L’ultima corsa di Ramiro Castillo

La tragica storia di Ramiro Castillo, talento del calcio boliviano anni ’90, che si suicidò dopo la morte del figlio, poco dopo aver perso la finale di Copa América 1997 col Brasile.

La mattina del 29 giugno 1997 lo stadio Hernando Silles di La Paz, 3600 metri di altitudine, si preparava ad ospitare la finale della Copa América tra Bolivia e Brasile, una partita che poteva riscrivere la storia del calcio andino. Sì, perché per la nazionale boliviana era l’occasione della vita: giocare in casa, davanti al proprio pubblico, contro i giganti verdeoro. La «generazione d’oro» aveva l’opportunità di conquistare il secondo titolo continentale della storia, dopo quello del 1963. Tra i protagonisti più attesi c’era Ramiro «Chocolatín» Castillo, che a 31 anni si era guadagnato il posto da titolare dopo una splendida prestazione in semifinale contro il Messico.

Nelle ore che precedevano la partita, mentre i suoi compagni completavano gli ultimi preparativi, il fisioterapista Omar Rocha si avvicinò a Castillo con un’espressione grave. La notizia che gli doveva dare era di quelle che gelano il sangue: suo figlio José Manuel era stato ricoverato d’urgenza per una grave forma di epatite.

La scena che seguì rimane impressa nella memoria di chi era presente: Castillo si strappò di dosso la maglia della nazionale, la lanciò verso Rocha e corse via. Quello che doveva essere il giorno più glorioso della sua carriera si trasformò nel preludio di una tragedia personale che avrebbe segnato per sempre non solo la sua vita, ma la storia del calcio boliviano.

La beffa del campo

Quella finale del 1997 è rimasta scolpita nella memoria collettiva boliviana come una delle più grandi occasioni mancate. Senza Castillo in campo, la Bolivia affrontò il Brasile con il cuore gonfio di determinazione e la mente offuscata dalla preoccupazione per il compagno assente.

Il primo tempo fu un susseguirsi di emozioni. Il momento più elettrizzante arrivò quando Erwin «Platini» Sánchez scagliò un tiro che il leggendario Taffarel, in una delle sue rare indecisioni, non riuscì a trattenere. Lo stadio Hernando Silles esplose in un boato che sembrava poter scuotere le Ande.

Ma fu nei primi 25 minuti della ripresa che la Bolivia sfiorò davvero l’impresa. La pressione dei padroni di casa fu asfissiante, complice anche l’altitudine che iniziava a pesare sulle gambe dei brasiliani. Tre volte il pallone si stampò sui legni della porta verdeoro, tre volte il destino disse no alla Bolivia.

Il calcio sa essere spietato, e quel giorno lo dimostrò ancora una volta. Il Brasile, con le energie residue, trovò il gol del 2-1 grazie a una combinazione tra Denílson e un giovane Ronaldo. Nei minuti di recupero, Zé Roberto mise il sigillo finale sul 3-1.

A rendere ancora più amara la sconfitta, le immagini televisive mostrarono che il primo gol brasiliano era viziato da un tocco in fuorigioco di Edmundo. Se il VAR fosse esistito nel 1997, forse oggi racconteremmo una storia diversa.

Una generazione d’oro dimenticata

Gli anni ’90 rappresentarono l’epoca d’oro del calcio boliviano, un periodo irripetibile in cui la nazionale andina poteva competere alla pari con le potenze sudamericane. Era una squadra che andava ben oltre lo stereotipo della «squadra che vince solo in altitudine», come spesso veniva etichettata dai detrattori.

Il talento di quella generazione era cristallino e si manifestava attraverso giocatori di classe cristallina. Marco Etcheverry, soprannominato «El Diablo» per la sua capacità di far impazzire le difese avversarie, era il faro tecnico della squadra. Al suo fianco, Erwin Sánchez si era guadagnato il soprannome di «Platini» per la sua eleganza e visione di gioco, un paragone che la dice lunga sul suo talento.

La spina dorsale della squadra era completata da giocatori come Carlos Trucco, portiere dalla sicurezza contagiosa, Marco Sandy, difensore roccioso, e naturalmente Ramiro Castillo, il cui talento era riconosciuto anche oltre i confini nazionali. Julio Cesar Baldivieso, Jaime Moreno e Luis Cristaldo completavano un mosaico di talenti che aveva già stupito il mondo qualificandosi per i Mondiali del 1994.

La Copa América del ’97 in casa doveva essere il coronamento di un percorso, il momento in cui questa generazione avrebbe potuto consegnare alla storia un risultato indelebile. Era una squadra che sapeva giocare, che aveva personalità, che non si limitava a difendersi. Una squadra che ha sfiorato la gloria continentale, ma che nonostante la sconfitta merita di essere ricordata come la più forte nella storia del calcio boliviano.

Chocolatín: il diamante nero della Bolivia

In un paese dove il colore della pelle marca profonde divisioni sociali, Ramiro Castillo rappresentava un’anomalia statistica. Nel Paese andino solo 16.000 persone su 10 milioni si dichiaravano afro-boliviane, e il suo soprannome “Chocolatín” non era solo un vezzo calcistico, ma il marchio di una diversità che lo rese ancora più speciale.

Il suo talento emerse nel The Strongest nel 1985, ma fu in Argentina che Castillo si consacrò come calciatore di livello internazionale. Il suo percorso nel calcio argentino fu straordinario e ancora oggi detiene un record che nessun boliviano è riuscito a superare: 146 partite e 10 gol distribuiti tra cinque squadre diverse.

La sua avventura argentina iniziò all’Instituto de Córdoba (27 partite, 1 gol), proseguì all’Argentinos Juniors (69 partite, 8 gol), passando per il prestigioso River Plate (10 partite, 1 gol), il Rosario Central (16 partite) e infine il Platense (23 partite, 1 gol). Numeri che raccontano la storia di un giocatore che aveva saputo imporsi in uno dei campionati più competitivi al mondo.

Le parole di Nito Veiga, suo allenatore all’Argentinos Juniors, risuonano ancora oggi come un rimpianto: «Se Chocolatín avesse vestito la maglia dell’Argentina o del Brasile, avrebbe valuto milioni di dollari». Era un centrocampista esile ma dotato di un tiro potente, tecnica raffinata e una visione di gioco che lo rendeva unico nel panorama calcistico boliviano. Il suo talento trascendeva i confini nazionali, dimostrando che il calcio boliviano non era solo una questione di altitudine.

Una tragedia annunciata

José Manuel, il figlio di Ramiro Castillo, morì il 30 giugno 1997, il giorno dopo la finale della Copa América. Fu l’inizio di un trauma che Chocolatin non avrebbe mai superato: nei mesi successivi, nonostante continuasse a giocare nel Bolívar, era ormai un uomo distrutto, incapace di elaborare la perdita del suo bambino. Ma alcuni vuoti sono impossibili da colmare, alcune assenze troppo pesanti da sopportare. Il calcio, che era stato la sua vita, non bastava più a dargli una ragione per andare avanti.

Il 18 ottobre 1997, poco più di tre mesi dopo la morte del figlio, Ramiro prese la sua decisione finale. La data non era casuale: il giorno prima sarebbe stato l’ottavo compleanno di José Manuel. Castillo fu trovato nella sua casa, aveva usato una cravatta per porre fine al suo dolore. Il destino, ancora una volta crudele, scelse la vigilia del classico tra Bolívar e The Strongest, le due squadre che avevano segnato la sua carriera. La partita fu immediatamente cancellata.

Il funerale di Ramiro Castillo

La notizia si diffuse rapidamente per le strade di La Paz. In quella triste mattina di sabato, la Bolivia si fermò per piangere uno dei suoi figli più talentuosi. Fu sepolto accanto al suo José Manuel, in un ultimo, definitivo abbraccio tra padre e figlio. La sua morte rappresentò non solo la fine di un calciatore straordinario, ma anche il tragico epilogo di una storia di amore paterno spezzato dal destino.

Il calcio boliviano perse quel giorno non solo un grande talento, ma soprattutto un uomo che aveva incarnato sogni e speranze di un’intera generazione. La sua scomparsa segnò simbolicamente anche la fine di quell’epoca d’oro del calcio boliviano che lui stesso aveva contribuito a creare.