Il Mister dei piccoli

di Andrea Aimar 

Si può essere pionieri del calcio nella provincia italiana di fine Novecento? A giudicare dalla storia di Roberto Urasini, vicentino classe 1942, sì. Non stiamo certo parlando di figure d’avanguardia come Edoardo Bosio, James Richardson Spensley, Herbert Kilpin, ai quali si deve, a cavallo tra Ottocento e Novecento, l’introduzione del calcio rispettivamente a Torino, Genova e Milano. Quello di Roberto è un pionierismo di altro tipo: alla soglia della pensione decide allenare al calcio i bambini (o meglio i ragassi, come la parlata della sua terra natia gli impone) e nel giro di pochi anni mette in piedi un settore giovanile in un paesino del cuneese che ne era sprovvisto.

Gli anni vicentini

Roberto è stato bambino nella Vicenza del dopoguerra, la famiglia aveva bisogno di soldi così si mette da subito al lavoro: fa qualche esperienza da un falegname prima e da un calzolaio poi, ma a lui i piedi interessavano soprattutto per tirare i calci a un pallone. Gioca appena può: nei tornei in parrocchia e nelle prime partite con una squadra vera e propria, l’allora Juventus Bertesinella. A giocare ci andava con «le scarpe della domenica» e per questo, oltre che per un vago e mai accertato «problema ai polmoni», la mamma non voleva per lui il calcio. Roberto però aveva già sviluppato una caratteristica per cui si farà conoscere: la testardaggine. Così quando lo chiamano per fare un provino con il Vicenza, pur di andarci, dichiara falso nome per evitare che la mamma lo scopra in qualche modo.

Il 30 ottobre 1955, allo stadio Romeo Menti di Vicenza c’è Lanerossi Vicenza contro Fiorentina. La squadra di casa è appena salita in serie A, tra le sue fila ci sono tra gli altri i portieroni Sentimenti IV e Luison, Azeglio Vicini, Enrico Motta, Giovan Battista “Giobatta” Zoppelletto, Nero Manzardo e il bomber di quell’anno l’oriundo Francisco Ramón Lojacono. Prima della partita dei grandi giocano i ragazzini, una partitella tra i migliori della provincia per guadagnarsi una possibilità. Tra questi c’è anche Urasini Roberto ma chissà con quale nome di fantasia. Gli prestano un paio di scarpe da calcio, prima di allora chi le aveva mai indossate. Primo tempo da portiere, secondo da centravanti. A 13 anni il nostro, oltre alla già nota testardaggine, aveva sviluppato un fisico da marcantonio. Si fa notare e il Vicenza lo vorrebbe tra i suoi giovani ma serve il consenso della mamma, la quale ovviamente lo nega. Si muove in missione diplomatica anche lo zio ma niente da fare. Così sfuma questa possibilità. Roberto continua a giocare nel tempo libero che il nuovo lavoro da operaio all’Industria Ceramica Vicentina gli lascia. Grazie al fratello Franco a 16 anni ha un’altra possibilità: un provino con la Ronzani di Vicenza, squadra mitica, per lungo tempo la seconda della città con una lunga storia iniziata nel 1947 per volere di alcuni transfughi del Vicenza e conclusasi nel 2000. La partita viene giocata sotto un diluvio universale, le maglie di lana di ordinanza all’epoca diventano pesantissime e le maniche raggiungono lunghezze inenarrabili. Roberto è in porta, in un’uscita per conquistare il pallone si scontra con un avversario e si rompe il braccio. L’avversario era il fratello Franco, partita finita. La mamma aveva ragione, meglio lasciar perdere con i sogni nel calcio giocato. Poi c’è l’obbligo di leva, il lavoro, una famiglia da costruire e per il calcio rimane solo lo spazio di qualche partitella con i compagni di lavoro.

La seconda vita da mister

Passano gli anni e dopo un breve periodo a Milano Roberto viene assunto in un’industria alimentare di pollame a Rivolta d’Adda, provincia di Cremona. E sulle sponde dell’Adda comincia la sua nuova vita calcistica: quella di allenatore. A 37 anni ha la sua prima esperienza di “secondo” con la squadra locale, categoria esordienti. In quegli anni ha anche l’occasione di conoscere e discutere, vedi alla voce testardaggine, con un allenatore di Rivolta allora in forza al Cremona ma che diverrà celebre per una sedia alzata al cielo di Amsterdam: Emiliano Mondonico. Nel 1988, all’età di 46 anni il trasferimento definitivo a Genola, provincia di Cuneo, assunto come dirigente della società cooperativa Cuneo Polli. È qui, dopo un’iniziale esperienza di squadre amatoriali di adulti, decide di dedicarsi esclusivamente ai ragassi. Le cose al lavoro non vanno bene, è in cassa integrazione e a un passo dalla pensione: il tempo e la passione non mancano. Così nel 1996 aiutato da due ragazzi del paese, Matteo e Andrea, inizia ad allenare 11 bambini, di età compresa tra la prima e la quinta elementare. Si ritrovano nella palestra della scuola media, ma dove trovare i soldi dell’affitto? Matteo riunisce i genitori, si fa una colletta e per un anno si può giocare. È così che inizia un’esperienza ventennale che nell’ultima annata ha registrato 50 bambini iscritti.

E negli anni si forgia il Vangelo del calcio giovanile secondo Roberto Urasini.

Primo comandamento: «tutti devono giocare». Dal più forte al più scarso tutti devono potersi divertire, avere la stessa possibilità di stare in campo. I più bravi devono imparare ad aiutare i compagni meno portati. Il calcio giovanile dev’essere educazione alla cooperazione non competizione.

Secondo comandamento: «il calcio è un gioco». Non bisogna pensare di dover sfornare dei piccoli campioni, ma bisogna usare il calcio per insegnare l’importanza del gruppo, dell’impegno, della costanza. L’ignoranza degli allenatori la vedi quando si arrabbiano con i bambini perché hanno perso una partita. «Non esistono vittorie e sconfitte. Esiste solo: ho dato il massimo, non ho dato il massimo».

Terzo comandamento: «tutto l’allenamento si fa con il pallone tra i piedi». Non ha senso far correre i bambini, già corrono a casa. Li devi far giocare con la palla. Si devono divertire.

Quarto comandamento: «non è difficile allenare i ragassi, il difficile è allenare i genitori». È il comandamento più importante. I bambini hanno dei diritti, oltre che dei doveri, anche nel calcio. I genitori devono sapere che dentro il rettangolo di gioco non possono entrare.

Questo personalissimo breviario laico dell’allenatore, Roberto lo ha divulgato senza sosta. Ha interrotto partite se sentiva genitori dire cose che non gli piacevano ai suoi piccoli giocatori. Roberto è fatto così, diretto, senza mediazioni: urla, si scalda, litiga spesso. È la sua idea di calcio, di vita. Oltre l’esperienza c’è stato tanto studio: quando ha iniziato si è fatto recapitare a casa le videocassette degli allenamenti delle giovanili dell’Ajax. Poi ha girato i campi della provincia e della regione per guardare gli altri come facevano. Ha conosciuto e imparato tanto da persone come Silvano Benedetti, Renato Zaccarelli e Antonio Comi che hanno fatto crescere il settore giovanile del Toro. E contro i piccoli granata ha fatto giocare anche le sue squadre, «una volta abbiamo pure vinto», ricorda, «anche se loro giocavano con quelli di un anno in meno», si corregge subito quasi a giustificare.

I modelli e il cuore

A riprova di quanto conti per lui la dimensione umana dell’allenare, l’aspetto educativo, l’imparare a stare insieme agli altri, gli allenatori giovani che preferisce sono Donadoni e Montella perché dice: «sanno costruire rapporti umani con i giocatori, sanno dire bravo e sanno perdonare». «Dico Montella non solo perché è del Milan…», già, Roberto è tifoso rossonero, aveva l’abbonamento del Vicenza ma se eri bambino negli anni ’50 e la tua squadra era in serie B, non potevi che innamorarti del Milan degli svedesi, del trio Gunnar Gren, Gunnar Nordahl, Nils Liedholm. Nonostante la fede calcistica è però un laziale il suo allenatore preferito di sempre: Sven Goran Eriksson. Anche se in questo caso il tecnico svedese ha vinto facile. A Vigo di Fassa nelle Dolomiti Roberto era andato in vacanza proprio nel periodo in cui la Lazio faceva il suo ritiro. Racconta: «Ero lì ai cancelli che guardavo gli allenamenti con la tuta del Genola che indosso sempre, Erikisson si avvicina e mi chiede dove alleno. Io rispondo e mi chiede se voglio entrare con lui in campo. Così posso dire di aver allenato per qualche ora una squadra di serie A».

Se gli chiedi qual è la stata la vittoria più bella, Roberto inizia a raccontarti del primo torneo vinto agli inizi, quando nessuno ci avrebbe scommesso. Poi però s’interrompe, guarda la moglie e mi dice: «no, non è vero». Per lui la vittoria più bella è quando gli ex-bambini lo fermano per strada e gli dicono «grazie» per averli allenati. Il più delle volte fatica a riconoscerli, oltre il metro e cinquanta non gli sono più familiari. Roberto è un uomo che a tratti può sembrare rude ma si emoziona subito se guarda alla parete i riconoscimenti per questi venti anni dedicati al calcio dei piccoli.

Quest’anno non ha una squadra, ha litigato con la società perché le cose secondo lui non sono state fatte nel modo giusto. Ma dice subito che tornerà. I suoi ragassi gli mancano, gli si illuminano gli occhi quando parla di loro e gli ritorna quell’energia di quando da bambino rovinava le «scarpe della domenica», e inseguire un pallone voleva dire far arrabbiare la mamma.