Messico 70: l’ultimo vero Mondiale

Vincendo un’edizione altamente spettacolare, i verdeoro pilotati da “O Rey” Pelé conquistano definitivamente il trofeo.

Piuttosto contrastata era stata l’assegnazione dell’organizzazione della nona Coppa Rimet. Assodata la spettanza al continente americano, erano state avanzate due candidature. Messico e Argentina. Entrambi i paesi avevano messo in moto una possente macchina pubblicitaria. L’Argentina magnificava il numero e la qualità degli stadi di Buenos Aires, l’efficienza dei propri servizi alberghieri, oltre ovviamente alla maggiore “credibilità” sul piano strettamente tecnico. Il Messico, su cui incombeva l’incognita dell’altura (una lunga manifestazione agonistica all’aria rarefatta dei duemila metri dell’altipiano), opponeva due argomenti: la pressoché contemporanea richiesta di organizzazione delle Olimpiadi 1968, che avrebbero consentito una abbinata particolarmente favorevole sul piano economico, e il fatto che nello stesso anno, il 1962, dell’ufficializzazione della propria candidatura, aveva intrapreso a Città del Messico la costruzione del monumentale Stadio Azteca, un gioiello capace di ospitare oltre 100 mila spettatori.

Nel Congresso della Fifa tenutosi l’8 ottobre 1964 a Tokyo alla vigilia delle Olimpiadi, il partito dei “messicani” ebbe la meglio per 56 (voti) a 32. Si disse che a prevalere fossero soprattutto considerazioni di ordine politico-sociale per la maggiore stabilità garantita dal Messico: le Olimpiadi avrebbero drammaticamente contraddetto tali motivazioni, aprendosi in un clima di sconcerto e costernazione per la sanguinosa repressione, alla immediata vigilia, dei moti di protesta studenteschi di Piazza delle Tre Fontane.

MESSICO E NUVOLE

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Walter Ulbricht Stadion, Germania Est-Italia: Riva ha appena colpito la palla per il pareggio

All’Italia toccò un girone di qualificazione facile facile, il gruppo 3, comprendente Galles e Germania Est. Una specie di passeggiata cui il CT Valcareggi mise mano il 23 ottobre 1968, portando i suoi freschi campioni d’Europa a Cardiff, in Galles. Il solito Riva sigillò l’1-0 per gli azzurri, che confermavano un canovaccio tattico ormai definito: difesa robusta, squadra raccolta e pronta a far partire il contropiede per i devastanti mezzi atletici di Gigi Riva. Era il “gioco all’italiana” già esaltato dalla grande Inter. A Valcareggi mancavano ora uno stopper e un libero degni successori di Guarneri e Picchi (il classico Castano era vittima di troppo frequenti infortuni), ma la difesa reggeva, il centrocampo era capace di lanci millimetrici, pur se scarsamente dinamico e potente, e l’attacco possedeva uomini esplosivi.

Il nuovo clima di fervore azzurro, con la Nazionale finalmente in cima alla considerazione generale (per lasciarle più spazio la A dal 1967-68 era ridotta a 16 squadre), consigliò anche un “test” delle condizioni ambientali messicane. A qualificazione non ancora raggiunta, gli azzurri giocarono due amichevoli nella capitale, contro il Messico: 3-2 e 1-1 i risultati. Se ne dedusse che il pallone, causa la minore resistenza dell’aria, viaggiava più veloce, e che le energie scemavano in fretta, per le minori capacità di recupero in scarsità di ossigeno. Bisognava correre poco: per noi. un invito a nozze.

Il cammino verso il Mondiale riprese il 29 marzo a Berlino Est, dove gli azzurri pareggiarono 2-2. sempre in rimonta, sempre con il micidiale Riva. Dopo uno scialbo nulla di fatto in amichevole con la Bulgaria a Torino in chiusura di stagione (dominata in campionato dalla Fiorentina), il cartellino della qualificazione iridata venne timbrato con un sonoro 4-1 a spese del Galles all’Olimpico, con tre reti di Riva, e un secco 3-0 ancora a Napoli.

La marcia di avvicinamento al Messico fu completata con due amichevoli, un pari (2-2) a Madrid con la Spagna e una vittoria (2-1, solita doppietta di Riva) a Lisbona. Il gioco fluiva tutt’altro che entusiasmante, ma lo sbocco in gol non mancava. Restava però insoluto il dilemma sull’impiego dei “dioscuri” di Milano. L’interista Mazzola, completato ormai l’arretramento da centravanti a interno, possedeva scatto e propensione ai recuperi, ma non il genio dei lanci in verticale per i quali si raccomandava invece l’elegante milanista Rivera, riluttante peraltro a sacrificarsi nei recuperi difensivi in appoggio al centrocampo. E dato che un posto di mezz’ala spettava alla preziosa concretezza di De Sisti, la lotta per una maglia finiva col coinvolgere le due “primedonne” del calcio italiano.

I GRANDI ASSENTI

Alla nona edizione del Mondiale si iscrissero ben 71 nazioni, da cui uscirono le sedici finaliste. Oltre all’Inghilterra, campione uscente, e al Messico, paese ospitante, guadagnarono l’ammissione: Romania (su Grecia, Portogallo e Svizzera), Cecoslovacchia (su Danimarca, Eire e Ungheria), Italia (su Galles e Germania Est), Urss (su Irlanda del Nord e Turchia), Svezia (su Francia e Norvegia), Belgio (su Finlandia, Jugoslavia e Spagna), Germania Ovest (su Austria, Cipro e Scozia), Bulgaria (su Lussemburgo, Olanda e Polonia), Perù (su Argentina e Bolivia), Brasile (su Colombia, Paraguay e Venezuela), Uruguay (su Cile ed Ecuador), El Salvador (su Costa Rica. Jamaica. Honduras, Guatemala. Haití. Trinidad, Antille Olandesi, Suriname, Bermuda, Canada, Stati Uniti), Israele (su Australia, Corea del Sud, Giappone, Rhodesia, Nuova Zelanda e Corea del Nord, quest’ultima estromessa per il rifiuto politico di incontrare Israele), Marocco (Algeria, Tunisia, Senegal, Etiopia, Libia, Sudan, Zambia, Camerun, Nigeria e Ghana).

Robusto il numero delle grandi escluse. Se in Sudamerica il crollo dell’Argentina, vittima di una generazione povera di talenti. rappresentò l’unica eccezione ai valori tradizionali, l’Europa lasciò sul terreno non solo il Portogallo, tornato nell’ombra dell’anonimato dopo gli exploit di Eusebio in Inghilterra, ma anche la Francia, ormai decaduta, la Spagna, incapace di trovare ricambi agli assi del Real d’oro, e l’Ungheria, il cui vivaio si era drammaticamente prosciugato.

L’ITALIA DEL VALCA

Non fu semplice, per Valcareggi, la scelta dei ventidue per la fase finale. E fu, probabilmente, sbagliata, se è vero che a toglierlo d’impaccio ci mise una pezza la sorte benigna. Una delle prodezze più memorabili dello “stellone” del Ct si verificò alla immediata vigilia della partenza per il Messico, in maggio. I ventidue erano pronti, quando il centravanti titolare Anastasi, durante uno scherzo di spogliatoio col massaggiatore, venne colpito con involontaria durezza al basso ventre. La cosa sembrò esaurirsi con il dolore dell’interessato, senonché nelle ore successive vi si aggiunse un allarmante gonfiore a un testicolo. In ospedale venne sentenziata la necessità di un immediato intervento chirurgico (con conseguenti trenta giorni di convalescenza) per riparare alla banale torsione di un funicolo spermatico. Niente Messico, dunque.

Valcareggi, che a malincuore aveva escluso Boninsegna, si affrettò a cercarlo: il potente centravanti dell’Inter, fresco di matrimonio, si stava dedicando alla pesca e ovviamente non esitò a lasciare la lenza per preparare la valigia per il Messico. Dove sarebbe stato il migliore degli azzurri. L’occasione venne colta dal Ct per richiamare anche l’altro grande escluso dell’attacco, il milanista Prati. Avanzandogli a quel punto un uomo, fece cadere la dolorosa scelta su Lodetti, gregario di Rivera nel Milan. Così riveduta e corretta, l’Italia partì per l’avventura mondiale. A guidarla, un uomo destinato a far parlare di sè: Walter Mandelli, presidente del Settore tecnico, voluto da Franchi per “proteggere” il Ct, evitandogli la solitudine fatale a Fabbri nel 1966.

Attese modeste circondavano gli azzurri: dopo tanti fallimenti, si riconosceva che l’ingresso nei quarti, sempre mancato nel dopoguerra, sarebbe stato un risultato di grande prestigio. Giusto alla vigilia del debutto, esplose il “caso Rivera”, con pesanti dichiarazioni del giocatore contro Mandelli, considerato responsabile di una sua probabile esclusione. Accorse Franchi dall’Italia, a mettere il tutto a tacere con abile diplomazia.

Per l’esordio con la Svezia, Valcareggi escluse Rivera e al centro della difesa inserì il modesto Niccolai, stopper del Cagliari quasi esordiente, proteggendolo con l’innesto, nei panni di libero, del mediano Cera. Una intuizione geniale, quest’ultima, che gli avrebbe garantito, oltre a ottime chiusure difensive, la preziosa capacità di avviare il contropiede con lunghi lanci in verticale. Centrocampo robusto, con Bertini, Domenghini. Mazzola e De Sisti, attacco coi due “panzer”, Boninsegna e Riva. A quest’ultimo il Ct svedese Bergmark appiccicò l’armadio Olsson, che riuscì a neutralizzare il bomber, con la preziosa alleanza dell’altitudine (i 2.680 metri di Toluca erano micidiali per giocatori dalle larghe fasce muscolari).

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Contro Israele l’Italia non va oltre uno squallido 0-0

Dopo un palo di Boninsegna, un tiraccio di Domenghini dal limite sugli sviluppi di un calcio d’angolo portò l’Italia in vantaggio, col contributo del portiere Hellstrom, che in tuffo si fece sfuggire il pallone. Gli errori di Riva sottomisura caratterizzarono il resto della monotona gara. Valcareggi confermò la propria buona stella: un rude intervento di Kindvall mise fuori combattimento Niccolai, scelto a sorpresa come titolare (il suo allenatore Scopigno era sobbalzato davanti alla tivù: «Tutto mi sarei aspettato in vita mia, ma non di vedere Niccolai via satellite!»), e il Ct fu bravo a sostituirlo con Rosato, mediano destinato a dare il meglio di sè proprio come stopper.

L’Uruguay aveva regolato con due gol Israele nel proprio debutto a Puebla, logico il tacito patto di non aggressione nel confronto diretto tra italiani e sudamericani, in una partita di spaventosa pochezza tecnica. Il caldo torrido e l’altitudine costrinsero lo sfiancato Domenghini all’abbandono alla fine del primo tempo; Valcareggi lo sostituì col debuttante Furino. L’Italia si era svegliata di notte, causa fuso orario, per seguire la partita in diretta televisiva: solo i più temprati riuscirono a resistere al soporifero spettacolo.

Il contemporaneo pareggio della Svezia con Israele rendeva sufficiente all’Italia un pari nell’ultima partita. E pari fu, di nuovo senza gol. La perfetta tenuta della difesa, comandata da un eccellente Cera, il palo colpito da De Sisti dopo otto minuti, il gol annullato a Riva per un fuorigioco quasi inspiegabile furono le “perle” del primo tempo. Nell’intervallo Valcareggi sostituì Domenghini con Rivera, invocato dai tifosi italiani presenti.

Un cronista belga commentò: «L’Italia non è una squadra, è una cassa di risparmio!»: con un solo gol aveva colto quattro punti e il primo posto nel girone. Atteso come il più terrificante bombardiere del Mondiale, Riva, logorato dalla stagione monstre dello storico scudetto del Cagliari, tormentato da problemi sentimentali e sfiancato dall’altura, si era distinto più che altro per gli impacci nel palleggio e gli errori di mira.

DIECI E LODE

Il bel calcio venne prodotto negli altri raggruppamenti, in un Mondiale largamente apprezzabile sul piano tecnico, dopo le due edizioni in tono minore del 1962 e del 1966.

Nel primo girone vita facile per l’Urss, cui bastò la non belligeranza nell’esordio coi padroni di casa messicani (apertura ufficiale del torneo) per accedere al turno successivo, dopo aver brutalizzato il pur accreditato Belgio del grande Van Himst. Il Messico non durò fatica a sbarazzarsi del Salvador, cenerentola del torneo, per poi appoggiarsi sull’aiuto arbitrale (un rigore in confezione regalo del fischietto argentino Coerezza) contro gli stessi uomini di Goethals.

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Cubillas a segno in Perù-Marocco

Memorabile il terzo gruppo. Il Brasile si era rifatto il trucco, presentandosi al proscenio come la più affascinante scommessa del Mondiale. Il seme l’aveva gettato João Saldanha, successore di Vicente Feola (giubilato dopo il fiasco inglese) alla guida della Seleção. Impegnato Pelé a promuovere più che altro i propri affari, in Nazionale era sorto l’astro dell’attaccante Tostão, già presente al Mondiale 1966. Piccolo e svelto, possedeva piedi sapienti e un senso del gol micidiale. Era il “doppione” di Pelé, gli intimò la critica; Saldanha non battè ciglio: avere due Pelé in squadra era meglio che schierarne uno solo. I fatti gli diedero ragione: nelle sei partite di qualificazione al Mondiale, tutte vinte, il Brasile segnò ben 23 reti, delle quali 10 (!) portavano la firma di Tostão e 6 quella di Pelé.

Come premio per l’ottimo exploit, Saldanha venne silurato per far posto a Mario Zagallo, bicampione del mondo e destinato a una brillantissima carriera anche come tecnico. Proseguendo sulla stessa strada, l’ex campione si mise in testa di far giocare tutti insieme i cinque “numeri 10” più forti del Brasile: Pelé del Santos, Tostão del Cruzeiro, Gerson del San Paolo, Jairzinho del Botafogo e Rivelino del Corinthians. Jairzinho divenne ala destra, Gerson il regista, Rivelino il tornante di sinistra, disponibile a sacrificarsi anche in copertura; infine, Tostão era il centravanti e Pelé, noblesse oblige, il numero dieci.

Il girone comprendeva anche l’Inghilterra campione uscente, che esordì battendo di misura la Romania, dopo aver rischiato, nel viaggio verso il Messico, di perdere Bobby Moore, incredibilmente accusato del furto di un braccialetto prezioso in un negozio di Bogotà. Il Brasile frantumò la Cecoslovacchia con un eloquente 4-1. Attesissimo lo scontro diretto tra brasiliani e inglesi, che attinse livelli tecnici notevoli. Prevalsero i sudamericani di misura, ma gli avversari si dimostrarono degni competitori, fallendo una manciata di strepitose palle-gol. Con un successo dal dischetto sulla Cecoslovacchia passarono poi il turno.

Nel quarto raggruppamento la Germania presentava l’ottimo telaio del 1966. con l’aggiunta di uno stoccatore micidiale, il piccolo Gerd Müller. Superato a fatica il Marocco, i tedeschi affondarono Bulgaria e Perù a suon di gol: sette nelle tre partite furono del nuovo astro dell’attacco. Possedeva buoni valori tecnici anche il Perù, pilotato in panchina dal grande Didì e in campo dall’arte di Cubillas: battè la Bulgaria e il Marocco, risolvendo subito il rebus della seconda qualificata.

AR-RIVA L’ITALIA

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Contro il Messico, Valcareggi “inventa” la staffetta

La consapevolezza dei proprio valore l’Italia la conseguì nei quarti, dove le toccarono i padroni di casa del Messico. La prima frazione di gioco fu tutt’altro che entusiasmante, i messicani vi esercitarono un predominio iniziale, sospinto dal tifo e culminato nel meritato vantaggio di Gonzalez, favorito da una scivolata di Rosato. Il pari arrivò su gran tiro di Domenghini, maldestramente deviato nella propria rete da Pena. Nell’intervallo Valcareggi pronunciò la parola magica (staffetta) e il Mondiale azzurro cambiò. Rivera subentrò a Mazzola, con effetti dirompenti: lanciato da un suo delizioso servizio, Gigi Riva si sbloccava, insaccando a fil di palo un potente diagonale di sinistro. E poi lo stesso Rivera, su un’insistita azione personale (dopo due respinte di Calderon) raddoppiava. Qualche minuto prima, una provvidenziale ribattuta del superbo Cera sulla linea aveva scongiurato il pareggio di Pulido. Infine, nuova invenzione in verticale di Rivera per Riva, che in area si liberava al tiro e infilava.

I CAMPIONI A CASA

Una crudele regia mandò in scena nei quarti la rivincita della finale di quattro anni prima, che venne onorata da due squadre fortissime. Mancava nell’occasione agli inglesi il prodigioso portiere Banks, sostituito dal modesto Bonetti, ma il complesso era forse più forte di quattro anni prima. Dopo quattro minuti della ripresa, i tedeschi erano sotto di due gol. Ramsey continuò a mandare i suoi all’assalto, il suo rivale inserì un attaccante in più, l’ala Grabowski, e riuscì a dimezzare con Beckenbauer lo svantaggio. Due minuti dopo, il Ct inglese sostituiva l’esausto Bobby Charlton e i tedeschi prima pareggiavano con Seeler, poi nei supplementari chiudevano il conto con lo spietato Müller.

Bellissima anche la partita tra il Brasile, già sul 2-0 dopo un quarto d’ora, e il Perù, schierato in una chiave allegramente offensiva. Solo a un quarto d’ora dalla fine il quarto gol, di Jairzinho, mise al sicuro Zagallo.

Senza storia la partita di Città del Messico. L’Uruguay non ritenne necessario spremersi più di tanto, così costringendosi alla fatica ulteriore dei supplementari. A battere l’Urss, ugualmente attendista e priva di idee, arrivò un contestato cross di Cubilla (il pallone forse aveva già varcato la linea di fondo), trasformato di testa da Esparrago.

MARATONA CON TARGA

Il regolamento della Coppa Rimet ne prevedeva l’assegnazione definitiva alla nazione che per prima fosse riuscita ad aggiudicarsela per tre volte. Il fatto che ai quarti di finale fossero giunte tutte e tre le pretendenti (Brasile, Italia e Uruguay), oltre alla Germania che ugualmente vantava il trofeo nel proprio passato, costituiva la dimostrazione dell’alto valore tecnico della manifestazione. Gli incroci del tabellone prevedevano uno scontro Europa-Sudamerica in finale. Così, mentre il Brasile faceva a pezzi l’Uruguay, dopo aver a lungo faticato per violarne il bunker difensivo, l’Italia all’Azteca di Città del Messico affrontava i temibili tedeschi.

Valcareggi mandò in campo gli stessi uomini dei quarti. Boninsegna dopo otto minuti sbloccò il risultato dopo un triangolo con Riva innescato da De Sisti. Il piano tattico classico dell’Italia sparagnata poteva attuarsi. Chiusi in difesa, gli azzurri respinsero gli assalti, armando pericolosi contropiede. Nella ripresa, la ormai classica staffetta Mazzola-Rivera non sembrò produrre vantaggi: l’interista era stato tra i migliori nel primo tempo, frenando Beckenbauer, il successore indeboliva l’azione di filtro e i tedeschi avanzavano a folate, potenziati in attacco dall’innesto di altre due punte, Held e Libuda.

Finì in un assalto a fort Apache, con gli italiani arroccati senza più la forza per tentare reazioni. Una dura spallata di Rosato costrinse Beckenbauer col braccio appeso al collo, su un salvataggio volante sulla linea dello stesso difensore italiano Müller fallì a porta vuota. Quando sembrava fatta, Schnellinger, alfiere del Milan, nel primo minuto di recupero intervenne in spaccata su un cross da sinistra, infilando Albertosi. Affranti, i ventidue si rovesciarono sull’erba, divorati dalla stanchezza.

L’esaurimento delle energie fu alla fonte dei colpi di scena dei supplementari. Tedeschi in vantaggio con Müller (con la complicità di un malinteso tra Poletti, subentrato allo sfinito Rosato, e Albertosi); pareggio di Burgnich su punizione di Rivera goffamente respinta da Held; ancora avanti l’Italia con Riva, che bissa il secondo gol al Messico, saltando un difensore, fingendo di allargarsi sul fondo e improvvisamente battendo a rete in torsione col sinistro; su calcio d’angolo, Seeler appoggia di testa a Müller, che ancora di testa schiaccia debolmente a rete, dove Rivera, finito sulla linea, anziché respingere («Tua!» gli grida Albertosi), si scansa.

Tutto finito? No: lo stesso Rivera riparte in avanti e sul traversone rasoterra da sinistra di Boninsegna si corica impercettibilmente ingannando Maier, che vola a sinistra, mentre il pallone calciato al volo dal golden boy si infila beffardo nell’angolo destro. Al fischio finale, Domenghini viene portato fuori semisvenuto. Sulle gradinate, la gente è in delirio, le autorità calcistiche messicane decideranno di murare una targa nello stadio Azteca. a perenne ricordo di una partita così entusiasmante. A migliaia di chilometri di distanza, immerso nella notte, un intero Paese vive per le strade una rumorosa festa collettiva senza precedenti. Dopo trentadue lunghissimi anni, l’Italia è di nuovo in finale.

LA GERMANIA TERZA

La Germania non si lascia sfuggire il podio, in una partita bella e combattuta. Pilotata dall’asso Ladislao Mazurkiewicz, votato da una giuria di giornalisti il miglior portiere del Mondiale, la difesa uruguaiana resiste a lungo, poi cade su una prodezza del magnifico Overath, regista sublime della squadra col suo sinistro parlante. Mancando di Rocha, i sudamericani non riescono a impensierire più di tanto Wolter, sostituto dell’infortunato Maier.

IL BRASILE AFFONDA I COLPI, L’ITALIA RINUNCIA ALLA STAFFETTA

Comunque fosse andata, la Coppa Rimet sarebbe stata assegnata definitivamente. I favori del pronostico erano tutti per il favoloso Brasile di Pelé e Tostão. Ora, è utile soffermarsi sulla situazione degli azzurri, per comprendere la preoccupazione che incupiva Valcareggi alla vigilia della partita. L’Italia si era arrampicata fino al tetto del mondo governando, un po’ col caso un po’ a colpi di buon senso, una situazione esplosiva. Il dualismo Mazzola-Rivera aveva spaccato in due lo spogliatoio: difensori e centrocampisti erano favorevoli all’interista (che garantiva maggiori aiuti in copertura), mentre gli uomini dell’attacco per nulla al mondo avrebbero rinunciato alle geniali aperture del milanista. Nello stesso settore offensivo mirabilmente coabitavano due rivali “storici” come Boninsegna e Riva, i cui problemi di convivenza tecnica nel Cagliari erano stati risolti solo con la partenza del primo per Milano.

Del famoso “gruppo” di altre future occasioni, insomma, c’era poco più che un’ombra, mentre lo schieramento tipo era nato sull’onda di emergenze assortite. L’equilibrio raggiunto correva sul filo sottile della “staffetta” Mazzola-Rivera. Fosse stato per le sue convinzioni, il Ct avrebbe rimescolato le carte: si giocava tre giorni dopo il massacro fisico contro la Germania, già due anni prima aveva vinto la ripetizione della finale europea intervenendo col bisturi sullo schieramento. Senza contare il rischio di appagamento, complice lo stratosferico ammontare dei premi incamerati fino a quel punto dai prodi azzurri: venti milioni a testa, una cifra iperbolica (più di 250 milioni di oggi), frutto delle allegre promesse di inizio avventura. Ma come andare a toccare quel piccolo capolavoro? Su quelle tormentate ore della vigilia, in cui si decise di abbandonare la “staffetta” nella circostanza decisiva, l’Italia si giocò la finale. Dall’altra parte della barricata, la vigilia scorse invece tranquilla.

Al fischio iniziale del tedesco orientale Rudi Glöckner, i verdeoro avviarono la loro danza flessuosa, interrotta qua e là dal rapido controgioco degli azzurri. Poi, l’equilibrio si ruppe: sua maestà Pelé ripetè la prodezza cui nel primo turno solo “la più grande parata di tutti i tempi”, di Gordon Banks, aveva negato il gol. Rivelino da sinistra al volo gira in cross una rimessa laterale di Tostão e la perla nera si issa quasi mezzo metro oltre un saltatore come Burgnich e da lassù schiaccia il pallone inchiodando Albertosi. Una prodezza atletica così descritta da Gianni Brera: «Quando poi si tratta di staccare di testa, o rey dà la strana impressione di essere già appeso all’alto ramo di un mango: e di mollarsi curiosamente in basso anziché salire».

Gli azzurri arrivano presto al pareggio: un malinteso tra Everaldo e i compagni della difesa dà via libera all’irrompere di Boninsegna, che anticipando Riva infila di sinistro Felix fuori dai pali. Al predominio territoriale del Brasile gli azzurri rispondono con saettanti contromanovre che disturbano il gioco auriverde. Il pari all’intervallo sembra foriero di buone prospettive per l’Italia. Alla fine dell’interminabile sosta, però, dagli spogliatoi non compare Rivera. Niente staffetta, niente vittoria.

L’equilibrio dura ancora una ventina di minuti, poi le forze cominciano a mancare agli uomini di Valcareggi e quando il loro scatto si appanna, il Brasile si avventa ad azzannare la preda. Rivelino colpisce la traversa, poi Gerson, al culmine di un triangolo con Jairzinho, infila Albertosi dalla distanza. Dalla panchina azzurra non arriva alcun segnale. È la resa. Punizione di Gerson, schiacciata di testa di Pelé per Jairzinho, che anticipa Albertosi in uscita e insacca. Tre minuti dopo, Valcareggi richiama Bertini per inserire Juliano. Infine Pelé riceve da Jairzinho e smarca sulla destra l’avanzante Carlos Alberto che fucila Albertosi.

A quel punto, già da due minuti Rivera ha fatto il suo ingresso in campo in luogo di Boninsegna: una specie di beffa che dura sei minuti e poi si prolungherà nel tempo come uno dei grandi motivi di discussione dell’intera storia dei Mondiali. Mentre in Italia la gente impreca davanti al televisore, preparando il terreno alle contestazioni che saluteranno il ritorno in Italia di Mandelli e dei giocatori, Pelé alza al cielo la Coppa Rimet, la “Vittoria alata” realizzata da Abel Lafleur che diventa definitivamente brasiliana. La Coppa premia la squadra più forte, una parata di stelle straordinarie cui Pelé, unico di tutti i tempi a vincere tre Mondiali, ha posto il sigillo di una classe infinita.