MASSIMO PALANCA – Intervista giugno 1981

Ritratto inedito di un goleador di provincia dal piedino di fata, che va alla scoperta della grande ribalta, sognando Napoli come Cenerentola sognava il ballo di mezzanotte

Un pò poeta, un pò pirata

CATANZARO. Adesso sogna Napoli come Cenerentola il ballo di mez­zanotte. I calabresi arrabbiati mo­bilitati delusi finiranno per capire: Massimo Palanca ha chiuso un ciclo di sette anni col calcio dei poveri, ma non dimenticherà mai i 69 gol realizzati, i quattro campionati di A e i tre di B vissuti come «O Rey» di Catanzaro, i profumi di zagara, l’ombra del carcere sullo sfondo dello stadio delle domeniche felici, le suggestioni di certe mattine da­vanti al mar Jonio. E’ passato tutto in fretta, deve andare.
Gli pare ieri quando arrivò minuto e incurvato come una virgola e con quei baffi da pirata per dire che lo prendessero in considerazione, che non avessero paura, che non dessero troppa im­portanza al fisico da inappetente, alla sua faccia patibolare da calcia­tore di periferia mai cresciuto abba­stanza per dispetto del destino. Gli pare ieri ma deve andare: le pro­spettive del futuro combattono i ricordi del passato: le reti alla Mortensen direttamente su calcio d’an­golo, le rovesciate acrobatiche col pallone che s’infila sotto la traver­sa, le finezze da artista della palla un po’ poeta e un po’ visionario, le scintille d’estro d’uno che non vuol diventare numero, che non vuol far­si irreggimentare, che non vuole es­sere dimenticato, anche se è costret­to avvolgere la carriera in un posto considerato troppo spesso da quelli del football milionario il «penitenziario senza ritorno»: vero niente.
Massimo Palanca riemerge ogni do­menica e ogni giorno calza meglio la sua città con piedi da ballerina, con le sue scarpette N. 38 di cui troppo si è vergognato in passato confrontandole ai «piedoni» dei Maciste dell’area di rigore.

LA RIVELAZIONE. Arriveranno a chiamarlo «piede di fata», l’eco delle sue bravate giungerà puntual­mente, con frequenza, dal profondo Sud o da qualche città visitata in trasferta, sempre con l’acqua alla gola, sempre con l’obbligo di dover allontanare coi fatti il sospetto che sia la stagione della retrocessione. Palanca chi sei?
Quante volte gli abbiamo ripetuto la domanda, abbagliati da qualche improvvisa pro­dezza da fauno… La rammentiamo eversore di Roma e Lazio, pronto a trafiggere con implacabile puntua­lità, come l’ultimo re barbaro. E lui timido, scontroso, non poteva altro che scuotere la testa come una vec­chia sveglia e strizzarsi i baffi.
«So­no un povero diavolo – ripeteva – vivo alla giornata, penso all’oggi, il domani non m’interessa. Io sono in provincia, io sono lontano mille chilometri dai grandi centri. Io so­no quello che sono e gli anni pas­sano. Ma ho una moglie e un figlio che mi fanno sentire importante. E la sera, quando me ne vado a casa, Catanzaro diventa Parigi, Roma, New York. Sarò un po’ matto ma è così. Con Rosanna e Marco vicini non chiedo altro».

ANTIPERSONAGGIO. Palanca chi sei? I giornalisti intorno sono di­ventati improvvisamente numerosi, non può sentirsi più – come ci con­fessò – il goleador meno intervi­stato d’Italia. E quasi è imbaraz­zato dal caos, dai fotografi, dalle cento ipotesi con cui lo circondano, dai primi dubbi con cui qualcuno accompagna il suo trionfale trasfe­rimento a Napoli. Riuscirà o non riuscirà ad inserirsi nel grande cal­cio? Non è turbato, risponde:
«Chissà, non ipotechiamo il futuro. Intanto permettetemi di conoscerlo, di ambientarmi nella grande società, di avere il riscontro del grande pub­blico, pensavo proprio che fosse tardi. Io ho sempre avuto il pre­sentimento di non poter andar mol­to lontano col pallone. E ho badato soprattutto ad accontentarmi… Ho giocato tre anni nei dilettanti del Camerino ed uno in serie C col Frosinone, prima dell’avventura lunga a Catanzaro. Segnavo gol a grap­poli ma nessuno se ne accorgeva. Erano i gol del solito ignoto…».
Ec­co: dietro ad un miliardo e trecento milioni (più la comproprietà del gio­vane Cascione) necessari per averlo nella città del golfo, c’è una storia strana, la storia d’un ragazzo fil di ferro, che però non ha il fisico del ruolo, che però inganna maledetta­mente tutti gli osservatori che nel tempo io provavo e magari vorrebbero strapparlo alla sua sorte di «anonimo» di Loreto. Sì, Massimo Palanca, nasce proprio nel paese della Madonna, visto che a Porto Recanati non c’è ospedale e non si può partorire. Cresce un giorno sì e l’altro no, scherzano gli amici. Cresce comunque in qualche modo e si porta dietro una vaga tristezza da «sabato del villaggio»; il padre custode dello stadio di Recanati e ha altri sette figli.
«Forse voleva fare una squadra di calcio – sorri­derà più tardi Massimo, precisando i particolari inediti della sua bio­grafia – oppure si fidava ciecamen­te della provvidenza. Al dunque pe­rò la pagnotta era dura, e non ba­stava mai. Meno male che io mi nutrivo pure mangiando palloni e respirando calcio. Per studiare sfrut­tai una combinazione che mi offri­va il presidente del Camerino: gra­tis vitto e alloggio purché giocassi da mezz’ala senza chiedere altro nella sua squadra. Ero leggerino, ma col dribbling e la visione del gioco mi difendevo. Sono insomma diventato calciatore per motivi di studio, perché volevo diventare geo­metra e assicurarmi il posto fisso. D’estate guadagnavo qualche soldo da bagnino. Ina vita così, senza pensarci troppo alla solita favola del pallone che può arricchire i po­veri. Ci pensava invece mio fratello più grande e non ha avuto fortuna. Ha girovagato nelle Marche senza mai trovare grosse soddisfazioni. Io invece piano piano sono venuto avanti, mi sono fatto sempre più rispettare. Forse devo tutto al mio spirito d’osservazione. Da piccolo, appoggiato alle reti di recinzione guardavo i più grandi e immagaz­zinavo i fondamentali, i piccoli se­greti, i loro metodi di tiro in porta…».

I RIFIUTI. Roma e Lazio l’ebbero a due passi, a Frosinone. Era il 1973, Massimo andò ai provini sen­za particolare emozione, precisa che si comportò così così, lo scartarono. «Penso fosse sempre colpa delle mie spallucce, del fisico da impie­gato, della mia timidezza…».
Lo scartò anche il Napoli due volte: Janich nel 1973, Sormani nel 1977. «Questo qui – disse un dirigente napoletano d’allora – può sfondare giusto nel tiro con l’arco. Ma dove può andare così ingobbito: se tira vento deve mettersi i pesi in tasca per non volare via».
Il rosario dei cattivi giudizi che lo hanno riguar­dato è stato interminabile. Serviva qualcuno che non si facesse sugge­stionare da quelle ossa, da quella magrezza, da quei pochi muscoli, da quella faccia tutta barba e baffi.
Fu Nicola Ceravolo, l’ex presidente del Catanzaro, il «salvatore». Pa­lanca aveva spopolato nel Frosino­ne e costò al Catanzaro 100 milioni» venti in più di quanti ne offriva la Reggina senza convinzione.
Col suo umorismo proprio Ceravolo dis­se: «Non credo d’aver sbagliato e comunque sia Palanca va proprio bene per il Sud povero e depresso. Ha la povertà dipinta in faccia. Per me, scherzi a parte, diventerà un simbolo…».

Alle diffidenze, Massimo oppose subito reti tutte da premia­re. Si spiegava: «Mi riesce meglio il difficile del facile, non sono però un esibizionista. Io sono un povero diavolo, uno che vuole soltanto vi­vere senza preoccupazioni con la propria famiglia. E a Catanzaro spe­cialmente d’estate mi trovo a me­raviglia. Ho il mare in casa e la villeggiatura gratis. Vi pare po­co?».

IL DESTINO di un uomo è il suo carattere. Ma il destino d’un uomo dipende pure dalla fantasia, dai suoi estri, dal sangue che si porta dentro, dai brividi che riesce a trasmettere. In tal senso Palanca, con quei gol tutti da premiare, di­venta il Gigi Riva di Catanzaro. Le signore cominciano ad andare alle partite, lo eleggono a loro idolo, lo festeggiano e ìo coccolano ai rice­vimenti. Segna di sinistro, di de­stro, in acrobazia, d’astuzia. Proprio gol per signora, li definisce un im­maginifico osservatore.
Di Marzio e Mazzone contribuiscono ad irro­bustirlo un po’, a dargli un minimo di peso atletico. «Sono gli allena­tori che mi hanno condotto per mano alla maturità – spiega – e forse a loro devo l’occasione in extremis che mi è capitata. Vorrei almeno segnare, con la maglia del Napoli tutti quei gol che sono man­cati al signor Marchesi per vincere l’ultimo campionato». Il ragazzo pelle ed ossa, coi baffi alla tartara, esce finalmente dalla prigione degli antichi affetti. La Calabria gli ha dato materna protezione, ma ormai l’addio è inevitabile. Col suo plan­tare nella scarpa destra – vecchio rimedio escogitato per ovviare al­l’arco del piede d’appoggio troppo accentuato – e con i «suoi gol per signora N. 38», il condottiero dei poveri passa giustamente a nuova vita. L’ira di Catanzaro non s’è pla­cata e si capisce… Chi sostituirà il vice-Pruzzo del 1980-81? Chi garan­tirà quei 13 gol indimenticabili del l’ultimo campionato?