Perché puoi anche essere bravissimo, ma se sei brasiliano e nel tuo ruolo c’è Zico il tuo destino è segnato
Nella seconda metà degli anni Settanta ai bambini appena usciti dagli indimenticabili cinque canali (Rai Uno, Rai Due, Svizzera, Capodistria e Montecarlo) e dal bianco e nero del Sinudyne con tasti argentati capitava anche di vedere immagini di calcio brasiliano di una qualità sotto il livello di guardia (colpa di un sistema di trasmissione diverso e di una conversione fatta in maniera artigianale), oltre che stravecchie: le partite erano, ad andare bene, di una settimana prima, ma in fondo cosa ce importava? Non c’era né il web né il televideo, per questo chi ha vissuto quell’epoca non può non avere un brivido ricordando Jorge Mendonça, uno dei tanti fenomeni brasiliani dimenticati solo perché hanno avuto la grave colpa di non avere vinto un Mondiale e ritornati almeno nelle brevi solo per la loro morte (avvenuta nel 2006). Mendonça, poi, un Mondiale l’ha anche giocato, ma senza essere protagonista: perché puoi anche essere bravissimo, ma se sei brasiliano e nel tuo ruolo c’è Zico il tuo destino è segnato.
Argentina 1978, maglietta numero 19 e una stima moderata da parte del c.t. Claudio Coutinho, ufficiale dell’esercito ed ex preparatore atletico: Jorge ha ventiquattro anni ed è al massimo della sua carriera oltre che della sua vita. Nato alla periferia di Rio, si è fatto strada nelle giovanili del Bangu. Ma nel calcio carioca non trova spazio: così viene spedito al Nautico, stato del Pernambuco: lì combina cose incredibili, trascinando la squadra verso il titolo statale 1974 e segnando da ogni posizione: all’epoca è una punta pura, ma presto arretrerà. In una partita contro il Santo Amaro (non il Real Madrid, certo, ma comunque una partita di campionato), vinta per otto a zero, tutti i gol vengono segnati da una stessa persona: lui. Il nome corre di bocca in bocca in tutto il Brasile e Mendonça sogna il ritorno a Rio, ma la squadra che lo cerca con più insistenza è il Palmeiras, che vuole un supertalento per far dimenticare ai tifosi l’addio dell’amatissimo Ademir da Guia. Mendonça ha qualche difficoltà con l’allenatore Dino Sani (il campione del mondo 1958, poi grande regista del Milan di Wembley 1963) ma poi, complice anche l’esonero di Sani, esplode, entusiasmando per stile e concretezza: un suo gol di testa, nel 1976 al Piracicaba, è quello del titolo paulista di quell’anno. A 22 anni, il secondo e ultimo trofeo di squadra alzato da Mendonça.
E si arriva in Argentina, con Mendonça che fresco di esordio nella Selecao viene messo dalla stampa brasileira in concorrenza con Zico, un anno più anziano di lui, già un mito del Flamengo ma anche mezzo infortunato. Nel girone eliminatorio Mendonça è spettatore nei pareggi con la Svezia di Ericsson (Georg, non l’allora dilettante Sven, e ‘c’ invece della ‘k’) e la Spagna dell’immenso (da giocatore) Kubala. Nella prima partita il Brasile ha difficoltà offensive, nonostante in campo abbia contemporaneamente Zico, Reinaldo e Rivelino, unico superstite (Leao era riserva di Felix) dello squadrone campione 1970. Momenti di paura dopo il gol di Sjoberg, e pareggio di Reinaldo sul finire del primo tempo, su cross di Toninho Cerezo. Uno Zico fuori forma rimane pur sempre Zico e nel finale segna di testa il gol del due a uno, annullato perché il tempo è scaduto dal gallese Clive Thomas.
Contro la Spagna, partita anche questa giocata al Parque Municipal di Mar del Plata (dove l’Italia bearzottiana gioca con Francia e Ungheria), una Spagna che in attacco ha Juanito e Santillana, Coutinho leva l’imbolsito Rivelino e punta su Dirceu. Ma la musica non cambia, anzi. Dominio spagnolo e Brasile catenacciaro un po’ per le circostanze e molto per scelta (un difensore, Toninho, messo a centrocampo, Amaral libero spazzatutto, Batista e Cerezo trasformati da costruttori in medianacci).
Poi la mossa non troppo a sorpresa nella terza partita, anche questa a Mar del Plata, contro l’Austria di Pezzey, Prohaska, Krankl e Jara (nell’esordio aveva giocato anche un giovane Schachner): fuori Zico e dentro Mendonça. Una buonissima prova, chiusa con una sofferta vittoria (gol di Roberto Dinamite, punta più pesante di Reinaldo) e la sostituzione nei minuti finali, con il Galinho entrato al suo posto. Solite polemiche, solite campagne di stampa: Milano-Roma è giornalisticamente niente rispetto a Rio-San Paolo. Girone di semifinale con Perù, Argentina e Polonia: mezzo Brasile vuole Mendonça, l’altra metà Zico. Il rigido Coutinho non ama nessuno dei due, ma Zico sta male: si punta ancora su Mendonça, che nel tre a zero al Perù di Cubillas e Chumpitaz, al San Martin di Mendoza, fa cose incredibili. Anche se i gol li segnano Dirceu (un calcio di punizione da lontanissimo e un altro tiro parabile da Quiroga) e proprio Zico, su rigore, dopo essere entrato al posto di Gil.
La partita che decide tutto è quella con l’Argentina, il 18 giugno al Cordiviola di Rosario, perché tutti sanno che contro il Perù la squadra di Menotti avrà la strada spianata, nel caso occorra sistemare la differenza reti. Insomma, bisogna vincere: e Coutinho punta ancora su Mendonça, lasciando Zico in panchina. L’Argentina si chiude, il Brasile ha poca ispirazione: nemmeno Zico, entrato al posto del nostro nei venti minuti finali, riesce ad accendere la luce. Di quella partita si ricordano (perlomeno, ricordiamo noi) una quantità infinita di falli e poco altro.
Poi verranno i numeri di Quiroga con l’Argentina, con la scarsezza mescolata a varie considerazioni (Quiroga era di nascita argentina, fra le altre cose) e retroscena forse troppo scontati, uniti all’inutile vittoria brasiliana sulla Polonia, a Mendoza per tre a uno: titolare Zico, ma si fa male dopo pochi minuti, con Mendonça che entra e illumina. Selecao in vantaggio con Nelinho e raggiunta da Lato, dei grossi nomi a disposizione di Gmoch quello che più assomiglia alla sua versione 1974. All’inizio del secondo tempo Polonia scatenata: fra Lato, Deyna, Szarmach e Boniek sembra che Leao stia per crollare, ma poi si scatena Mendonça, che colpisce la traversa, con Roberto Dinamite pronto e mettere dentro. Mendonça furoreggia, sfiora il gol personale ma è ancora Roberto Dinamite a segnare il tre a uno.
Finale per il terzo posto al Monumental di Buenos Aires, lo stesso della finale vera, con Mendonça in campo novanta minuti: l’Italia se lo ricorda bene, anche se i gol di bronzo, dopo il vantaggio di Causio e l’ennesima traversa argentina colpita da Bettega (miglior azzurro del Mondiale), sono di Nelinho e di Dirceu, con il solito seguito di critiche anti-Zoff. Per il trentaseienne portiere non sarà l’ultima partita in Nazionale, mentre per il ventiquattrenne Mendonça sì.
Inutile dire che da quel Mondiale in poi per Mendonça si comincia a parlare di Europa: ma in Italia le frontiere sono chiuse (anche se fra un valzer di portieri e l’altro il nome incomincia a circolare: chi si ricorda delle mitiche ‘opzioni’?), in Spagna le grandi sono a posto e l’Inghilterra è ancora britannica. E poi essere l’idolo del Parque Antarctica basta e avanza. Il suo allenatore dell’epoca, Telé Santana, che sarà c.t. nelle gloriose e sfortunate spedizioni mondiali 1982 e 1986, dice di Mendonça una cosa non da poco: ”Siamo in Brasile e di giocatori forti ne abbiamo visti tanti. Qualcuno, pochi, anche più di Mendonça: ma nessuno stilisticamente perfetto come lui. Ecco, lui è tecnicamente perfetto: il modello da far vedere ai giovani calciatori perché lo imitino”.
Rapportandolo al calcio di oggi, definiremmo Mendonça un trequartista, dal grandissimo lancio e dall’ottimo tiro, da ogni posizione. Ma al di là dell’apprezzamento tecnico nemmeno Santana umanamente lo sopporta. Spalleggiato dai dirigenti del Palmeiras, nonostante partite da leggenda contro il Corinthians (era diventato l’incubo di Jairo), lo lascia andare al Vasco da Gama, nel febbraio del 1980, dove non lascia grandi tracce, prima di andare al Guarani qualche mese più tardi. Quattro grandi stagioni, sia pure in una squadra non troppo ambiziosa, diventando capocannoniere del Paulista del 1981, con 38 gol, giocando in coppia con l’emergente Careca (esattamente ‘quel’ Careca).
Poi la parabola discendente: Ponte Preta, Cruzeiro, Rio Branco, Colorado e Paulista. Non tutte squadracce, ma il livello di Mendonça, troppo bravo per non attirare i calci dei difensori, è sceso. Sorvoliamo sulle mille traversie personali: in sintesi, diciamo che ben prima della fine della carriera perde tutti i soldi guadagnati e conosce da vicino l’alcolismo. Il Guarani gli offre di collaborare al settore giovanile, ma lui nonostante il nuovo lavoro (il cosiddetto ‘Projeto Bugrinho’) non si risolleva. Per essere ricordato il suo talento avrebbe dovuto venire al mondo cinque anni prima o dieci dopo, ma la data di nascita non si può scegliere. Spesso nemmeno quella di morte: Mendonça se ne è andato a cinquantun anni per un infarto fulminante, lasciando moglie e tre figli. Di lui rimangono 375 gol, tante immagini sgranate e un rivale insuperabile.
Testo di Stefano Olivari