Meno tango, più ritmo: Argentina 78

Luis Menotti cambiò il gioco dei biancocelesti puntando su lanci lunghi, difesa dura e azioni profonde sul modello europeo, concedendo poco allo spettacolo

Per l’Argentina, campione 1978 sui campi di casa, il mondiale cominciò poco dopo il sorteggio (14 gennaio, appunto) che affiancò la squadra biancoceleste all’Italia, più Francia e Ungheria, in uno dei gironi del primo turno. Mentre Enzo Bearzot ed i commissari tecnici Lajos Baroti (Ungheria) e Michel Hidalgo (Francia) discutevano sugli esiti delle urne, Luis Cesar Menotti diramava l’elenco dei 25 giocatori che avrebbe strappato ai club, per riunirli nel lungo stage che doveva portare al trionfo finale.

Menotti, allora quarantenne alto ed asciutto con il fisico da play boy, i capelli lunghi sul collo a sfiorare il colletto della camicia aperta sul petto, il passo e lo sguardo di chi sa di essere personaggio, subito dopo il sorteggio entrava nel salone delle feste dell’hotel Sheraton a fianco della splendida Marlene Knaus, l’allora moglie di Nicky Lauda, elegante in un semplice abito bianco, i capelli raccolti dietro la nuca, anche lei col passo sinuoso della protagonista. Due giorni dopo era in programma il G. P. d’Argentina di Formula Uno, prima tappa del circuito mondiale. Gente di calcio e di auto riunita per una festa che, prima delle competizioni, faceva già da paravento ai guai del Paese.

Era lungo l’applauso per il primo ballo aperto da loro – Marlene e Luis – coinvolti in un tango che era stato di Gardel, mitico interprete di una musica triste, proposto a ritmi più rapidi da Astor Piazzolla. Cominciò così, con un tango, il mondiale d’Argentina e della nazionale biancoceleste.

Luis Cesar Menotti, che aveva scandagliato a fondo l’Europa restandovi a lungo (anche in Italia), aveva appena lasciato alle spalle il nostro inverno per tuffarsi nell’estate argentina. Rientrato a casa, gettava cortine di fumo.

«Ho una squadra inesperta perché mediamente un nazionale argentino di valore, nella maturità della carriera, ha alle spalle una trentina di incontri internazionali. Un europeo di pari età e qualità può arrivare a sessanta. Una differenza enorme. L’esperienza non si raccoglie allenandosi, purtroppo».

Ardiles durante l’amichevole Argentina-Inghilterra 1-1 del 12/06/1977

Non diceva, il ct argentino, di essere già corso ai ripari. Dalla fine del 1974, anno della sua nomina, aveva imposto alla squadra 63 partite preparatorie: 43 amichevoli ufficiali e 17 contro formazioni di club. Giocatori come Ardiles e Gallego in tre anni avevano praticamente colmato il gap che li divideva dall’Europa.

Dal 1975 al 1977 Menotti aveva anche cambiato «la testa» del calcio argentino. Primo punto: basta con le sciocche simpatie per lo spettacolo fine a se stesso, con le fatue ricerche dell’applauso personale. Conta soprattutto la voglia di vincere. Secondo punto: colpo di spugna sulla fragilità morale di molti, tutti debbono andare in campo convinti delle proprie possibilità. Terzo punto: scordare il gioco basato su passaggi corti, la tendenza ad attaccare con «triangoli» brevi alle soglie e dentro l’area avversaria, e invece copiare dall’Europa che privilegiava la difesa e da questa parte con lanci lunghi, con azioni in profondità.

Il 19 maggio 1978, tredici giorni prima dell’inizio della Coppa del Mondo in Argentina, Menotti confermò la rosa dei 22 giocatori che avrebbe affrontato la competizione. In tal modo, lasciò fuori il centrocampista Víctor Bottaniz, l’attaccante Humberto Bravo e soprattutto Maradona, che aveva 17 anni ed era già una figura nell’Argentinos Juniors. Anni dopo riconobbe il grande errore: «Probabilmente ho sbagliato a lasciare Diego fuori dalla Coppa del Mondo del ’78. Semplicemente avevo 25 giocatori e doveva sceglierne 22. Dovevo escludere tre..».

I ventidue selezionati da Menotti: non c’è Maradona

L’Argentina ’78 dimostrava comunque sul campo di aver imparato la lezione. Prime partite del mondiale senza squilli, ma con risultati: 2-1 all’Ungheria, 2-1 alla Francia (per i transalpini rete di Platini). E poco importava a Menotti di perdere con l’Italia il terzo match: spiaceva dover lasciare il campo principale, la «cancha» del River Plate, ma proseguire la corsa a Rosario era bello. Ogni partita una festa popolare. Questa squadra biancoceleste si faceva vedere subito pratica, dura, combattiva e sbrigativa.

Lo schieramento base cominciava da un grande portiere, Ubaldo Fillol, che cancellava la tradizione dei numeri uno argentini belli, volanti e un po’ folli come Hugo Gatti, passione dei tifosi, chiamato El Loco, ovvero il matto. La linea di difesa, dalla destra, presentava Olguin terzino, tecnicamente modesto ma di grande temperamento (destinato a salire di tono durante il mondiale). Al centro il vigoroso stopper Galvan e al suo fianco, chiave europea della squadra, Daniel Passarella. Un libero dal carattere forte e dalla volontà feroce. Grinta ma anche piedi buoni, e lo dimostrava con lanci e calci di punizione. Terzino sinistro l’elegante e riccioluto Tarantini, dalla splendida moglie. Ma attenzione: faccia d’angelo aveva la determinazione di un killer.

Valencia e Henry in Argentina-Francia 2-1

A centrocampo, gran movimento attorno al perno Gallego, che presidiava la zona centrale e si dimostrava di gara in gara uomo d’ordine e di idee, con spiccata vocazione alla copertura difensiva. Con lui il tecnico, intelligente, lucidissimo Ardiles, che avrebbe poi lasciato il segno anche nel campionato inglese, e il tornante sinistro Ortiz, agile attaccante o centrocampista di fatica, a seconda dei momenti della gara.

L’attacco dell’Argentina aveva in Leopoldo Luque l’ariete che impegnava a fondo le difese e sapeva col suo gioco a percussione aprire spazi per i due compagni di reparto, che avevano più classe di lui ed anche maggior potenza e precisione di tiro. A destra Daniel Bertoni, ala capace di stare larga sulla fascia per eseguire il cross, come di accentrarsi per concludere; a sinistra (ma con l’idea fissa di arrivare in posizione di centravanti) Mario Kempes, il quale gol dopo gol diventava (sei reti) il capocannoniere del mondiale ’78. I tre attaccanti sapevano anche alternarsi nei rientri, in caso di necessità. Una prima linea di movimento, uno dei segreti del successo.

Stretta di mano tra Oscar e Kempes nel durissimo match contro il Brasile

Questa Argentina si avvicinava, nella combattività e nell’astuzia, sia alla tradizione del vecchio calcio uruguagio, che alle concretezze del modulo europeo. Nel mondiale in cui l’Italia lanciava Cabrini e Rossi, la Polonia presentava Boniek (che prendeva il posto dell’usurato asso Lubanski) e l’Olanda pagava a gioco lungo l’assenza di Cruijff, Luis Menotti trovava sul campo la risposta piena al lungo lavoro che aveva imposto ai suoi uomini. Reggeva sino alla fine la condizione fisica, addirittura progrediva sulla spinta dell’orgoglio e della crescita della passione popolare. I biancocelesti arrivavano al trionfo sepolti dai «papelitos» (tutta la carta trovabile, giornali compresi, tagliata a fettine), che la gente rovesciava loro addosso dalle gradinate.

Bertoni sigla la rete del 3-1 definitivo nella finale

Valencia nella fase iniziale, presenti a spezzoni Villa e Alonso, quindi Houseman e Larrosa (decisivi gli inserimenti degli ultimi due, per la loro riserva di fiato, nel prolungamento della finale) gli altri giocatori della cavalcata argentina. Menotti non variò mai la difesa, anche questo un segreto del successo. L’Argentina fu splendida per slancio e lucidità, superando il prevedibile stress psicofisico nei tempi supplementari del match decisivo con l’Olanda.

Fra gli elementi chiave dello sprint Bertoni, autore del gol della sicurezza, che stroncò alla distanza il suo avversario Poortvliet. Passarella e Tarantini dovettero spremere le ultime gocce di energia per portarsi avanti a supporto dell’attacco. Il dinamismo di Kempes, sue le reti dell’1-0 e del 2-1, diede gli ultimi brividi all’Olanda e ai 77.260 spettatori (cifra ufficiale, da aggiungere migliaia di «portoghesi») dello stadio del River Plate. Mentre gli ultimi papelitos volavano nel vento di Buenos Aires…