Maurizio Montesi: il calciatore scomparso

Questa è la storia Maurizio Montesi, nato a Roma il 26 luglio 1957 e cresciuto nelle giovanili della Lazio, all’ombra del boom di quella squadra indimenticabile che arrivò a vincere lo scudetto nel 1973-74, legata alle prodezze di Chinaglia e alla saggezza del compianto Maestrelli. Chiuso e di poche parole, ancorché modesto tecnicamente come calciatore di centrocampo, arrivò comunque grazie alla sua grinta di combattente ad essere aggregato ai titolari nella stagione 1976-77, senza peraltro poter mai esordire in A con la maglia biancazzurra in quella stagione.

Sono di quei giorni i suoi primi atteggiamenti insofferenti nei confronti del «sistema» e soprattutto le prime dichiarazioni di aperta contestazione all’indirizzo dei personaggi più importanti della società in cui è capitato. Si definisce proletario e figlio della Roma abusiva, veste in maniera volutamente trasandata, si lascia crescere baffi e capelli, giura di odiare il divismo del pallone.

Da Roma e dalla Lazio deve andarsene. Accetta nella stagione successiva il trasferimento ad Avellino, purché non pretendano da lui che porti la divisa sociale, purché non gli rompano le scatole e non lo mettano all’indice com’è stato nella Lazio «dove per far carriera bisognava essere di destra ed essere ciecamente obbedienti a Wilson che distribuiva premi, punizioni, onori e cariche interne a sua discrezione».

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«Io sono nato tra i casermoni della bassa borghesia, sono figlio della spaventosa speculazione edilizia di Roma — racconta — mio padre è impiegato al Ministero della Marina, mia madre è casalinga, ho due sorelle. La strada mi ha insegnato più dei libri, quando posso continuo a frequentare Piazza Giovane Italia, il quartiere delle Vittorie. Dalla Lazio mi mandarono via perché la pensavo a modo mio».

Nasce proprio ad Avellino, dapprima senza dare nell’occhio e poi con un’intervista clamorosa a “Lotta Continua”, il personaggio-Montesi. Ogni sabato all’hotel Jolly, quando la squadra gioca in casa, chiede di essere esentato dai soliti discorsi calcistici e dai giochi di carte per ammazzare il tempo: preferisce ricevere i propri compagni dell’ultra sinistra, discutere di problemi sociali, essere solidale con quanti si ritengono emarginati e vagheggiano un loro bisogno di giustizia con discorsi da cospiratori. A chi incauto gli chiede l’autografo, Maurizio Montesi oppone sdegnosi rifiuti e risponde: «Non perdere tempo, pensa alle scuole e agli ospedali. Non vedete come siete ridotti qui in Irpinia?».

Raccontano che aiuti disoccupati e ragazzi usciti di galera, che rifiuti le cene ufficiali, che preferisca le osterie fuori mano, che non usi mai la macchina, che eviti accuratamente di leggere i giornali sportivi. L’allenatore di allora, Paolo Carosi, cerca di capirlo, di dominarlo. Ai cronisti dice che il ragazzo non è affatto un problema, che si è ambientato benissimo, che in campo rende come pochi, che negli allenamenti è d’esempio agli altri. In effetti l’Avellino anche grazie al corridore Montesi raggiunge la sospirata promozione in serie A e ai festeggiamenti che si scatenano inevitabili, il «contestatore» si dichiara fieramente estraneo.

Così tra rimorsi e contraddizioni, Maurizio Montesi giura ai pochi amici di sentirsi sempre più solo e più incompreso tra gli eroi della domenica, tra i superpagati della pedata E nel marzo 1979 sollecitato anche da certi amici insuperabili che lo definiscono il «rivoluzionario in fuorigioco», decide di dire tutta la sua verità a “Lotta Continua”.

E’ un’intervista che mette immediatamente Montesi contro i suoi tifosi, il suo presidente, i suoi compagni di squadra. Senza usare eufemismi li definisce «completamente stronzi perché invece di pensare alle riforme importanti, alle case, agli ospedali, a fronteggiare la disoccupazione, vanno alla partita a fare i tifosi più o meno incompetenti o faziosi…».

Per diversi giorni Montesi deve rifugiarsi a Roma, nell’abitazione della madre. Si temono incidenti, si è convinti che la gente non possa perdonarlo. Poi invece il ribelle torna e finisce in maglia verde la sua inquieta stagione. Parte però immediatamente l’ordine di rimandarlo alla Lazio, a qualsiasi costo. E nella Lazio — anche perché la sua volontà in campo e il suo spirito di sacrificio piacciono al tecnico del momento, Lovati, — il ragazzo di borgata trova finalmente posto e contemporaneamente sembrano quasi affievolirsi le sue insoddisfazioni. Giurano che si è integrato, che rispetta gli altri ed è rispettato. E’ diventato amico di Giordano; finalmente frequenta un calciatore anche fuori dai campi, nelle ore libere.

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Ma si arriva all’opera da tre soldi del 6 gennaio 1980, la famigerata Milan-Lazio, l’epicentro dello scandalo delle scommesse. E Maurizio Montesi, in quella domenica, si rifiuta di scendere in campo a cinque minuti dall’inizio della partita, dopo che all’arbitro è stata data la lista col suo nome incluso. Lamenta un acciacco che puzza subito di fasullo. Rientrato a Roma si confida con qualche amico dell’ultra sinistra, ma assicura che mai ufficialmente sottoscriverà le sue accuse. Insinuano che si comporti così perché è troppo amico di Giordano e non vuole rovinarlo.

Rapidamente però diventa il superteste del «calcio nero», il terribile accusatore di Wilson, l’uomo del giorno in una vicenda che sembra poter distruggere tra rivelazioni vere o inventate, in un crescendo di psicosi, il gioco più bello del mondo. E come se non bastasse, dopo aver spaccato la Roma laziale in innocentisti e colpevolisti, il 24 febbraio 1980 esce di scena. E’ un gravissimo incidente, dopo solo diciotto minuti di gioco. Le radiografìe effettuate subito dopo il ricovero evidenziano la rottura scomposta di tibia e perone con molti frammenti ossei. Prendendo visione delle lastre afferma: «Mi sono messo in fuorigioco. E’ il colmo per un rivoluzionario…. Macché rivoluzionario! Erano gli altri a crederlo. Io ho sempre agito secondo coscienza. il calcio abitua a pensare che nella vita sia indispensabile soltanto il risultato, da raggiungere a qualsiasi mezzo. E io non la vedo così, a volte mi sono ribellato… ».

Si riprende, a fatica Montesi torna in campo. Con la Lazio spedita in Serie B dai tribunali sportivi, rimane inattivo nella stagione 1980/81 e poi, nelle due successive, 1981/82 e 1982/83, totalizza complessivamente solo 11 presenze. Un secondo infortunio, sempre alla stessa gamba, all’Olimpico contro la Sambenedettese, porrà fine prematuramente alla sua carriera.

Abbandonato da tutti quelli che conosceva nel mondo del calcio, coinvolto in alcuni mai chiariti episodi di cronaca nera (secondo quanto riportato dai giornali dell’epoca), di lui da molti anni si sono perse completamente le tracce.