LENZINI Umberto: il papà della Lazio

Costruttore fortunato e spendaccione, conquistò il primo scudetto per la Lazio in mezzo a stagioni folli, retrocessioni, liti e subbugli. Era bizzarro, imprevedibile, generoso. E orgoglioso: negò Chinaglia alla Juve e al Milan.

Costruiva palazzi e si inventò presidente di calcio a 53 anni. Umberto Lenzini, di origini toscane, era nato in America, a Walsenburg nel Colorado il 20 luglio 1912, ma fece fortuna a Roma all’epoca dei palazzinari. Fisico rotondo, faccia da finto pacioccone, calvo, una prora di naso, palpebre pesanti e borse sotto agli occhi, era Umberto l’americano: bizzarro e accentratore, avaro e generoso, imprevedibile, un miscuglio d’uomo.

Divenne presidente della Lazio nel 1965. La società, che era un pozzo di debiti, e la squadra, che era un covo di disordini, si consegnarono a una dittatura. “Lazio come Lenzini” fu lo slogan che durò 15 anni. Impietoso fu il giudizio del mondo del pallone: “Lenzini si muove nel calcio come un elefante in una cristalleria”. Ma fu il presidente che conquistò il primo scudetto per la Lazio in mezzo a stagioni pazze, retrocessioni, liti e subbugli che la sua conduzione paternalistica e l’amministrazione disinvolta favorivano.

Fu, per i romani di fede biancoazzurra, il sor Umberto. All’Olimpico faceva il giro della pista con un bicchiere di vino in mano, ai tifosi noleggiava lussuosi torpedoni per le trasferte con a bordo orchestre e cantanti, giocava a scopetta con gli allenatori, firmava assegni in bianco ai giocatori, qualche volta privi di copertura, distribuiva montagne di biglietti-omaggio.

Alla Lazio sacrificò gran parte del suo patrimonio. Realizzò un rione di case popolari a Pomezia che gli prosciugò ogni risorsa, ma a Boniperti che gli promise di risolvergli la pesante situazione se gli avesse ceduto Chinaglia disse di no. Negò Chinaglia anche al Milan: il presidente Buticchi aveva pronto un assegno in bianco per la cessione. In seguito, rifiutò Manfredonia e Giordano alla Sampdoria del petroliere Mantovani disposto a sottoscrivere qualsiasi cifra.

Orgoglioso e capace di cavarsela in ogni frangente perché era Umberto l’americano. Non rinunciò mai al passaporto statunitense. Lo aiutavano i fratelli Angelo e Aldo faticando a controllarne gli estri, l’ira e il dispendio di danaro.

Da giovane, aveva giocato al calcio tra i ragazzi della Pistoiese e della Rondinella, poi nella Juventus di Roma (anni Trenta) e con questa squadra affrontò una “giovanile” laziale segnando l’unico gol dell’1-5 rimediato dalla sua formazione. Giocava da ala sinistra e fu il suo primo “contatto” con la Lazio. Continuò a fare sport nell’atletica leggera. Velocissimo, divenne campione italiano dei giovani fascisti correndo i 100 metri in 11 secondi.

Divenne il padre-padrone della Lazio che fu la sua famiglia di discoli e ribaldi. Si dannò per nove anni prima di arrivare, a sorpresa, allo scudetto. Trovò una squadra in cui il pezzo più pregiato ed esotico era il turco Can Bartu. E fu retrocessione al secondo anno di presidenza. Dopo due anni in Serie B, conquistò la promozione, allenatore Lovati, col centravanti Ghio, Ferruccio Mazzola e col ventenne Peppeniello Massa proveniente dall’Internapoli, la seconda squadra partenopea. I tifosi napoletani l’avevano battezzato “tric-trac” per il suo gioco all’ala destra tutto scatti.

Due anni in Serie A con Juan Carlos Lorenzo in panchina e di nuovo retrocessione. Ma, intanto, Lenzini si assicurava i campioni del trionfo futuro: Giorgio Chinaglia, 22 anni, pagato 200 milioni, e Pinotto Wilson, 24 anni, sempre dall’Internapoli. E pescava l’allenatore che avrebbe conquistato lo scudetto: il pisano Tommaso Maestrelli, 49 anni, che aveva portato il Foggia in serie A e la Reggina dalla C alla B.

Con Maestrelli fu immediato ritorno in A. Lenzini chiamò in società l’ex arbitro romano Sbardella che assicurò alla Lazio altri giocatori per il futuro di gloria: il lucchese Martini, terzino fluidificante e pilota d’aerei, Garlaschelli, Felice Pulici, mentre dal vivaio si proponevano D’Amico diciottenne e Oddi. Con il ricavato della cessione di Massa all’Inter, Lenzini acquistò dalla società milanese Frustalupi, trentenne ma regista come pochi, e Re Cecconi dal Foggia, elegante e poderoso con la maglia numero 8. La Lazio ebbe il più bel centrocampo d’Italia.

Lo scudetto sfuggì per due punti nel 1973. La Lazio perse la corsa al primato nell’ultima giornata. Venne battuta (0-1) a Napoli in una aspra partita decisa da un gol di Damiani e giocata dai napoletani con grande rabbia per lo 0-3 e gli sfottò subiti all’andata. Nella stessa giornata, il Milan di Rocco si eliminava crollando a Verona (3-5) e all’Olimpico la Juve battè la Roma per 2-1. Alla fine del primo tempo, perdeva 0-1. Nella ripresa, fu una Roma “diversa” e la Juve rimontò con i gol di Altafini e Cuccureddu. «Ma a che gioco giochiamo?» chiese Spadoni, che aveva segnato il vantaggio romanista, al presidente Anzalone seduto in panchina. La Juve vinse il campionato. La Lazio arrivò terza, due punti dietro. Ma la squadra era pronta per la vittoria storica.

Era una banda di giocatori di talento e di temperamento alla quale Lenzini permetteva di tutto e che Maestrelli riusciva a trasformare in un blocco vincente alla domenica. «Il nostro pressing si chiama bagarre», diceva Chinaglia, condottiero ineguagliabile, gol e pedate ai compagni che non correvano, bottiglie infrante sui muri dello spogliatoio, risse, partite a carte e sfide a colpi di pistola all’“Americana”, l’albergo dei tumultuosi ritiri sulla via Aurelia.

La squadra era divisa in due clan: Chinaglia con Wilson, Oddi e Facco; Re Cecconi con Martini e il resto della compagnia. Giochi pericolosi nei ritiri, gioco all’olandese in campo: “zona” spettacolare con il solo Oddi destinato alla marcatura fissa del goleador avversario. «Eravamo sedici pazzi, affamati di gloria. La rosa era ristretta, ma per fortuna nessuno si infortunò», racconterà Chinaglia che, a San Siro, prese a calci il giovanissimo D’Amico che correva meno del solito.

Umberto Lenzini fu il papà di quella scapigliatura laziale. L’attore Enrico Montesano girava per Roma in bicicletta, un guanto bianco e l’altro celeste, i colori della Lazio. Ottanta club seguivano la squadra ovunque. Nella partite casalinghe, la curva nord dell’Olimpico era uno spettacolo. Il pupillo di Lenzini era Wilson, il corsaro della difesa. Con Chinaglia alternava abbracci e pugni sul tavolo.

Dispensava premi e, dopo che Sbardella aveva fissato gli ingaggi, li aumentava quando i giocatori andavano da lui a firmare il contratto. La sua vittima preferita era il segretario Fernando Vona. In un ristorante di Ostia, lo costrinse a ballare il tango con lui. Smise improvvisamente dando una manata sulla fronte di Vona e urlò: «Questo ballo sta prendendo un brutta piega». Il secondo papà della squadra, dopo Lenzini, era il medico sociale Renato Ziaco. “Alzati e cammina” era il suo motto, così convincente da far correre in campo i giocatori più acciaccati.

La Lazio vinse lo scudetto nel 1974, capolista solitaria nelle ultime 17 giornate. Battè la concorrenza della Juve di Zoff e Bettega e tenne a bada la tenace corsa del furente Napoli allenato da Vinicio. Chinaglia fu il capocannoniere del torneo con 24 reti, Felice Pulici il portiere meno battuto. La Lazio si laureò campione d’Italia il 12 maggio 1974 con una giornata d’anticipo sulla fine del torneo battendo il Foggia all’Olimpico con un rigore di Chinaglia. Maestrelli non gioì: la vittoria condannò alla serie B il Foggia che era stato il suo primo “gioiello”.

La sera, tutta la squadra si ritrovò al “Jackie O”, il night più popolare di Roma, assediata da quattromila tifosi che rimasero fuori dal locale sino alle quattro del mattino. Fu il principe Giovannelli a rompere l’assedio facendo uscire i giocatori da una porta secondaria.

Lo scudetto passò come una meteora nel cielo della Lazio di Lenzini. Il male irrimediabile e la morte di Maestrelli, la scomparsa del dottore Ziaco, la fine terribile di Re Cecconi ucciso dal gioielliere contro il quale aveva finto una rapina ne accompagnarono il declino. Un assegno al portiere del Cesena Boranga mise la Lazio per la prima volta nei guai. La società se la cavò con una multa di 20 milioni, fu squalificato per un anno Lovati che aveva consegnato l’assegno: si disse che i soldi servivano per risarcire Boranga della sua auto distrutta all’Olimpico nel match di andata.

La mazzata finale fu la retrocessione d’ufficio del 1980 sotto l’accusa di avere addomesticato il risultato di Milan-Lazio (2-1). Quattro biancoazzurri furono arrestati nella bufera del calcioscommesse: Cacciatori, Wilson, Manfredonia e Giordano. Chinaglia aveva ormai scelto l’America attratto dai dollari dei Cosmos e dalla moglie Connie che voleva vivere negli States. La squadra si disintegrò.

Prima che Lenzini lasciasse la presidenza, Vinicio e Lovati tentarono di tenere a galla la Lazio nella quale si affacciarono Bruno Giordano a 19 anni, Manfredonia, Montesi, Tassotti. Ma la scapigliatura era finita. Con la squadra in B, Umberto Lenzini l’americano, a 67 anni, lasciò la presidenza al fratello Aldo che assunse Luciano Moggi come general manager. Un “buco” di 200 milioni assillava il bilancio della società ed erano più profonde le borse sotto gli occhi del sor Umberto.

La bella partita si chiuse dopo 15 anni. Lenzini morì a Roma il 22 febbraio 1987. Aveva 75 anni. Da sette non era più il papà della Lazio.

Testo di Mimmo Carratelli