Mondiali 1930: URUGUAY

Le prima edizione della Coppa del Mondo colloca già nel ruolo delle protagoniste le squadre sudamericane che dimostrano di essere la scuola calcistica più evoluta del momento. La finale fra argentini e uruguagi non è che l’esatta ripetizione del duello olimpico di Amsterdam 1928

Montevideo, circa 600.000 abitan­ti all’epoca, aveva preso il nome da una vicina collinetta battez­zata così da Magellano nel 1520. La città era nata due secoli più tardi come cittadella fortificata atta, ad evitare le infiltrazioni portoghesi dal Brasile. Capitale di una nazione di quasi due mi­lioni di abitanti, Montevideo raccoglieva quasi un terzo della popolazione ed era centro com­merciale di notevole importanza continentale dotata com’era di strutture portuali moderne per le industrie che in essa si tro­vavano.

La situazione politica, Jean Campisteguy presidente, era quella di un paese in crisi, dall’economia in larga parte con­dizionata dal «martedì nero» del­la borsa di New York dell’otto­bre del ’29 e con il «socialismo di stato» imposto dal «Caudillo» Battle Ordonez nel 1911 che aveva meritato all’Uruguay l’ap­pellativo di «Svizzera del Sudamerica», incamminato verso il tramonto per la reazione della parte conservatrice del partito «Colorado».

Il «Campeonato Mundial de Futbol» impose una tregua al procedere della crisi e tutto il popolo della «Banda Oriental» diede mano ai preparativi, per dare la migliore imma­gine possibile della propria orga­nizzazione civile. Montevideo disponeva allora di due soli stadi presentabili e li­vello internazionale, ma certa­mente non adeguati ad accoglie­re le decine di migliaia di ap­passionati che avrebbero voluto assistere alle imprese della «ce­leste».

«Prociros» e «Parque Central» erano le canchas di Penarol e Nacional, due fra le massime esponenti societarie di Montevideo e proprio dalla in­sufficienza di questi impianti nac­que l’idea di quello che divenne poi l’Estadio Centenario costrui­to in cinque mesi a ritmo serra­to, con tre turni nelle 24 ore gra­zie a potenti riflettori che rende­vano possibile il lavoro notturno.
Sarà pronto solamente il 18 lu­glio, giorno dell’inaugurazione e del debutto dell’Uruguay, le ul­time rifiniture messe in opera durante la notte precedente, in alcuni punti il cemento ancor fresco era stato graffiato con le più strane scritte: «El Tito ama a la Chonga»… «El Placo es loco» …o interessati vaticini «Uruguay campeon»…

L’arrivo a Montevideo di Jules Rimet

Il «Conte Verde», piroscafo di bandiera italiana, era salpato da Genova per le Americhe con a bordo un mondo eterogeneo di cantanti lirici pedatori, emigran­ti, e borghesi in viaggio di pia­cere. Il contributo europeo al successo della prima Coppa del Mondo era molto limitato nel nu­mero delle Federazioni parteci­panti. Solamente Belgio e Jugo­slavia avevano aderito alla mani­festazione senza tentennamenti.

Lo stesso Jules Rimet aveva impe­gnato il suo prestigio per co­stringere la federazione france­se a partecipare. Riuscì ad alle­stire una delegazione decente strappando permessi a destra e a manca per i giocatori che do­vevano assentarsi dal lavoro al­meno per sessanta giorni. Stes­so problema per la nazionale ru­mena che riuscì a tener fede al­la parola data in occasione del congresso di Barcellona, grazie ai buoni uffici di Magda Lupescu, legata da «affettuosa amici­zia» a Re Carol di Romania, che riuscì con il suo interessa­mento a superare tutte le diffi­coltà del caso. In qualità di gio­catore faceva parte della delega­zione rumena il fratello di Stefan Kovacs, colui che diverrà poi il famosissimo allenatore dell’Ajax di Amsterdam.

Tutto qui l’apporto delle federazioni Euro­pee, Francia e Jugoslavia, Roma­nia e Belgio non rappresentavano certo degnamente il livello del calcio continentale. Le peripezie di Rimet rivolte alla partecipa­zione della nazionale francese, gli impedirono un «tour» diplo­matico nei paesi europei per cer­care di forzare l’agnosticismo con il quale avevano accolto la de­cisione di affidare l’organizzazio­ne all’Uruguay.
L’Austria, la Svizzera, la Cecoslovacchia che van­tavano fortissime rappresentative negarono la loro adesione accam­pando il rifiuto da parte delle so­cietà a pagare gli stipendi ai giocatori selezionati, l’Italia che aveva appena riportato la Coppa Internazionale vincendo a Buda­pest per 5-0, non partecipò alla spedizione con ciò innescando una velocissima polemica con i dirigenti uruguaiani che finirà solamente nel secondo dopoguer­ra.

Le rappresentative della Francia e della Jugoslavia a bordo del Conte Verde

La federazione italiana non chiarì le ragioni della propria de­fezione e malignamente la stampa latino-americana scriverà che l’accaduto era da imputare al ti­more di possibili reazioni al sac­cheggio che le nostre società sta­vano tramando ai danni di quel calcio con la comoda trappola della «doppia nazionalità». L’In­ghilterra era fuori dalla FIFA fin dal congresso di Amsterdam per la solita disputa fra dilettanti­smo e professionismo, e non pre­se nemmeno in considerazione l’eventualità della partecipazione. Gli assenti, come sempre succe­de, ebbero torto, la manifesta­zione riscontrò un grande suc­cesso finanziario e sportivo, ma lasciò l’antipatico strascico della rappresaglia. Alle successive edi­zioni del ’34 e del ’38 la federa­zione uruguaiana ripagò gli or­ganizzatori con la stessa moneta…

A bordo del «Conte Verde» ru­meni, francesi e belgi, (gli slavi navigavano con il «Florida» sal­pato da Marsiglia) viaggiavano in compagnia di Jules Rimet e dei delegati della FIFA. Il Presi­dente teneva nella cassaforte di bordo la Coppa opera dell’orafo francese Abel Lafleur. Il trofeo raffigurava una vittoria alata con le braccia alzate che reggevano una tazza. 1800 grammi d’oro massiccio interamente cesellato, una trentina di cm. d’altezza, l’oggetto d’arte era costato una cifra molto vicina ai cinquanta milioni di oggi. A bordo c’era il grande tenore Chaliaplin, che ri­fiutò di intrattenere i passeggeri per i festeggiamenti del passag­gio dell’Equatore: «Se fossi un ciabattino vorreste forse che suo­lassi le vostre scarpe gratis? E’ la stessa cosa, gratis non canto». I calciatori si allenavano sui pon­ti di bordo spedendo una infini­tà di palloni in mare e importu­nando i passeggeri che impreca­vano irati «contro» quei pazzi che giocavano piuttosto di lavo­rare. Bella gioventù!

Il nuovissimo Stadio Centenario di Montevideo