Maifredi, Orrico, Tabarez – Profeti d’estate

Disegnavano scenari audaci in nome del sacchismo e della zona, dell’estetica e dell’efficacia: Gigi Maifredi (Juve ’90), Corrado Orrico (Inter ’91 ) e Oscar Washington Tabarez (Milan ’96) erano l’ideale per infiammare i tifosi d’estate.

Presto frantumati alla prova dei fatti, hanno lasciato in eredità affascinanti proclami e il dubbio che con gente così quasi quasi valesse la pena perdere…

In estate si è tutti campioni. Arrivano i ritiri, si guardano le formazioni sulla carta, si azzardano ipotesi di schieramenti, si fanno promesse. Si vive un tempo euforico, spesso con un nuovo allenatore e i suoi annunci di luminosi giorni mai vissuti prima. Fra le tante stagioni di speranze, negli anni novanta tre sono particolarmente importanti perché si somigliano, una rimbalza sull’altra, una è un po’ il proseguimento della precedente. Juventus, Inter, Milan. 1990, 1991, 1996. Gigi Maifredi, Corrado Orrico, Oscar Washington Tabarez. Sono i fallimenti più clamorosi del calcio italiano, non solo in termini di classifica, ma soprattutto per l’audacia di quel che rappresentavano, la rivoluzione che promettevano e che poi è rimasta solo un ricordo, nulla di più.

Tutti e tre convivono con un’ombra imbarazzante, quell’Arrigo Sacchi che è riuscito a trasformare il calcio italiano partendo da semi-sconosciuto o quasi. Maifredi e Orrico vengono scelti dai loro dirigenti per attuare il sacchismo in un altro club, Tabarez per riportarlo laddove è nato. L’operazione non riesce, il romanzo sì. Le loro storie sono piene di colpi di scena e frasi determinanti, anche se sono state spesso raccontate come cronache di fallimenti annunciati, ovvi e scontati. Così non erano, va detto a loro onore e per amore di verità.

Tutti e tre convivono con l’imbarazzante spada di Damocle di ogni allenatore: non arrivare a Natale, non mangiare il panettone, essere licenziati prima. Tabarez, in effetti, il dolce natalizio non lo mangia, benché il suo pupillo Marco Simone gli avesse augurato di “ingozzarsi”, talmente gli ha voluto bene. Orrico supera giusto il Capodanno, poi molla. Maifredi salva la panchina fino all’ultima giornata, ma forse è anche peggio, è lo spettacolo di un’imbarazzante agonia. Eppure, che meraviglia quelle premesse… promettenti, quelle scacchiere disegnate al sole, quegli scenari audacemente pensati come utopie.

LUIGI MAIFREDI – JUVENTUS 1990/91

Maifredi, in primis. L’Omone di Lograto ha il fisico del ruolo di chi non ha paura di prendersi sulle spalle il gigantesco impegno di ereditare la Juve zoffiana comunque vincente – Coppa Uefa e Coppa Italia – e intende nientemeno che generare una creatura dal sesso preciso, antitetica a quella del Trapattoni che fu (che femmina era in senso breriano, ma aveva una tale quantità testicolare a centrocampo da generare dubbi di genere più che leciti):

«Le mie squadre devono avere sempre un gioco maschio, cioè tenere il pallino. Non mi interessa agire di rimessa: per me la zona è questa. Un fatto di efficacia, ma anche un fatto estetico».

Bello e impossibile, caro Gigi. Anche perché l’ecografia della nascitura Juve non mostra quel che lui vorrebbe. Maifredi parte sempre da un punto di riferimento, dal playmaker, l’uomo al quale affidare il numero 4. Il desiderio è Ronald Koeman, considera Dunga «il giocatore che può garantire la quadratura del cerchio» e invece si deve accontentare di Daniele Fortunato. Il reparto arretrato deve essere a quattro, uno schieramento di fedeli disposti rigorosamente in linea, a differenza di quella di Sacchi che affida a Franco Baresi i compiti del libero, posizionato leggermente più arretrato rispetto all’altro centrale.

Qui Maifredi commette il primo grande errore della sua avventura bianconera, portandosi dietro due uomini del suo Bologna, Luppi e De Marchi, presentandoli come indispensabili ed esponendoli perciò a critiche anche eccessive, perché in una società che ha avuto un’ascendenza di nobile lignaggio – Gentile, Cabrini e Scirea, tanto per dire – la differenza salta troppo all’occhio, purtroppo per chi è sotto osservazione.

Davanti al playmaker, si prevedono due cursori, uno dei quali è Giancarlo Marocchi, ex giocatore dell’Omone nel Bologna, con il quale si è separato a suo tempo non proprio consensualmente – il mister lo accusò di tradimento della causa – e che, per essere chiari, si proclama uomo di Zoff e non si capisce se funziona più la riconoscenza per l’allenatore che lo ha proiettato nell’orbita della Nazionale o la diffidenza per il nuovo arrivato già conosciuto.

In avanti, è fondamentale che gli attaccanti si adoperino nel pressing. E anche qui c’è una buona fetta di spiegazione dell’ingenuità dell’esperienza di Maifredi alla Juve, perché forse gli uomini ingaggiati alla bisogna non sono proprio quelli più adatti per un lavoro che esige così tanto dispendio di energie. Baggio, Schillaci, Casiraghi, Hassler, Di Canio: paragonateli con il Vialli e il Ravanelli della prima Juve di Lippi – quelli sì che soffocavano le difese avversarie – e valutate con tutta la serenità del caso se forse in quella dolcissima estate non si sia preso un clamoroso abbaglio, evidenziato già nel primo test significativo, la finale di Supercoppa italiana: Napoli 5, Juventus 1. Tacconi è ancora incazzato adesso, se gliela ricordate.

CORRADO ORRICO – INTER 1991/92

Professionalità, serietà, volontà ed entusiasmo. È il poker di concetti che cala sul piatto Ernesto Pellegrini nel corso della conferenza stampa di presentazione di Orrico. In estrema sintesi, sono queste le motivazioni della scelta dell’ex lucchese. Come dire: non siamo dei folli visionari, l’Inter ha valutato con oculatezza ogni aspetto prima di scegliere una strada nuova. A non essere d’accordo non sono tanto i giornalisti – contraddire e dubitare rientra nei compiti ovvi del mestiere, quanto lo stesso possessore di quel bell’elenco di quattro qualità:

«Ringrazio per la scelta di coraggio che è stata fatta ingaggiandomi. La mia estrazione, la mia storia professionale, le mie caratteristiche confermano che prendere me è stata una scelta coraggiosa. Non posso fare proclami, dico soltanto che vengo a lavorare qui con grande entusiasmo e qualche capacità».

Dopodiché, anche Orrico si mette a stilare un piccolo elenco di cose che è bene sapere. Punto primo, pilastro sul quale basare tutta l’impalcatura, il gioco a zona. Quella sarà la scelta, non si scappa:

«Il vero problema sarà l’impatto con i giocatori. Per cinque anni, con Trapattoni, l’Inter ha giocato un certo tipo di calcio. Il mio sarà diverso, lo dico adesso a scanso di equivoci: farò la zona».

Punto secondo: il rinnovamento costa fatica (giova ricordare che questa è l’estate in cui l’ossessiva cultura del lavoro sacchiana è stata sconfitta da Marco Van Basten, che ne ha ottenuto la sostituzione con Fabio Capello perché di certe manie non ne poteva più). Di conseguenza, ad Appiano Gentile si dovrà «lavorare un po’ meglio delle altre squadre e anche di più. La zona è più difficile del gioco a uomo: merita più attenzione e più disponibilità».

Punto terzo: il mister è elastico, accetta il dialogo, ma senza che da questo nascano figli e figliastri (storicamente l’Inter viene descritta come una squadra divisa in clan, quasi fosse nei cromosomi societari la tendenza a dividersi):

«Ogni volta che ci incontreremo, faremo una chiacchierata. Il calcio è uno sport collettivo, se cominciamo con gli incontri singoli, non la finiamo più. Certo, ci saranno anche i dialoghi a quattr’occhi, ma solo quando saranno strettamente necessari, per non perdere lo spirito collettivo della squadra».

Ultimo punto, il più accattivante, quel che si sogna di ricevere da ogni professore, imparare con il sorriso:

«Non penso a esercitazioni da somari perché la zona non è una medicina da prendere di malavoglia. Studierò lo spogliatoio, cercherò di convincere almeno buona parte del gruppo che la zona è un’idea simpatica, più simpatica delle altre. Se impareranno a divertirsi, il successo sarà totale».

Peccato, Corrado. L’epitaffio dell’esperienza di Orrico è disponibile in due lingue. Profetica nella sua arroganza teutonica è la battuta di Lothar Matthaus il giorno del ritiro quando gli chiedono cosa pensi del nuovo mister: «Orrico? E chi è Orrico?». Sincera ai confini dell’autocritica è quella di Aldo Agroppi: «Orrico può far bene all’Inter, se capirà che l’allenatore è un servo inutile: non rimane altro che fare il proprio dovere lasciando da parte l’eccessiva fantasia e la vanità».

Óscar Tabárez – Milan 1996/97

Se Maifredi e Orrico hanno da affrontare come primo problema quello di accreditarsi meglio di quanto facciano le loro biografie di mister di provincia, Oscar Washington Tabarez deve risolverne uno politico: spiegare come fa lui, uruguagio di sinistra, a lavorare per Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia. Sta di fatto che l’allenatore si presenta e accetta la sfida per intero, disquisendo come lo storico che non t’aspetteresti:

«Voglio ricordare come nacque la separazione destrasinistra. Fu nell’Assemblea Nazionale francese che per la prima volta, in base alla posizione occupata, si parlò di destra e di sinistra. Poi in questo secolo sono arrivati gli estremismi e le differenze si sono ideologizzate, bloccate. Ma la brava gente si ritrova davanti ai temi importanti: la pace tra i popoli, la lotta alla disoccupazione. La brava gente deve stare insieme, io ho molti amici di destra e condivido idee loro, come loro condividono pensieri miei. Dividere il mondo in buoni e cattivi, in giusti e sbagliati, è infantile. O pericoloso. In ogni situazione e a ogni livello».

Gran bel disimpegno, Oscar. Di lui, chiamato Maestro perché l’insegnante di scuola lo ha fatto davvero, a Montevideo, non rimangono scudetti e vittorie, ma le idee sì. Perché Tabarez è un uomo che esprime i suoi concetti ricorrendo sempre a qualche definizione altrui, pesca immagini da un vasto repertorio, in questo è davvero un pedagogo, ogni ragionamento equivale a squarciare un velo, a suggerire un altro orizzonte. Si rimane incantati a sentirlo parlare – a essere cattivi si potrebbe dire imbambolati, vedendo poi certe volte come non reagiscono i suoi ragazzi in rossonero -, quando parla di calcio la prende alla lontana, il pallone diventa davvero una sfera simulacro del mondo, un’interpretazione della vita, una bellissima utopia.

L’Oscar Washington-pensiero è affabulatorio, ti costringe ad andare oltre il rettangolo verde e ai numeretti della tattica, in questo ha un po’ i modi e l’eloquio di Julio Velasco, se fosse vincente come il tecnico della pallavolo sarebbe la quadratura del cerchio, il non plus ultra. «Io sono per gli schemi, non per le schematizzazioni», sussurra. E non hai ancora deciso se essere d’accordo o no che lui ti spiazza: la citazione non è sua:

«A suo modo l’ha scritta Carlos Vaz Ferreira, il pedagogista e filosofo uruguaiano autore dell’“Esagerazione”. La sua teoria è molto semplice: se difendi troppo un’idea finisci per sclerotizzarla e dunque andar contro alla tua tesi iniziale. E il rischio di ogni rivoluzione ed è per questo che sono contrario ai ribaltoni. Le idee migliori circolano nei periodi pre-rivoluzionari, quando c’è la spinta, quando la voglia di cambiare è ancora razionale. Dopo si perde lucidità. Nel calcio di oggi non servono rivoluzioni, semmai evoluzioni».

Gigi, Corrado, Oscar Washington. Con gente così, quasi quasi vale la pena perdere.

Testo di Paolo Rossi