Massimo Gramellini: non mollare Pupi!

Non so perché qualcuno si ostina ancora a pensare che il più grande calciatore di tutti tempi sia Pelé, o Di Stefano, Cruijff, Platini, Maradona, Van Basten. Tutti ottimi ragazzi, niente da dire. Ma il più grande di tutti i tempi, per chi abbia un briciolo di equilibrio nel guardare le cose, è stato senza dubbio Paolino Pulici, detto Puliciclone o meglio ancora Pupi, bomber del Toro scudettato degli anni Settanta. Lasciatelo dire a chi ha avuto il privilegio di crescere avendolo al suo fianco come fratello maggiore.

Quand’ero bambino e allo stadio dovevo stare sulle punte dei piedi per vederci qualcosa, una delle prime cose che vidi fu lui. Pulici, un diciottenne con movenze da fumetto, tipo Willy il coyote. Dovevate essere lì con me e avreste goduto come matti, ne sono certo: questo schizzo d’uomo esordì contro il Cagliari di Gigi Riva e bisognava vedere come correva! Arrivava sempre prima degli altri sul pallone, ma poi lo sparacchiava in posti impensabili: in curva, sui cartelloni pubblicitari, una volta stava per farlo uscire fuori dallo stadio, come un fuoricampo nel baseball.

«Non gli hanno fatto la convergenza ai piedi», ghignava mio padre. Quanto lo odiavo. Lui e i suoi idoli leggendari, tutti morti a Superga. Non era mica colpa mia se quando ero nato io, il Grande Torino se n’era già andato in paradiso. Mi serviva un idolo tutto mio, alla svelta, e visto che Gigi Meroni era morto anche lui, adottai quello scarabocchio umano che schizzava e svirgolava palloni come un artista pazzo. Pupi.

Mi identificai talmente con lui che quando nel 1971 entrò in crisi, c’entrai pure io. Rischiai di essere bocciato a scuola (prima media), mentre lui finì davvero dietro la lavagna. Fu l’allenatore Giagnoni a spedircelo, stufo di vedergli sparacchiare i palloni in tribuna. Lo mise fuori squadra, lo obbligò a imparare i fondamentali palleggiando contro un muro del vecchio stadio Filadelfia. Ogni tanto andavo a spiarlo di pomeriggio, invece di fare i compiti. Tutti si erano dimenticati di lui, ma io no. Io ci credevo ancora che ce l’avremmo fatta.

E quando una volta il pallone rimbalzò troppo forte sul muro e lo prese sul naso, Pupi si sedette per terra e prese la testa fra le mani, come se stesse per piangere. Allora da dietro la rete di recinzione io gli gridai: «Non mollare, Pupi». Non so se mi abbia ascoltato. Però si alzò, si asciugò le lacrime e ricominciò a sparacchiare palloni contro quel dannato muro.

Un bel giorno tornò in squadra a Cagliari e segnò un gol: Sandro Ciotti lo urlò dentro la radio e io scoppiai a piangere come un fesso. Poi mi chiusi in camera a studiare e fui promosso. Intanto Pupi cominciò a fare gol e non smise più. L’anno dopo vinse la sua prima classifica dei cannonieri e ogni volta che segnava, allo stadio io mi guardavo intorno come se il merito fosse un po’ anche mio. «Non mollare, Pupi!».

Che giocatore, ragazzi. Non come i superuomini di adesso. Lui era ancora umano. Uno che se se la faceva letteralmente sotto in trasferta e gli juventini lo chiamavano “coniglio” (quante volte mi sono scazzottato a scuola, per difenderlo), ma in casa e nei derby, sotto la sua amata curva Maratona, quel satanasso si trasformava e la metteva dentro come una mitraglia: a ripetizione e in ogni modo, di testa, al volo, in rovesciata. La sua specialità era arpionare il pallone fuori area, spalle alla porta, e poi girarsi d’improvviso e sparare. Oh, non ci crederete, ma una volta su due la palla finiva diritta nel sette.

Quell’anno di ripetizioni contro il muro gli era proprio servito. Naturalmente non erano solo i gol ad alimentare il suo mito. C’era, soprattutto, la sua antijuventinità. Mai visto un giocatore detestare tanto la Gobba, ve lo giuro. Ma non per contratto: lui la detestava davvero. Nei derby i tifosi adagiavano all’uscita dal sottopassaggio uno striscione bianconero con una zebra scalcagnata dipinta sopra e la scritta: “La pietà”. Entrando in campo i giocatori della Juve e l’arbitro stavano bene attenti a non calpestarlo. Quelli del Toro facevano un po’ meno attenzione, ma non se ne occupavano un granché.

Tranne Pupi. Entrava per ultimo e si piazzava sopra lo striscione. Poi cominciava a pulirsi le scarpe: prima la destra, poi la sinistra, poi di nuovo la destra, qualora ci fosse rimasto attaccato qualcosa. Adesso gli farebbero i processi in tv. Ma noi in curva andavamo in visibilio. “Pupi tu sei sempre il re!” era il nostro inno. Da quel momento Pulici avrebbe potuto non toccarla mai, la palla, tanto per noi aveva già vinto. In ogni caso ai gobbi gli rifilava sempre anche un paio di gol. Avevano il complesso di Puliciclone, quelli là. Garantito che se lo sognavano la notte. Chiedete a Dino Zoff.

L’anno dello scudetto fu una sofferenza a fin di bene per tutti noi, ma per Pupi di più, perché Gigi Radice lo sostituiva sempre a metà dei secondi tempi con un bravo ragazzo, Garritano. Il fatto è che secondo Radice, il mio Pupi non faceva abbastanza pressing, non rientrava, non contrastava. In effetti era vero, a lui veniva bene una cosa sola: fare gol, e fare gol alla Juve soprattutto, quella poi era proprio la sua passione. E io non gliel’avrei cambiata per niente al mondo.

Comunque si arrivò all’ultima domenica e bisognava segnare ancora un gol per avere la sicurezza dello scudetto. Credo che fra le dieci emozioni più importanti della mia vita, insieme al primo bacio, alla “prima volta”, al primo articolo con firma completa sul giornale, a un paio di tramonti e di albe da urlo, be’, in questa ideale compilation delle godurie troverà sempre un posticino quel gol del 16 maggio 1976 contro il Cesena. Graziani che aggancia il pallone e lo scodella in area, troppo basso per qualunque essere vivente più alto di una formica. Una palla persa, diciamola tutta. Ma ecco un angelo che si stacca dal suolo e invece di puntare verso il cielo si corica in avanti sfiorando tacchetti e suole, con un coraggio da top gun che sorvola una trincea affollata di nemici.

È Pupi, ragazzi miei, che se n’è inventata una delle sue. Nessun allenatore, nessuno schema vi insegnerà mai a tuffarvi in terra per raccattare con la testa un pallone come quello. Pupi ebbe il coraggio di buttarsi e la palla s’infilò, dio se s’infilò, la rivedo ancora adesso, e fu gol, fu scudetto, fu che non ricordo più niente se non che si piangeva tutti come fontane: io, Pupi, mio padre, tutto lo stadio. Bisogna sempre buttarsi, nella vita, anche quando ti prendono per pazzo. È la lezione che imparai da Pupi quel giorno.

Massimo Gramellini