Mali, poveri giocattoli e ampi orizzonti


In Mali non ci sono televisori. A me, almeno, non è mai capitato di trovarne nei villaggi visitati. Alcuni, e rari – grazie ai quali (o per colpa dei quali) i bambini possono nutrirsi di aria calda e calcio – sono messi a disposizione da “commercianti” solo nei centri più turistici sulla soglia del loro “negozietto”. Quegli schermi sono comunque troppo pochi per giustificare ciò che ho vissuto.
So che non è bello raccontare un viaggio in Mali parlando di calcio, ma ciò che ho visto mi ha ricordato un’illuminante battuta di Omar Sivori, detta dal grande argentino della Juventus pochi mesi prima di morire.

Una persona lamentava i troppi interessi e le poche vere passioni superstiti nel mondo del calcio, facendo previsioni poco confortanti per il futuro di questo sport. Sivori, senza pensarci ma con calma, rispose così: “No, guardi, si sbaglia. Il calcio non morirà mai. Si ricordi che tutti i bambini, da quando nascono, cercano solo due cose: il ciuccio e la palla”.

Un pallone in Mali costa da un minimo di 1,50 euro (quei palloni bianchi con il pentagono nero, merce rara ormai in Italia), ad un massimo di 3 euro e non è nemmeno facile trovarli… Un pallone di pezza in Mali non l’ho mai visto. Gli indumenti servono, a chi ha la fortuna di possederne, a ripararsi dal caldo del giorno e dal fresco della notte.

A Djenné, un bambino di circa 5 anni mi voleva vendere dei giochini in latta (moto, aeroplanini, camioncini…) che avrei poi ritrovato un po’ ovunque (persino nell’aeroporto di Bamako), ma poi, quasi sussurrando, mi ha chiesto se gli compravo un pallone. Un pallone?! Che richiesta strana… Ho comprato quei giochini dal bimbo e gli ho chiesto quanto costasse un pallone e dove lo potessi trovare.

Allertata dalla guida che dall’inizio ci aveva pregati di non fare l’elemosina, di non distribuire penne perché non solo inquinano ma poi non vi sono scuole e nemmeno carta su cui scarabocchiare, di non regalare caramelle zuccherate ecc…, ho pensato che un pallone poteva essere qualcosa che, invece, si poteva regalare e ho promesso al bambino che il giorno successivo lo avrei comprato.

Dopo un po’ di tempo e in altro luogo mi si è avvicinato un ragazzino balbuziente di circa 10 anni. Non aveva nulla da vendermi ma mi chiedeva se gli compravo un pallone (si era già sparsa la voce?) per giocare nel suo villaggio… In breve: ho chiamato la guida e gli ho chiesto se regalare un pallone fosse una buona idea. Quando Bartolomeo mi ha detto che fra le cose “da regalare” quella sfera rotonda poteva essere “un gesto molto bello” ho detto anche a quel ragazzo di tornare la mattina.

Raramente ho visto nello sguardo di un bambino una felicità così vera e piena come quella ritrovata il mattino dopo negli occhi non solo di chi ha ricevuto il pallone, ma anche negli occhi di tutti quelli che già pregustavano la partitella.

Non so se ho fatto bene, ma nel viaggio ho regalato ancora due palloni. Uno in un villaggio in cui siamo stati forzati a fermarci perché passava l’auto con il presidente: i bambini non parlavano francese, ma con l’aiuto della guida ho chiesto se avessero un pallone. Ho promesso che al ritorno da Mopti ne avrei portato uno. L’altro pallone (che avevo comprato di riserva) l’ho regalato in un villaggio incontrato durante la navigazione sul Niger. Siamo sbarcati perché abbiamo visto che le mandrie guidate dall’esperta etnia peuhl stavano preparandosi ad attraversare lo storico fiume.

Nell’istante in cui il pallone è stato lanciato fra le mani di uno dei 50 bambini, un unico urlo festoso si è levato, e tutti – sincronizzati perfettamente anche nello scatto – sono corsi verso lo spiazzo davanti alla moschea per iniziare il gioco…

La guida ci ha detto che nel villaggio si sarebbe parlato di quell'”incontro calcistico” per i successivi sei mesi. Non potevo non regalare un pallone in quel luogo dove gli unici giochi, ancora una volta, erano cerchi di ferro un po’ spesso, oppure ottenuti da copertoni o ruote di biciclette.

Avevo un pallone comprato di riserva perché non mi ero data pace di non poter trovarne e regalarne almeno uno a Sangha (falesia Dogon) dove bambini dai 5 ai 10 anni circa giocavano sulla terra con il frutto ovale, svuotato ed essiccato, del baobab. Per dare l’idea, si tratta di un frutto che diventa quasi legnoso, tanto che viene usato come strumento musicale (riempito di pietrine e con l’aggiunta di un manico). Questa sorta di palla di circa 25 cm in lunghezza – più da rugby che da calcio – catalizzava attorno a sé bambini che si rincorrevano, crossavano, gioivano, gridavano, segnavano.

La riflessione di Sivori sembrava banale ma era profondamente vera… Non so che cosa avrebbe detto se fosse stato lì con me ma con quel suo sorriso impertinente e leale si sarebbe messo a giocare con quei bambini e avrebbe insegnato loro a fare il tunnel…

  • Testo di Paola Galasso