Magnifiche perdenti

Non sempre i vincitori sono i più amati e ammirati. Nella festa calcistica che si ripete ogni quattro anni, mentre la sposa dovrebbe essere protagonista, spesso è la damigella d’onore che ruba il cuore a tutti. 

È uno dei paradossi più affascinanti della Coppa del Mondo: alcune delle squadre più celebrate nella storia non hanno mai alzato il trofeo. Queste nazionali hanno saputo conquistare l’immaginario collettivo attraverso un calcio che andava oltre il risultato finale, incarnando l’essenza più pura di questo sport, dove la bellezza del gesto tecnico, l’audacia tattica e il coraggio di osare possono valere più di qualsiasi medaglia d’oro.

La storia dei Mondiali è disseminata di queste “magnifiche perdenti”: squadre che hanno preferito cadere giocando il proprio calcio piuttosto che vincere tradendo i propri principi. Dall’Ungheria dell’Aranycsapat all’Olanda del Calcio Totale, dal Brasile di Zico alla Danish-Dynamite, ognuna ha lasciato un’eredità indelebile.

L’Ungheria del 1954: la perfezione incompiuta

Era un’epoca in cui il calcio stava ancora cercando la sua identità moderna, quando emerse una squadra che sembrava venire dal futuro. L’Ungheria dei primi anni ’50 non era solo una nazionale, era una rivoluzione calcistica. Tra il 1950 e il 1956, i Magnifici Magiari dominarono il panorama mondiale con numeri che sfioravano l’incredibile: 46 vittorie e 3 pareggi in 50 partite, una striscia di imbattibilità che sembrava destinata a non finire mai.

Sotto la guida visionaria di Gusztáv Sebes, questa squadra aveva ridefinito i confini del possibile. Ferenc Puskás era il direttore d’orchestra di una sinfonia perfetta. Al suo fianco, giocatori del calibro di Zoltán Czibor e Sándor Kocsis completavano un attacco che aveva umiliato l’Inghilterra nel suo tempio di Wembley con un clamoroso 6-3, la prima sconfitta casalinga degli inglesi contro una squadra non britannica.

Ai Mondiali del 1954 in Svizzera, l’Ungheria sembrava destinata a coronare il proprio dominio. Il loro percorso fu trionfale: schiantarono il Brasile nei quarti e superarono l’Uruguay in semifinale. In finale ritrovarono la Germania Ovest, già travolta 8-3 nella fase a gironi. Sotto la pioggia di Berna, andarono in vantaggio 2-0 nei primi otto minuti. Il destino sembrava scritto.

Ma il calcio sa essere crudele. L’infortunio di Puskás, il campo pesante e una Germania mai doma trasformarono quella che doveva essere una coronazione in una tragedia sportiva. La rimonta tedesca per 3-2 divenne nota come “Il Miracolo di Berna“, ma per gli ungheresi fu l’inizio di un amaro tramonto. L’invasione sovietica, poco dopo, avrebbe disperso per sempre quella squadra leggendaria, lasciandoci solo il ricordo di una perfezione mai completamente realizzata.

L’Olanda 1974: la rivoluzione arancione

Se il calcio fosse arte, l’Olanda del 1974 sarebbe stata esposta al Louvre. Quella squadra non giocava semplicemente a calcio: dipingeva sulla tela verde del campo capolavori di movimento e creatività. Il “Calcio Totale” degli Orange era una rivoluzione che ha cambiato per sempre il modo di concepire questo sport.

Sotto la guida di Rinus Michels, ogni giocatore era un artista poliedrico. Non esistevano più ruoli fissi: i difensori potevano diventare attaccanti, i centrocampisti si trasformavano in liberi, gli attaccanti tornavano a difendere. Al centro di questa rivoluzione c’era Johan Cruijff, il “Profeta del gol”, un genio che sembrava danzare con il pallone. Il suo “Cruijff Turn“, mostrato proprio in quel Mondiale, divenne il simbolo di un’epoca.

La squadra aveva ereditato la filosofia dell’Ajax, dominatrice in Europa, ma l’aveva elevata a un nuovo livello. Il loro cammino nel Mondiale tedesco fu un crescendo di meraviglie. La vittoria contro il Brasile campione in carica fu più di una partita: fu il passaggio di testimone dei Re del Calcio da una nazione all’altra.

Ma la finale contro la Germania Ovest rivelò il lato tragico della loro perfezione. Dopo essere passati in vantaggio al primo minuto con Cruijff e Neeskens che si scambiarono il pallone senza che i tedeschi lo toccassero mai, gli olandesi si persero nella contemplazione della propria bellezza. Troppo sicuri, troppo innamorati del proprio gioco, permisero ai tedeschi di rimontare.

La sconfitta per 2-1 divenne il simbolo perfetto di una squadra che preferì morire con le proprie idee piuttosto che tradire la propria filosofia. Gli Orange non vinsero il Mondiale, ma conquistarono l’immortalità calcistica.

La Seleção del 1982: quando il calcio diventò arte

Il Brasile del 1982 rappresenta forse la più pura incarnazione del “jogo bonito“, il gioco bello che aveva reso celebre il calcio verdeoro. Dopo anni di pragmatismo che avevano snaturato l’essenza del calcio brasiliano, quella squadra riportò la magia sul campo, con un gruppo di artisti del pallone che sembrava assemblato dagli dei del calcio.

Telê Santana aveva costruito una squadra che era pura poesia in movimento. Sócrates, il “Dottore” (era davvero un medico), comandava il centrocampo con l’eleganza di un filosofo greco. Zico, l’erede spirituale di Pelé, disegnava traiettorie impossibili. Falcão orchestrava il gioco con una classe infinita, mentre Júnior sulla fascia creava arte pura. Era un Brasile che giocava per il piacere di giocare, che considerava ogni partita come un’opportunità per creare bellezza.

Il loro cammino nel Mundial spagnolo fu un susseguirsi di prestazioni memorabili. La vittoria per 3-1 contro l’Argentina campione in carica sembrò confermare che niente poteva fermare questa squadra destinata alla gloria. Ma il 5 luglio 1982, al Sarrià di Barcellona, la poesia si scontrò con la prosa del calcio italiano.

In una partita che è entrata nella leggenda, il Brasile cadde contro l’Italia di Bearzot per 3-2. Paolo Rossi, con una tripletta, divenne l’anti-eroe perfetto di questa favola calcistica. Nonostante fossero andati sotto due volte, i brasiliani continuarono a giocare il loro calcio spettacolare, rifiutando di snaturarsi per un risultato. Avrebbero potuto accontentarsi di un pareggio che li avrebbe qualificati, ma scelsero di restare fedeli alla loro filosofia.

Quella sconfitta divenne il simbolo di un calcio che preferisce perdere giocando bene piuttosto che vincere giocando male. Quel Brasile uscì dal torneo, ma entrò nell’olimpo delle squadre immortali, dimostrando che la bellezza nel calcio può valere più di una vittoria.

La Dinamite Danese del 1986

Nel calcio, come nella vita, a volte le storie più belle sono quelle che durano poco. La Danimarca del 1986 fu come una supernova: brillò intensamente per un breve periodo, lasciando un’impronta indelebile nella memoria degli appassionati. Soprannominata “Danish Dynamite“, questa squadra portò al Mondiale messicano un calcio esplosivo che univa la tecnica olandese alla spregiudicatezza scandinava.

Sotto la guida dell’allenatore tedesco Sepp Piontek, i danesi avevano creato un mix perfetto di talento e audacia. Il genio calcistico era incarnato da Michael Laudrup, un artista del pallone capace di dribbling impossibili e visioni di gioco che sembravano venire dal futuro. Al suo fianco, Preben Elkjær rappresentava la potenza allo stato puro: un centravanti che univa forza fisica a una tecnica raffinata, creando una combinazione letale che i difensori dell’epoca temevano come pochi altri.

Il loro debutto nel “gruppo della morte” fu memorabile. Dopo una vittoria di misura contro la Scozia, esplosero letteralmente contro l’Uruguay in una partita che divenne leggendaria. Il 6-1 finale non fu solo un risultato, fu uno spettacolo di calcio totale che fece innamorare il mondo intero.

La vittoria successiva contro la Germania Ovest per 2-0 sembrò confermare che questa squadra poteva davvero sognare in grande. Ma come tutte le belle favole, anche questa doveva finire. Nei quarti di finale, un errore difensivo aprì la strada alla Spagna, che vinse 5-1 in una partita che non rifletteva l’equilibrio visto in campo.

La Danish Dynamite si spense così, troppo presto, ma il suo ricordo continua a brillare nella storia del calcio. Fu una squadra che dimostrò come si possa lasciare un segno indelebile anche in un solo torneo, quando si gioca con il cuore e con uno stile unico e riconoscibile.