Mondiali 1950: URUGUAY

Nunca máis, nunca máis...

Ancora oggi, non appena un «torcedor» poggia le terga sulle poltroncine del Maracanà, il flashback di quel 16 luglio 1950, riprende a danzare sul campo di gioco. Per quella fatidica giornata, era stata preparata la più grande manifestazione popolare che la storia di quel paese ricordi: orchestre, gruppi di samba, ballerini vestiti nelle fogge multicolori del carnevale, erano stati convogliati nell’immensa arena. Coriandoli, stelle filanti, fuochi d’artificio petardi, razzi, mortaretti, erano pronti per essere immolati al fischio finale che indubbiamente avrebbe sancito il trionfo del Brasile, «campeão do mundo». Undici vetture di grossa cilindrata, stracolme di fiori e di belle ragazze erano in attesa vicino agli spogliatoi, per accogliere ognuna un eroe della grande conquista; portavano il nome stampato sulla fiancata: Barbos, Danilo, Friaca, Zizinho, Ademir, Chico…

All’ingresso delle squadre sul terreno si scatenò la sarabanda di petardi e razzi multicolori, nella grande arena erano convenute, travolgendo ogni sbarramento, 220.000 persone, record assoluto di presenze ad una partita di calcio, e i sostenitori uruguagi erano una sparuta minoranza, un migliaio in tutto. «Juancito» Lopez aveva sciolto i dubbi della vigilia lasciando piangente negli spogliatoi Ernesto Vidal, che voleva giocare a tutti i costi non ostante un infortunio ne limitasse l’efficienza, in favore di Ruben Moran, un aletta del Cerro, appena diciottenne, chiamato al debutto in un occasione che avrebbe fatto tremare i polsi ad un navigato professionista. Al fischio dell’inglese Reader i brasiliani si avventarono in avanti, quasi sospinti dal tuonare continuo della moltitudine festante.

Gli uruguagi giocavano secondo il vecchio schema metodista che già nella decade del ’20 aveva permesso alla «celeste» di dominare il mondo. Mediani (Gambetta ed Andrade) sulle estreme Friaca e Chico, Tejera affrontava in prima battuta l’avversario in possesso di palla, Matias Gonzales agiva alle spalle dei mediani in seconda battuta, in quella che diverrà con il tempo la funzione del libero, e Obdulio Varela stazionava sulla direttrice centrale, davanti allo sbarramento difensivo, con compiti di interdizione ma sopratutto di rilancio sulle mezze ali Perez e Schiaffino che agivano da raccordo fra la difesa e l’attacco. In avanti, le due estreme Ghiggia e Moran ben aperte sui fianchi e al centro l’ariete Miguez a sfruttare i «cross» e i lunghi rilanci della difesa.

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La rete di Friaca fa esplodere il Maracana

Il Brasile manovrava secondo i dettami della «diagonal», accorgimento tattico scaturito dallo studio del WM inglese. Per osservare al meglio la funzionalità e l’efficacia del «sistema», alcune società brasiliane avevano invitato l’Arsenal di Londra e il Torino a giocare una serie di incontri a San Paolo e Rio. Gli schemi di gioco impiegati dalle due entità europee non era piaciuta ai tecnici brasiliani. Il senso del collettivo e gli schematismi erano stati giudicati come una minaccia al tradizionale individualismo dei giocolieri brasiliani e dal «sistema» si era ricavato qualche insegnamento sulla organizzazione razionale della manovra inserendo la «diagonal» nello schieramento metodista.Pertanto le ali uruguagie erano contrastate a zona da Augusto e Bigode, mentre Juvenal difensore centrale, operava nei pressi del centravanti. La «diagonal» come direttrice di gioco, partiva dal terzino sinistro Bigode, trovava il suo fulcro nel mezzo dello schieramento dove agiva Danilo e terminava in avanti sul prestigioso Zizinho, che registrava il gioco degli attaccanti. Sui fianchi i brasiliani attaccavano con Friaca e Chico e in mezzo operavano Ademir e Jair sulla stessa linea.

Questi schematismi vanno intesi naturalmente con beneficio d’inventario, poiché i brasiliani giostravano secondo gli intendimenti spettacolari della loro scuola, marcando a zona e quindi senza ostruzionismi oppressivi. Ed anche gli uruguagi, più raccolti in spazi ristretti, attenti alla marcatura e all’eventuale raddoppio e sempre pronti a scattare rapidamente in contropiede sfruttando gli ampi spazi che la presunzione brasiliana concedeva, operavano secondo canoni che rispettavano la tecnica, l’eleganza e lo stile della loro tradizione.

Con il Brasile in avanti per tutto il primo tempo a premere per passare in vantaggio, Maspoli fu chiamato ad un solo difficile intervento su Zizinho e dall’altra parte Schiaffino e Moran fallirono due facilissime occasioni e Miguez, colpì i legni con un tiro improvviso da una ventina di metri. Era il segno premonitore della incombente tragedia, ma lasciò indifferenti gli «auriverdi» che sulla spinta dell’entusiasmo provocato dalla rete di Friaca al 48′, realizzata in seguito ad una splendida manovra Zizinho-Jair, con centrata a rientrare, continuarono a porre l’assedio al fortino uruguaiano.

Con gli idoli in vantaggio, s’era scatenata una gazzarra terribile sugli spalti ed in questo frangente si manifestò il coraggio, la fierezza, il nerbo atletico del capitano «celeste» Obdulio Varela, che per nulla intimorito, con l’esempio e la voce, ridiede fiducia ai suoi, spostando in avanti il raggio d’azione, sollecitando gli avanti a rispondere colpo su colpo alle iniziative dei funamboli brasiliani. Gli ampi spazi concessi fruttarono una serie di iniziative pericolose e al 66′ Schiaffino girava in rete una centrata di Ghiggia, precedendo Danilo. E ancora al 79′ Perez, lanciava a perfezione Ghiggia, che vinto il breve duello con Bigode, si avventava in area e da posizione molto angolata batteva imparabilmente Barbosa. Gli ultimi dieci minuti non servirono ad altro che ad allargare il numero dei calci d’angolo in favore degli «auriverdi» e a sottolineare l’angoscia della moltitudine silenziosa, costernata, ammutolita, piangente. Con gli uruguagi vittoriosi era saltato tutto il cerimoniale, Jules Rimet consegnò la statuetta a Varela alla luce delle fotoelettriche, si parlò di suicidi fra i giocatori di casa poi fortunatamente smentiti…