Alle quattro della sera «Pablito» scese nell’arena di Udine per dimostrare non solo agli altri ma anche a se stesso che i due anni di ingiusto esilio dai campi di gioco lo avevano restituito integro alla Juventus e alla Nazionale.
Il luogo: Udine. La data: 2 maggio 1982. Quel lontano giorno, in uno stadio Friuli da festa grande come soltanto la provincia sa fare nelle grandi occasioni, Paolo Rossi tornò ufficialmente in campo dopo due anni di assenza per la squalifica del “Calcioscommesse” e, nel giro di un quarto d’ora (giusto il tempo di scrollarsi di dosso il magone del suo nome scandito dall’altoparlante, assaporare ad occhi chiusi la dolcezza degli applausi subito mitigata dalla marcatura di Galparoli e mettere a fil di palo un traversone di Scirea) seppe esorcizzare tutti i suoi fantasmi.
Quelli, per intenderci, che gli tennero costantemente compagnia dal 18 maggio 1980, quando la Commissione Disciplinare lo incolpò di aver alterato il risultato di Avellino-Perugia e le sue due reti — lui che proprio nella fiammata di un gol identificava il perno della sua realizzazione di uomo — si trasformarono in spietate accusatrici e come un assurdo boomerang gli procurarono tre anni di squalifica, poi ridotti a due in appello.
Ecco, da allora Paolo Rossi uscì in punta di piedi e a testa china dalla bella favola iniziata ai Mondiali argentini del 1978 quando per tutto il mondo divenne «Pablito» ed entrò invece in una dimensione inquietante che lui stesso, ragazzo di provincia trasformatosi soltanto superficialmente in metropolitano, visse malamente come un’odissea in cui la speranza di una riabilitazione spesso promessa ma mai concessa si stemperava inevitabilmente nella delusione (niente amichevoli né partite di beneficenza, niente di niente insomma) eppoi la delusione scadeva nella rabbia di sentirsi un emarginato. O peggio ancora, quasi un clandestino di se stesso.
Alla vigilia del grande ritorno, con l’umiltà dei campioni autentici che forse proprio nella paura di un insuccesso finiscono per trovare la molla principale del loro successo, si confessava ai cronisti con queste parole:
«Ufficialmente mi dicevo che tutto sarebbe passato, ma in realtà in questi due anni mi sono sentito quasi una controfigura di me stesso. Era come guardarmi in una fotografia scattata chissà quando e non riconoscermi. E in quei giorni soltanto con la rabbia riuscivo a giustificare i miei allenamenti che finivano per diventare interminabili perché non si concretizzavano mai in una vera partita. Con la rabbia, quindi, ma anche con l’orgoglio di un uomo comune che non vuole sentirsi emarginato».
LA VIGILIA
In altre parole, Paolo Rossi visse per due anni un processo mentale inverso a quello che lo consacrò ufficialmente campione prima a Vicenza e poi a Perugia. Allora furono giorni esaltanti: grazie a lui, una provinciale teneva testa alle grandi, un’intera squadra giocava per i suoi gol e Farina si permise il lusso di negarlo alla Juventus. Durante la squalifica, invece, Rossi dovette ripartire da zero, ricostruirsi e soprattutto ritrovarsi. E seppure con fatica, seppe tenere duro trovando l’alchimia giusta in una ricetta fatta di un po’ di tutto: rabbia, stupore, forse anche vergogna, e speranza.
Ma principalmente trovò la Juventus e gli juventini. E con umiltà, a Torino, l’uomo si “autoescluse” dal personaggio diventando perfino la riserva «pro tempore» di Giuseppe Galderisi, allora diciannovenne centravanti della squadra Primavera.
«E stato soltanto grazie alla Juventus se in questo periodo la mia vita non è cambiata. È stato vivendo assieme ai miei compagni di squadra che mi sono fatto una ragione di quanto mi è successo e sono riuscito a ipotizzare perfino una vita normale con un diploma di ragioneria al posto di una maglia azzurra e sposarmi con Simonetta».
Giorni e mesi difficili, dunque, soprattutto intimamente. Poi il rimpianto ossessionante del pallone pronto a lacerarlo ogni domenica pomeriggio, in uno stillicidio di interviste provocatorie e di promesse rubate e subito smentite unicamente per pudore il giorno dopo. E al solito ritornello di una Juventus e di una Nazionale in attesa dei suoi miracoli.
«Lo so che la gente da me pretenderà molto, ma io ho imparato la lezione e mi sento soltanto uno dei tanti. Adesso mi basta sapere che posso finalmente ritornare in uno stadio a testa alta perché la mia condanna è finita. Per quanto riguarda, invece, il mio ruolo di calciatore sono il primo ad avere paura: dopo due anni, il più scettico verso Paolo Rossi sono proprio io».
Il tutto detto sempre sottovoce, con il ricordo costante dei giorni bui, dell’umiliazione e con un rimpianto che spesso finiva per stemperarsi nell’emarginazione. Ma evitando sempre con orgoglio di cadere nel facile compromesso del vittimismo e del perdono.
L’ESORDIO
In questa altalena, dunque, Paolo Rossi esaurì il suo conto alla rovescia alle quattro di domenica pomeriggio del 2 maggio 1982 ed affrontò la sua «tesi di laurea». Principalmente per laurearsi contro le sue paure e l’odissea ricordata all’inizio ma in verità Udine, al suo ingresso in campo era tutta con lui e il prologo vide quarantamila spettatori applaudire il suo ritorno ufficiale. Il presidente dell’Udinese Mazza (che per l’occasione dimenticò per un attimo le sue grane sindacali con gli operai della Zanussi) e il sindaco di Udine Candolini (democristiano e proprietario delle distillerie omonime) gli diedero il «la» e lui, piccolo grande uomo, li ringraziò alla sua maniera. Giocando di nuovo come sapeva giocare Pablito.
Forse ripensò alle promesse fatte in mattinata per telefono alla moglie Simonetta dal ritiro di Tricesimo, forse ripensò ai discorsi notturni fatti con Tardelli che divideva con lui la camera 211 dell’Hotel Boschetti, forse cercò tra i quarantamila i genitori e il fratello Rossano (che da ragazzo tentò pure lui l’avventura calcistica nella Primavera della Juventus, ai tempi in cui Italo Allodi era un dipendente di Boniperti) venuti da Prato.
Poi scattò la metamorfosi del campione di ieri e dopo alcune indecisioni servì a Cabrini il pallone del 2-1 e nella ripresa, erano passati appena due minuti di gioco, arrivò il gol liberatorio. Una punizione di Brady a ridosso dalla bandierina destra pareva destinata alla testa di Tardelli, lui spinse via di forza il compagno con egoismo disperato e realizzò la rete attesa (e provata tante volte in solitudine col replay della memoria) da 735 giorni. Un’eternità. Un colpo di testa, cioè, che per lui valeva una vita. Anzi, di più. E nella sua corsa verso i popolari c’era tutto questo.
«E stato come se fossi nato in quel momento, non sapevo neppure io cosa stavo facendo. In quel momento non vi erano tifosi juventini o udinesi, ma soltanto gente che mi applaudiva di nuovo».
In altre parole, fu la fine di un incubo. E l’applauso che accompagnò il suo scatto verso le gradinate spiegò una volta di più che la sua paura era anche la nostra, cioè quella di non ritrovare più il Pablito nazionale.
Quel giorno in tribuna allo Stadio Friuli c’era anche Enzo Bearzot, il CT che di lì a poco avrebbe diramato la lista dei 22 per i Mondiali spagnoli. Al momento del suo gol, come in un crescendo rossiniano, il Vecjo fu il primo ad alzarsi in piedi ed applaudire il suo eroe ritrovato.
«Pablito ha superato la prova a pieni voti — commentò il CT in tribuna — dimostrando di essere un campione ma soprattutto ha fatto vedere di essere un uomo: ha saputo tenere duro nel momento più brutto della sua carriera e questa è una prerogativa dei grandi calciatori».
Ma Paolo Rossi non sentì l’elogio di Bearzot: lui aveva chiesto a Trapattoni di essere sostituito a poco meno di mezz’ora dal fischio finale dell’arbitro D’Elia e stava preparandosi a partire per Vicenza. Simonetta lo aspettava al ristorante «Il Pozzo» per rivivere, loro due soltanto, i momenti antichi e nuovi del loro primo incontro, del loro matrimonio e della loro vittoria sulla vita. Quella più difficile ma soprattutto quella vissuta per intero con una dignità e una professionalità ammirevoli.