Milan, feste e matrimoni a Milanello

Nella stagione 1982/83 una parte del centro sportivo venne affittata ad un ristoratore che vi organizzava anche ricevimenti nuziali.

Luglio 1982. Il Milan ripartiva dalla serie B dopo la clamorosa retrocessione arrivata due mesi prima. Il presidente Giuseppe Farina, alla guida della società rossonera dall’inizio di quell’anno, operò un repulisti cedendo tutti i reduci della stella (1978/79) tranne Franco Baresi, promosso capitano a 22 anni. Squadra affidata a Ilario Castagner, classe 1940, allenatore a caccia di riscatto dopo un biennio amaro alla guida della Lazio, con una promozione sfumata d’un soffio e una deludente seconda annata.

Chiamato a ricostruire lo spogliatoio rossonero, il tecnico originario di Vittorio Veneto dovette fare i conti, nei mesi iniziali, con situazioni organizzative a dir poco sorprendenti a causa di alcune scelte del suo presidente. Farina affittò ad un ristoratore la gestione delle attività presenti all’interno del Centro Sportivo di Milanello. L’affittuario ottenne il placet anche per organizzare eventi di qualsiasi tipo – matrimoni compresi – in ogni giorno della settimana, senza avere la minima cura di esigenze e ritmi di una squadra di calcio.

Così, il gruppo guidato da Castagner (allenatore supportato totalmente dal direttore sportivo Silvano Ramaccioni che lo aveva suggerito al presidente per puntare all’immediata risalita in massima serie) fu costretto ad ascoltare la musica e le chiacchiere di feste private, non tralasciando il via vai continuo delle automobili degli invitati alle feste private e ai ricevimenti nuziali.

Ramaccioni e Farina

Alle rimostranze del tecnico e di alcuni dirigenti, tra cui il vicepresidente Gianni Rivera, il titolare del ristorante di Milanello sciorinò il contratto recante la firma del presidente del Milan. Ramaccioni e Castagner non ebbero scelta: protestare con Farina non avendo messo in conto – all’inizio della preparazione precampionato, fase molto delicata della stagione – di dover ascoltare cori inneggianti a sposi e trenini con musica a palla fino a tarda notte. Non certo l’atmosfera ideale per preparare una partita o affinare il programma per arrivare al meglio all’inizio del lungo ed estenuante torneo cadetto.

Pochi giorni dopo le lamentele di Castagner si arrivò ad una mediazione. Un passaggio obbligato. L’esito diede clamorosamente ragione al ristoratore che eccepì l’accordo scritto con Giussy Farina. Che fare, allora, per non compromettere la serenità della squadra senza perdere le entrate nelle casse societarie dall’impresa di ristorazione? Si decise di non fare il ritiro a Milanello.

La squadra, con l’intero staff tecnico, si spostò in un albergo di Milano, il President Hotel di Largo Augusto, ubicato in pieno centro cittadino. Un particolare confermato da Aldo Serena, uno dei giocatori in forza al Milan 1982/83, nel suo libro biografico I miei colpi di testa, scritto con Franco Vanni (Baldini+Castoldi, 2022).

La preparazione estiva del Milan

Andare in albergo fu il modo migliore per allontanarsi dall’atmosfera burrascosa venutasi a creare a Milanello, a base di schiamazzi continui causate da feste e ricevimenti nuziali. Un clima non consono a garantire la giusta serenità ai giocatori. Filippo Galli, che in quella stagione era stato ceduto in prestito al Pescara di Tom Rosati, visse il clima “sui generis” di Milanello al suo rientro in rossonero, nell’annata 1983/84.

“Noi eravamo in ritiro e per problemi finanziari Milanello veniva affittato per i matrimoni. Una scelta voluta dal presidente Farina. Poi abbiamo avuto la fortuna che la proprietà del Milan passasse a Fininvest e Milanello divenne un vero e proprio fiore all’occhiello”.

Laureato in Giurisprudenza all’Università di Palermo, Giuseppe Farina arrivò a Milano con la fama di presidente tra i più in vista del calciomercato, capace di sfilare Paolo Rossi nientemeno che a Boniperti. Tanti mugugni accompagnarono il momento in cui divenne azionista di maggioranza dell’A.C. Milan. Qualcuno parlò addirittura di operazione ideata da Felice Colombo, per rimanere vero padrone del club di via Turati 3, in attesa di completare il periodo di squalifica post calcioscommesse.

Da sx: Jordan, Serena, Castagner e Farina

Farina, abilissimo ad impadronirsi di una delle società più prestigiose del calcio italiano, accettò una situazione con pochi sostenitori nei posti chiave del calcio italiano. Dopo la promozione in serie A, ottenuta al termine di una stagione esaltante, battendo alcuni record della categoria, Farina smantellò parte di quel gruppo, scegliendo di non far valere l’opzione sui tre prestiti dell’Inter, Serena, Pasinato e Canuti. Stesso discorso anche per Joe Jordan, autore di un’annata molto positiva in cui aveva recuperato fiducia e autostima: lo scozzese non venne confermato per far posto all’anglo-giamaicano Luther Blissett, ex Watford.

La migliore stagione sotto la presidenza Farina coincise con il ritorno sulla panchina del Milan di Nils Liedholm (1984/85), con i rossoneri capaci di centrare il quinto posto (che valse un piazzamento in Coppa Uefa) e la finale di Coppa Italia, persa contro la Sampdoria. Dopo il burrascoso epilogo della sua gestione, tra la fine del 1985 e l’inizio ‘86, Giussy Farina affermò:

“Se tornassi indietro, non prenderei più il Milan, un giocattolo troppo complesso per un uomo di campagna come me”.

Nel 2017, intervistato dalla Gazzetta dello Sport, l’ex presidente rossonero dichiarò: “

E’ difficile giudicare gli errori di quel periodo. Oggi mi comporterei diversamente. Non avevo la potenza economica per guidare una società come il Milan. Mi sono fidato di altre persone ma soprattutto sono stato tradito dalla mia grande passione per il calcio, che mi avrebbe fatto prendere anche il Real Madrid se fosse stato in vendita. Perché per me i soldi non contano niente, conta la passione”.

Eppure, malgrado molteplici difficoltà economiche, Farina riuscì a non cedere gli elementi migliori della rosa.

“Berlusconi ha vinto con i giocatori che gli ho lasciato io. Un giorno, a Lugano, incontrai casualmente Paolo Mantovani, presidente della Sampdoria. Mi diede un assegno in bianco per l’ingaggio di Franco Baresi, lo giuro sulla testa dei miei sette figli, dodici nipoti e cinque bisnipoti. Io dissi di no senza pensarci un secondo. Se avessi venduto Baresi, Maldini, Tassotti, Evani e Filippo Galli avrei avuto i soldi per andare avanti ma avrei tradito la mia passione, perché i giocatori bravi non li vendevo. Eravamo tornati in Coppa Uefa e quando Berlusconi diventò proprietario, nel febbraio 1986, la squadra era terza con il Napoli”.