Dal caos del calcio argentino anni ’60 emerse l’Huracán di Menotti. La sua filosofia riportò bellezza in campo, ricordando al mondo la magia autentica del calcio albiceleste.
Negli anni ’60, il calcio argentino precipitò in un vortice di cinismo e violenza. L’eredità della “La Nuestra”, quella scuola di calcio che aveva incantato il mondo con la sua creatività, sembrava ormai perduta. Le generazioni cresciute ammirando i fuoriclasse del pallone, i guerrieri con l’anima da artista, gli “Angeli con la faccia sporca”, si ritrovarono improvvisamente senza punti di riferimento.
La débâcle al Mondiale del 1958, seguita dalla caduta del peronismo e dall’arrivo di una serie di dittature militari, segnò la fine di un’era. La nuova filosofia dominante vedeva la vittoria come unico obiettivo, giustificando qualsiasi mezzo per ottenerla. Mezzo secolo di cultura calcistica venne spazzato via in un attimo, lasciando un vuoto difficilmente colmabile.
L’era del cinismo e della violenza
I successi internazionali del Racing de Avellaneda e soprattutto dell’Estudiantes de la Plata di Osvaldo Zubeldia, uniti alla controversa espulsione di Rattin al Mondiale del ’66 e alla mancata qualificazione a quello successivo, non fecero che accentuare questa crisi d’identità del calcio argentino.
Gli stadi diventarono territorio delle “barras bravas“, gruppi ultras legati al regime militare, coinvolti nel controllo del territorio, nel traffico di droga e nella criminalità organizzata. Il campo da gioco perse la sua magia, trasformandosi in un’arena dove gli scambi di cortesie lasciarono il posto a scontri violenti. Un mondo capovolto, dove oggetti contundenti nascosti e minacce di morte divennero tristemente comuni.
Il “Globito”: una luce nel buio

Fu in questo contesto che il destino bussò alla porta dell’Huracán, soprannominato “Globito” in onore del pallone aerostatico utilizzato dal famoso aviatore argentino Jorge Newbury. Come per magia, il calcio argentino ritrovò improvvisamente la sua anima perduta in questo modesto club di Buenos Aires.
L’arrivo di Luis César Menotti sulla panchina dell’Huracán nel 1971 passò quasi inosservato. Un allenatore di 34 anni, poco conosciuto, per un club dalle ambizioni limitate: nulla faceva presagire la rivoluzione che stava per scatenarsi. Fu proprio in questo silenzio che iniziò a prendere forma un grido di rinascita, parola dopo parola, gol dopo gol.
La rivoluzione di Menotti

Menotti, soprannominato “El Flaco” (il magro), costruì una squadra che onorava la vecchia scuola offensiva argentina. Un 4-3-3 a trazione anteriore dove tutti attaccavano e tutti difendevano. Il gioco fluido, fatto di rapidi scambi, verticalizzazioni improvvise e una costante ricerca della porta avversaria, divenne il marchio di fabbrica di questa squadra.
Gli esterni allargavano il campo, i centrocampisti sfidavano ogni convenzione tattica e gli attaccanti erano macchine da gol. Menotti poteva contare su un gruppo di talenti destinati a diventare icone del calcio argentino: Babington, Basile, Housemann, Brindisi. Nomi che, anni dopo, avrebbero confermato la bontà delle intuizioni del loro mentore conquistando il primo titolo mondiale per l’Argentina.
L’esplosione del “Globito”

Il 1973 fu l’anno dell’esplosione dell’Huracán. La potenza offensiva della squadra divenne leggendaria: 46 gol segnati in sedici partite nel girone d’andata, con goleade inflitte a squadre storiche come Racing, Velez e Newell’s. Il paese sembrò risvegliarsi da un lungo torpore, riscoprendo la bellezza del calcio che aveva fatto sognare intere generazioni.
Da quasi sconosciuti, i giocatori dell’Huracán diventarono in pochi mesi la seconda squadra nel cuore di tutti gli argentini, un’impresa quasi impossibile in un paese caratterizzato da un tifo così appassionato. La marcia verso il titolo – un traguardo mai raggiunto prima nella storia del club – fu tanto dominante quanto il loro modo di attaccare la porta avversaria.
Calcio e politica: un legame inscindibile
Politicamente vicini al peronismo – all’epoca ufficialmente bandito dal paese – i giocatori dell’Huracán sembravano voler diventare la versione calcistica del “guevarismo“. La metamorfosi politica andò di pari passo con l’estasi calcistica. Perón tornò brevemente in Argentina e l’Huracán si laureò campione nazionale nel settembre del 1973, settimane prima della fine della stagione.
La storica rivista “El Grafico” titolò semplicemente: “Il campione che tutti volevamo vedere“. Menotti divenne un idolo nazionale, i calciatori dell’Huracán raggiunsero livelli di popolarità fino ad allora riservati quasi esclusivamente ai giocatori delle “cinque grandi” di Buenos Aires. Il mondo sembrava essersi fermato per ammirare questo spettacolo. Durò solo un attimo, ma fu un momento indimenticabile.

Il sogno infranto e l’eredità del “Globito”
La favola dell’Huracán si concluse quasi altrettanto rapidamente di come era iniziata. L’umiliante sconfitta della nazionale argentina ai Mondiali del 1974 in Germania – con una pesante sconfitta contro l’Olanda di Cruijff che giocava un calcio simile a quello del Huracán – spinse i dirigenti federali a chiamare Menotti per evitare un possibile disastro quattro anni dopo, quando il torneo si sarebbe disputato in Argentina dopo decenni di candidature fallite.
Con la partenza di Menotti, gran parte della magia svanì. Nonostante un giovanissimo Osvaldo Ardiles riuscisse ancora a mantenere vivo un po’ di fascino nelle stagioni successive, l’Huracán passò rapidamente in secondo piano quando molti dei suoi giocatori volarono verso altri lidi. Lo spirito combattivo del “Globito” rimase vivo durante gli anni della dittatura, un punto di ribellione nel silenzio generale, ma il modo in cui Menotti accettò di collaborare con la Giunta Militare per guidare la squadra al Mondiale gettò un’ombra sulla sua reputazione.
Ciò che nessuno potrà mai dimenticare sono quei pomeriggi in cui calcio e tango si fondevano in un’unica, meravigliosa danza ogni volta che l’Huracán scendeva in campo, sfidando le leggi della fisica e regalando emozioni indescrivibili. La squadra di Menotti riuscì, seppur per un breve periodo, a riportare in vita lo spirito della “La Nuestra”, dimostrando che il calcio argentino poteva ancora essere quello spettacolo capace di far innamorare il mondo intero.
