L’ultima rete azzurra di Roberto Bettega

Contro la Jugoslavia, a Belgrado, un suo gol mise al sicuro la qualificazione mondiale.

Allo stadio della Stella Rossa di Belgrado, il 17 ottobre 1981, si trovarono di fronte Jugoslavia e Italia. Ovvero, le due squadre più forti del quinto girone di qualificazione al Mondiale di Spagna. Pubblico delle grandi occasioni sugli spalti. Al tedesco occidentale Eschweiler andò la direzione di gara. Classifica alla mano, l’Italia non poteva ancora dirsi al sicuro, appaiata alla Danimarca, che aveva completato le partite a disposizione vincendo in Grecia 3-2 dopo essersi fatta superare in casa dalla Jugoslavia.

In lizza per il secondo posto, utile per accedere alla fase finale del Mondiale, c’era anche la nazionale ellenica, con un ritardo di due punti dagli azzurri, battuta a Salonicco dai danesi tre giorni prima della sfida tra Jugoslavia e Italia. Un punto avrebbe messo quasi al sicuro gli azzurri che avrebbero affrontato in casa la Grecia, il mese dopo, per poi chiudere il girone, sempre in casa, contro il modesto Lussemburgo.

L’ultimo risultato utile in terra jugoslava risaliva al 4 giugno 1939, con Vittorio Pozzo in panchina. La nazionale di Miljanic puntava a riscattare la sconfitta subita all’andata, undici mesi prima, con un 2-0 firmato Cabrini (rigore) e Bruno Conti. Enzo Bearzot schierò Zoff tra i pali, Gentile e Cabrini terzini, Dossena in mediana, Collovati stopper e Scirea libero, Conti all’ala destra, Tardelli interno, Altobelli e Bettega di punta, Antognoni in regia.

Nella Jugoslavia spiccavano i nomi di Dragan Pantelic, ventinovenne portiere in forza al Bordeaux, Ivica Suriak, che un anno dopo avrebbe indossato la maglia dell’Udinese, Zlatko Vujovic, veloce ala della classe 1958 e con un elevato potenziale realizzativo. In avanti, Miljanic puntava su Vahid Halilhodzic, vincitore della Coppa di Jugoslavia con il Velez Mostar prima di passare al Nantes.

Tra i titolari contro gli azzurri vennero inseriti anche Edhem Sljivo (centrocampista possente ed esperto) e Predrag Pasic, giocatore che nel Sarajevo ebbe, come preparatore psicologico, Radovan Karadzic, futuro presidente della Repubblica Serba della Bosnia ed Erzegovina, finito sotto processo al Tribunale penale internazionale dell’Aja e condannato per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante l’assedio di Sarajevo, il massacro di Srebrenica e le altre campagne di pulizia etnica contro i civili non serbi nel corso della guerra in Bosnia negli anni 90. Condanna commutata in ergastolo nel marzo 2019.

L’assetto titolare jugoslavo venne completato da Buljan, Gudelj, Stoikovic, Zajec e Petrovic. La partita si mise subito in salita per l’Italia. Al primo affondo, Zlatko Vujovic, sfruttando un’incertezza difensiva azzurra, superò Zoff da distanza ravvicinata. L’azione era partita da un pallone perso a centrocampo da Scirea, con lancio di Sljivo in area per Halilhodzic, abile a staccare di testa, fornendo un assist raccolto e messo in rete da Vujovic.

Sembrò l’inizio di una disfatta per la squadra italiana che, invece, riuscì a risalire la corrente e pareggiare con Roberto Bettega, lesto a ribadire in rete una respinta di Pantelic su conclusione ravvicinata di Conti. Era da poco passata la mezz’ora di gioco. Tra i protagonisti di quella partita spiccò Dino Zoff che in tanti avrebbe voluto giubilato dalla Nazionale dopo il Mondiale argentino. Il portiere juventino sfoderò alcune parate che salvarono il risultato, negando la vittoria alla Jugoslavia. Roberto Bettega, con i suoi capelli già abbondantemente spruzzati di bianco, difeso a più riprese dal commissario tecnico dopo alcune esibizioni negative nel corso della stagione precedente, diede ragione a Bearzot.

I detrattori del Vecjo se la diedero a gambe e senza fare “mea culpa” per alcuni giudizi trancianti all’indirizzo della Nazionale. Uno dei pochi a cambiare parere fu Giorgio Chinaglia, a Milano per un tour con i Cosmos. “Ho sbagliato a definire Bearzot un portavaligie. Lo conoscevo poco. I fatti hanno dimostrato che è un tecnico eccellente, dichiarò Long John.

Nella stampa sportiva italiana, invece, a parte gli elogi sperticati a Zoff e i complimenti a Bettega, silenzio sul commissario tecnico. “I nostrani Catoni hanno fatto finta di niente, scrisse Adalberto Bortolotti del Guerin Sportivo. Bettega, al suo diciannovesimo gol in 41 partite in maglia azzurra, evitò toni polemici. “Quando sbaglio quest’anno si parla di sfortuna, l’anno scorso si diceva di tutto, disse Bobby-Gol che stava già studiando per diventare futuro dirigente bianconero.

La sua fu una rivincita sussurrata e con misurata ironia. La rete di Belgrado lo poneva al secondo posto, alle spalle di Ciccio Graziani, tra i goleador in attività con la Nazionale. Era passato un anno dalla rete precedente, contro il Lussemburgo: una ciabattata fortunosa e dall’effetto maligno, finita dentro la porta della modesta squadra avversaria.

L’anno 1981 era stato molto difficile per l’Italia, contrassegnato da tre sconfitte ma illuminato da una qualificazione alla fase finale del Mondiale senza patemi. In questa situazione, il recupero di Bettega divenne un fatto importante, tanto quanto la speranza di ritrovare Paolo Rossi in vista della missione spagnola.

Le alternative offensive a disposizione di Bearzot non brillavano: Sandro Altobelli, spento e miagolante fantasma in quel di Belgrado, con Graziani non ai suoi livelli abituali pur giocando in una squadra di club, la Fiorentina di De Sisti, in lotta per lo scudetto. Il giocatore gigliato, tuttavia, restava la soluzione più affidabile a disposizione di Bearzot.

Dalla partita in terra jugoslava venne fuori un Bettega capace di essere prezioso anche per il suo senso tattico e senza paura nei contrasti più rischiosi. Il suo apporto nella partita più importante della fase premondiale si rivelò molto alto. I critici si erano dissolti. Sulla fronte e sulla punta del suo piede poggiava una buona parte dei destini calcistici italiani.

Un altro protagonista della trasferta di Belgrado fu Dino Zoff. Nella porta che gli jugoslavi avevano trasformato in una sorta di bersaglio di un poligono di tiro, il guardiapali azzurro sfoderò parate su parate, lasciando una traccia poderosa in quella partita. La presenza numero 94 con l’Italia (eguagliato il record di Giacinto Facchetti) venne annoverata tra le migliori di Zoff, capace di ridestarsi dopo una topica iniziale: un’uscita abbozzata e poi rientrata, con palla arrivata ad Halilhodzic e sparacchiata alta.

Con il passare dei minuti, il bombardamento si era fatto costante, trovando il portiere azzurro in versione SuperDino, guizzante da una parte all’altra dei pali con l’agilità di un grillo. E se il gol iniziale gli aveva fatto temere la goleada, il resto della partita lo aveva assurto al ruolo di salvatore della squadra, una saracinesca inviolabile. Tardelli elogiò il portiere: “Senza la bravura di Zoff sarebbe stata una disfatta. Soltanto grazie a Dino ci siamo potuti riorganizzare, sino a rimettere in gioco la partita.

Zoff sembrò tornare ragazzino, volando da un palo all’altro. Con la solita onestà, l’estremo difensore azzurro ammise anche un paio di errori. “Ci sono state tante partite in cui sono stato disoccupato, se capita qualche volta di fare gli straordinari è persino piacevole. E’ il destino dei portieri. E basta con la storia dell’età. Se a 40 anni si può fare l’astronauta, si potrà pure giocare in porta. O no?, concluse il portiere friulano.

Un plauso se lo meritò anche Bruno Conti. Arrivato in Nazionale dopo aver tolto il posto a Causio, il giocatore giallorosso aveva rintuzzato la concorrenza che rispondeva ai nomi di Bagni, Beccalossi e Marocchino. In maglia azzurra, il giocatore romanista non sbagliava un colpo. A Belgrado era stato il più incisivo in proiezione offensiva, autore della giocata da cui era scaturito il pareggio e abile a frenare le folate del gigantesco Surjak. Da Belgrado tornò una Nazionale quasi certa della qualificazione alla fase finale del Mondiale.

Poco più di due settimane dopo il pareggio contro la Jugoslavia, il destino voltò le spalle a Roberto Bettega. A Torino, la sera del 4 novembre ‘81, nella gara di ritorno degli ottavi di finale di Coppa dei Campioni, l’attaccante italiano si scontrò con il belga Munaron, portiere dell’Anderlecht. Un impatto tremendo e da cui Bettega uscì con una diagnosi impietosa: lesione dei legamenti del ginocchio sinistro. Stagione finita e Mondiale a fortissimo rischio. Si parlò di una sua disponibilità tra febbraio e marzo ‘82 ma dopo un consulto medico i tempi si allungarono di un ulteriore mese.

Bearzot gli promise di aspettarlo ma a patto di riaverlo nella piena forma fisica. Al momento delle convocazioni, il commissario tecnico riferì a Franco Selvaggi che il suo posto sarebbe stato del giocatore juventino in caso di un suo recupero. Il 24 maggio fu effettuato l’ultimo consulto medico con esito negativo: l’attaccante sarebbe tornato in campo solo all’inizio della stagione 1982/83. Addio Mondiale. Bettega tornò a vestire la maglia azzurra un anno e mezzo dopo la partita di Belgrado, in occasione della trasferta di Bucarest contro la Romania, valida per la qualificazione agli Europei del 1984, sostituito da Altobelli a 20’ dal termine e con l’Italia sotto di un gol.

Proprio alla nazionale rumena, l’attaccante juventino aveva segnato i suoi primi due gol in maglia azzurra, il 5 giugno ‘76, nell’amichevole disputata a Milano e vinta 4-2 dall’Italia. Il guizzo di Belgrado sarebbe rimasto l’ultimo timbro d’autore di Roberto Bettega nella storia della Nazionale.