La finale del campionato tedesco del 1944, disputata tra Dresdner SC e Luftwaffen-SV Hamburg: una parentesi di apparente normalità mentre il Terzo Reich crollava inesorabilmente.
Nell’estate del 1944, mentre le forze alleate avanzavano inesorabilmente in Europa, la Germania nazista viveva i suoi ultimi, disperati momenti. Il 6 giugno, le spiagge della Normandia erano state teatro del D-Day, l’inizio della fine per il Reich millenario di Hitler. Eppure, in quello scenario apocalittico, il calcio continuava ostinatamente a giocare il suo ruolo.
Il 18 giugno 1944, lo Stadio Olimpico di Berlino ospitò quella che sarebbe passata alla storia come l’ultima finale del campionato tedesco dell’era nazista. Un evento surreale, sospeso tra la propaganda di un regime morente e l’irriducibile passione sportiva di un popolo sull’orlo del baratro.
Da un lato il Dresdner SC, dall’altro il Luftwaffen-SV Hamburg. Due squadre, due storie, un unico palcoscenico nel cuore di un impero ormai in frantumi. Così, mentre le bombe cadevano sulle città tedesche e i soldati morivano al fronte, 55.000 spettatori si radunarono per assistere a quella che sembrava una surreale parentesi di normalità.
Gli eroi in campo
Tra i protagonisti di quella storica finale spiccava Helmut Schön, stella del Dresdner SC. A soli 28 anni, Schön era già un simbolo del calcio tedesco, destinato a diventare in futuro uno dei più grandi allenatori della storia della nazionale. Figlio di un mercante d’arte, Schön rappresentava un calcio elegante e raffinato, in netto contrasto con la brutalità dei tempi.
Al suo fianco, il portiere Willibald Kreß, amico fraterno di Schön e come lui fieramente anti-nazista. Kreß era noto per il suo stile acrobatico e la sua capacità di leggere il gioco, qualità che lo avevano reso uno dei migliori portieri della sua generazione. Insieme, Schön e Kreß formavano il cuore e l’anima di una squadra che si opponeva silenziosamente all’ideologia nazista.
Dall’altra parte, il Luftwaffen-SV Hamburg schierava campioni del calibro di Willy Jürissen, soprannominato “Il portiere gentiluomo” per i suoi guanti bianchi immacolati, e Reinhold Münzenberg, pilastro della nazionale tedesca negli anni ’30. La squadra di Amburgo, legata all’aeronautica militare, era in un certo senso l’incarnazione sportiva della macchina bellica nazista.
Ma forse la figura più emblematica in campo quel giorno era Herbert Pohl, centrocampista del Dresdner che aveva perso un braccio sul fronte russo nel 1943. La sua presenza era un memento vivente della tragedia che stava consumando la Germania. Pohl, che aveva aiutato il Dresdner a vincere il campionato l’anno precedente con entrambe le braccia, era ora un simbolo della resilienza e della disperazione di una nazione in guerra.
Il calcio come propaganda
Per il regime nazista, ormai con le spalle al muro, quella finale rappresentava molto più di una semplice partita di calcio. Era un disperato tentativo di proiettare un’immagine di normalità e forza, mentre il Reich crollava sotto i colpi degli Alleati.
Lo Stadio Olimpico, teatro dei Giochi del 1936, era il simbolo perfetto di quell’illusione. Le sue imponenti mura di calcare, alte 40 piedi, racchiudevano un microcosmo in cui gli ideali nazisti sembravano ancora saldi e inviolabili. La torre campanaria alta 247 piedi, con la sua campana olimpica decorata con l’aquila tedesca e le svastiche, dominava lo skyline, un monumento all’ambizione e all’arroganza del Terzo Reich.
La partita non fu pubblicizzata fino al mattino stesso per timore di attacchi aerei alleati. Eppure, 55.000 persone accorsero ugualmente allo stadio, in cerca di una momentanea fuga dalla realtà della guerra. Soldati in licenza si mescolavano ai civili, tutti uniti dalla passione per il calcio e dal desiderio di credere, almeno per un pomeriggio, che la vita potesse ancora offrire momenti di gioia e normalità.
Novanta minuti di oblio
Al fischio d’inizio, per novanta minuti, il mondo esterno sembrò dissolversi. I tifosi si concentrarono sul match, tifando e incitando le proprie squadre come se nulla fosse cambiato. Il Dresdner SC, favorito della vigilia, prese subito il controllo del gioco. La tecnica raffinata di Helmut Schön e la visione di gioco di Herbert Pohl, nonostante la sua menomazione, creavano continui grattacapi alla difesa del Luftwaffen-SV Hamburg. Nei primi minuti, tuttavia, Willy Jürissen si distinse con alcuni interventi spettacolari, mantenendo inviolata la sua porta.
Al 20′ minuto, arrivò la svolta. Rudi Voigtmann, attaccante del Dresdner, ricevette palla al limite dell’area e si involò verso la porta. I difensori dell’Hamburg si fermarono, alzando il braccio per segnalare un presunto fuorigioco. L’arbitro, tuttavia, lasciò proseguire l’azione e Voigtmann, approfittando dell’esitazione avversaria, si trovò a tu per tu con Jürissen, superandolo con un preciso rasoterra. 1-0 per il Dresdner e proteste veementi da parte dei giocatori dell’Hamburg.
La rete subita sembrò scuotere la squadra di Amburgo, che nei minuti successivi cercò di reagire. Il capitano Münzenberg guidò i suoi compagni in alcuni promettenti contropiedi, ma la difesa del Dresdner resse l’urto. Kreß, in particolare, si rese protagonista di una spettacolare parata su un tiro dal limite di Höger, deviando la palla sopra la traversa con la punta delle dita.
Il primo tempo si chiuse sull’1-0, con il Dresdner in vantaggio ma con l’Hamburg ancora in partita. Nella ripresa, la superiorità tecnica e atletica del Dresdner emerse in modo netto. Al 50′ minuto, Machate guadagnò un calcio d’angolo dopo una serpentina sulla fascia destra che mandò in tilt il terzino Gärtner. Dalla bandierina, lo stesso Machate pennellò un cross perfetto per la testa di Heinrich Schaffer, che si elevò più in alto di tutti e trafisse Jürissen per il 2-0.
Il raddoppio fu un colpo durissimo per il morale dell’Hamburg. La difesa, fino a quel momento relativamente solida, iniziò a mostrare crepe sempre più evidenti. Il Dresdner, sentendo l’odore del sangue, aumentò la pressione.
Al 60′ minuto arrivò il capolavoro di Helmut Schön, il gol che di fatto chiuse la partita. Ricevuta palla a centrocampo, Schön si produsse in una progressione irresistibile, dribblò in sequenza tre difensori, entrò in area e, con un tocco delicato, scavalcò l’uscita disperata di Jürissen. La palla si insaccò lentamente nell’angolino, tra il tripudio dei tifosi del Dresdner. Era il 3-0, e la partita era virtualmente chiusa.
L’Hamburg cercò di salvare l’onore con alcuni attacchi disordinati. In uno di questi, solo un miracoloso intervento di Kreß negò il gol della bandiera a Nagelschmitz, attaccante dell’Hamburg subentrato nella ripresa.
A dieci minuti dalla fine, il Dresdner calò il poker. Ancora una volta fu Schaffer a trovare la via del gol, questa volta con un preciso colpo di testa su cross del solito Schön. Il 4-0 finale fu forse un risultato fin troppo severo per l’Hamburg, ma rifletteva la netta superiorità mostrata dal Dresdner nell’arco dei novanta minuti.
Nei minuti finali, con il risultato ormai acquisito, il ritmo della partita calò sensibilmente. I giocatori del Dresdner iniziarono a scambiarsi sguardi d’intesa, consapevoli di aver scritto una pagina importante nella storia del club. Quando l’arbitro fischiò la fine, lo stadio esplose in un boato. I giocatori del Dresdner si abbracciarono a centrocampo, mentre quelli dell’Hamburg si avviarono mestamente verso gli spogliatoi. Helmut Schön, autore di una prestazione magistrale, fu portato in trionfo dai compagni.
Si spengono le luci
Quella finale del 1944 rappresentò molto più di una semplice partita di calcio. Fu l’ultimo grande evento sportivo del Terzo Reich, un canto del cigno di un’era che stava per concludersi nel modo più tragico.
I giocatori tornarono presto ai loro ruoli nella macchina bellica nazista. Schön divenne granatiere, Kreß continuò a lavorare alla manutenzione dei missili. Altri furono richiamati al fronte, dove molti avrebbero perso la vita nei mesi successivi.
Meno di un anno dopo, la Germania si sarebbe arresa incondizionatamente agli Alleati. Il 30 aprile 1945, Hitler si suicidò nel suo bunker a Berlino. Il 7 maggio, il generale Alfred Jodl firmò la resa incondizionata della Germania. Il sogno millenario del Terzo Reich si era infranto in poco più di dodici anni, lasciando dietro di sé una scia di distruzione e morte senza precedenti nella storia umana.
La rinascita dalle ceneri
Dopo la guerra, il calcio tedesco dovette ricostruirsi dalle macerie, proprio come il resto del paese. Le autorità alleate inizialmente vietarono le attività sportive organizzate, temendo che potessero diventare focolai di rinascente nazionalismo. Ma ben presto si resero conto che lo sport poteva essere un potente strumento di denazificazione e riconciliazione.
Molti dei protagonisti di quella storica finale contribuirono a questa rinascita, come allenatori o dirigenti. Il loro compito non era solo quello di ricostruire il calcio tedesco da un punto di vista tecnico, ma anche di restituirgli credibilità e rispettabilità a livello internazionale.
Helmut Schön, in particolare, ebbe un ruolo fondamentale in questo processo. Dopo una breve carriera come giocatore nel dopoguerra, si dedicò all’allenamento. Nel 1964 divenne commissario tecnico della nazionale della Germania Ovest, guidandola alla vittoria del Mondiale 1974 proprio in Germania. Quel trionfo, ottenuto 30 anni dopo la finale del 1944, segnò simbolicamente il completamento di un percorso di redenzione personale e collettiva.
Il calcio oltre la guerra
Oggi, lo Stadio Olimpico di Berlino è profondamente cambiato. Un tetto moderno e trasparente lo sovrasta, potenti fari illuminano il terreno di gioco. Ha ospitato la finale del Mondiale 2006 ed è sede della finale della Coppa di Germania ogni anno. Eppure, la sua facciata in calcare rimane immutata, testimone silenzioso di quell’ultima, surreale finale del 1944.
I protagonisti di quella finale ebbero destini molto diversi dopo la guerra. Helmut Schön, come abbiamo visto, divenne uno dei più grandi allenatori della storia del calcio tedesco. Willibald Kreß continuò a giocare fino al 1951, per poi intraprendere una carriera da allenatore. Herbert Pohl, nonostante la perdita del braccio, rimase nel mondo del calcio come allenatore delle giovanili.
Altri ebbero destini meno fortunati. Alcuni morirono negli ultimi mesi di guerra, altri furono fatti prigionieri dai sovietici. Alcuni dovettero affrontare processi di denazificazione, mentre altri riuscirono a reinventarsi nel nuovo ordine post-bellico.
Questo aspetto del calcio, la sua capacità di offrire momenti di gioia e normalità anche nelle circostanze più terribili, si è manifestato più volte nella storia. Pensiamo alla “Partita della morte” giocata a Kiev nel 1942 tra una squadra di panettieri ucraini e una selezione della Luftwaffe, o alla tregua di Natale del 1914, quando soldati britannici e tedeschi interruppero i combattimenti per giocare a calcio nella terra di nessuno.