in oro tutto ciò che toccava. La sua Matra era presente in Formula 1, dove aveva già ottenuto successi significativi, nel mondo dell’ippica, e controllava prestigiose pubblicazioni come Elle. 

La sua visione imprenditoriale non conosceva limiti e nel 1982, questo visionario decise di aggiungere il calcio al suo portfolio, approfittando di un vuoto di potere nella capitale: il PSG era ancora un club giovane, privo di una vera identità, e Parigi attendeva il suo vero protagonista calcistico. Lagardère voleva essere l’uomo che avrebbe portato la gloria calcistica nella capitale francese, convinto che il suo tocco d’oro avrebbe funzionato anche nel mondo del pallone.

La nascita di un progetto ambizioso

La strategia iniziale di Lagardère era audace e tipica del suo modo di fare business: fondere il Paris FC, che militava in seconda divisione, con il glorioso Racing Paris, un club che negli anni ’30 aveva vinto il campionato francese ma che ora vagava nelle divisioni inferiori.

Quando il Racing si oppose inizialmente, temendo che i problemi finanziari del Paris FC potessero contaminare il proprio club, Lagardère mostrò la sua determinazione: comprò direttamente il Paris FC, lo ribattezzò Racing Paris 1 e adottò i colori bianco-celesti storici del Racing. Un’operazione che mostrava già tutti i tratti caratteristici della sua gestione: rapidità decisionale, uso massiccio del capitale e una certa dose di spregiudicatezza. Era l’inizio di un’avventura che avrebbe scosso il calcio francese dalle fondamenta.

Il colpo Madjer: il primo segnale

La prima vera dichiarazione di intenti arrivò con l’acquisto di Rabah Madjer, stella della nazionale algerina che aveva incantato ai Mondiali del 1982. In quel torneo, l’Algeria aveva scritto pagine di storia battendo la Germania Occidentale, prima di essere eliminata per il famigerato “patto di non belligeranza” tra tedeschi e austriaci. 

Madjer rappresentava tutto ciò che il nuovo Racing voleva essere: spettacolare, esotico, vincente. Con i suoi 20 gol trascinò il Racing alla promozione in Ligue 1 nella stagione 1983-84. L’arrivo dell’algerino rappresentava esattamente ciò che Lagardère voleva comunicare al mondo del calcio: il Racing Paris non era un progetto qualunque, ma una potenza nascente pronta a spendere per competere ai massimi livelli.

L’altalena delle emozioni

Ma il primo assaggio di massima serie rivelò tutte le contraddizioni del progetto. Inspiegabilmente, Lagardère non rinforzò adeguatamente la squadra e prese una decisione che ancora oggi appare incomprensibile: cedette Madjer al Tours, un club che lottava per non retrocedere proprio contro il Racing. Era come se il PSG di oggi cedesse Mbappé al Clermont in piena lotta salvezza. 

Il risultato fu disastroso quanto prevedibile: un’immediata retrocessione con 21 sconfitte in 38 partite, un record negativo che mostrava tutti i limiti di una gestione improvvisata. La squadra sembrava un corpo senza anima, incapace di trovare una propria identità tattica e caratteriale. Ma questo fallimento, paradossalmente, servì da lezione: era ora di fare le cose per bene, con una programmazione seria e investimenti mirati. Lagardère capì che non bastava comprare i giocatori, bisognava costruire una squadra.

Il grande salto: nasce il Dream Team

La stagione 1986-87 vide Lagardère aprire finalmente il portafoglio in grande stile, con un’aggressività sul mercato che ricordava quella dei più ricchi club europei. Arrivarono tre stelle mondiali che avevano brillato ai recenti Mondiali messicani: il tedesco Pierre Littbarski, fantasista del Colonia dal tocco raffinato, l’uruguaiano Enzo Francescoli, il “Príncipe” come lo chiamavano in Sudamerica per l’eleganza delle sue giocate, e il connazionale Ruben Paz, centrocampista di classe cristallina. 

A loro si aggiunsero campioni francesi del calibro di Luis Fernandez, strappato al PSG in un colpo che aveva il sapore della provocazione e che rappresentava un vero e proprio schiaffo ai rivali cittadini, e Thierry Tusseau, altro nazionale francese di sicuro affidamento. Sulla carta, era nato un Dream Team che avrebbe dovuto dominare il calcio francese. Mai prima di allora una squadra francese aveva riunito così tanti talenti internazionali sotto lo stesso tetto.

Matra Racing: l’ultimo tentativo

Nel 1987, Lagardère decise di alzare ulteriormente la posta: il club divenne Matra Racing, legando indissolubilmente il destino della squadra al suo impero industriale. Era una mossa di marketing audace che mostrava quanto l’imprenditore credesse nel progetto. In panchina arrivò Artur Jorge, fresco vincitore della Coppa dei Campioni con il Porto, considerato uno dei migliori allenatori europei del momento. “Il miglior allenatore che abbia mai avuto“, avrebbe poi detto Francescoli, parole significative da parte di un campione che di tecnici ne aveva conosciuti tanti. 

Il progetto continuò ad attirare stelle: l’olandese Sonny Silooy, il talentuoso marocchino Aziz Bouderbala e un giovane e promettente David Ginola, destinato a diventare un’icona del calcio francese. Si tentò persino di ingaggiare un giovane Éric Cantona, che però rifiutò, trovando il progetto “troppo eccentrico“.

Il castello di carte crolla

Ma nonostante i nomi altisonanti e gli investimenti faraonici (si parla di 300 milioni di dollari, una cifra astronomica per l’epoca), i risultati non arrivarono mai. La squadra oscillava tra prestazioni brillanti e crolli inspiegabili. Come quando subì un umiliante 6-1 dal Montpellier di Roger Milla o un pesantissimo 5-0 dal Lille

Il Matra Racing non riuscì mai a creare un’identità forte, né a conquistare il cuore dei parigini. Come ricordava Ginola in un’intervista rivelatrice: “Quando giocavamo in casa contro il Saint-Étienne, i ragazzini sugli spalti indossavano tutti la maglia verde degli avversari.” 

Lo spogliatoio era diventato un ambiente tossico, diviso tra stelle insoddisfatte di non giocare e giovani talenti schiacciati dalle pressioni. Littbarski arrivò addirittura a pagarsi la clausola rescissoria di tasca propria pur di andarsene, lamentando condizioni “non professionali” dove i giocatori dovevano persino lavarsi le divise da soli.

L’amaro epilogo

Nel 1989, la situazione precipitò definitivamente. Gli azionisti Matra, stanchi di vedere il loro marchio associato a un fallimento sportivo così clamoroso, costrinsero Lagardère ad abbandonare il progetto. “Abbiamo rovinato il calcio mettendoci troppi soldi? Dannazione! Giuro che non avevamo né il budget più alto né gli stipendi più alti di Francia“, si difese Lagardère, ma ormai era troppo tardi. 

Il club tornò a chiamarsi Racing Paris, ma era solo l’inizio della fine. Le stelle fuggirono come topi da una nave che affondava: Francescoli, Silooy, Guérin, Fernandez, tutti abbandonarono il progetto. L’anno successivo arrivò l’inevitabile retrocessione, chiudendo ingloriosamente un’avventura costata centinaia di milioni.

Lezioni per il futuro

Quasi 4 decenni dopo, il calcio parigino si ritrova a combattere contro gli stessi fantasmi. E mentre il PSG accumula stelle come un collezionista compulsivo – da Ibrahimovic a Neymar, da Mbappé a Messi – la Champions League continua a sfuggire come un miraggio nel deserto qatariota. 

C’è qualcosa di poeticamente circolare nel vedere la storia del Racing Paris riflettersi, come in uno specchio deformante, nell’attuale PSG. Gli sceicchi hanno moltiplicato per cento gli investimenti di Lagardère, hanno riempito il Parc des Princes invece che giocare davanti a tremila anime, hanno costruito un brand globale anziché un progetto locale. Eppure, nelle notti europee, quando le luci si abbassano e la pressione sale, emerge lo stesso vuoto che afflisse il Racing: quella mancanza di anima collettiva che nessun conto in banca può colmare. 

Il Racing cercava di comprare Parigi con i franchi, il PSG cerca di conquistare l’Europa con gli euro, ma entrambi si sono trovati a combattere contro la stessa, implacabile verità: nel calcio, i soldi sono come l’acqua per una pianta – necessari alla vita ma incapaci, da soli, di farla fiorire. Servono radici, tempo e quel pizzico di magia che trasforma undici giocatori in una squadra immortale. È una lezione che Parigi, città dell’amore ma non ancora del calcio, sta ancora imparando a sue spese.