Esplode nell’edizione svedese il calcio brasiliano che presenta un attacco formidabile con giocatori di classe irraggiungibile. C’è anche un ragazzino diciassettenne destinato a diventare «O’ Rey» del football mondiale. Svezia e Francia sono le sorprese, Italia assente per la prima volta
Nella verde Svezia, nel pieno della breve estate nordica, si tenne la VI Coppa del Mondo intitolata a Jules Rimet, e due delle nazioni che vincendola avrebbero potuto chiudere il discorso del primo ciclo della manifestazione, Italia e Uruguay, risultavano assenti all’appello, eliminate nei turni di qualificazione dalla modesta Irlanda del Nord e dal Paraguay.
La civilissima Svezia, dove i contrasti sociali s’erano appianati con l’ascesa al potere delle sinistre del primo ministro Tage Erlander, dove convivevano nella ferrea disciplina di diritti e doveri, monarchia costituzionale ereditaria, iniziativa privata e socialismo democratico al potere, ottenne l’organizzazione della Coppa del Mondo, in virtù della qualifica di paese non allineato e questa scelta in tempo di guerra fredda, favorì la partecipazione al mondiale di 51 Federazioni fra le quali figurava, novità ghiotta, la rappresentativa dell’URSS, recente vincitrice del torneo olimpico di Melbourne ed il Regno britannico, che aveva incrementato la propria influenza nell’ambito della FIFA e partecipava con le quattro Federazioni dell’isola: Inghilterra, Galles, Irlanda del Nord, Scozia. L’influenza inglese s’era fatta sentire in sede di formazione dei gironi eliminatori, quando Stanley Rous era riuscito ad inserire le quattro rappresentative in gruppi diversi, ma l’abile colpo di mano fu anche favorito dalla dea bendata, quando il sorteggio indicò l’oramai eliminato Galles (dalla Cecoslovacchia), quale avversario di Israele, vincitore della zona asiatica.
Nei turni eliminatori l’Italia conobbe la più disastrosa esperienza di tutta la sua storia calcistica. Nonostante l’apparente salute – Fiorentina e Milan s’erano opposte con onore nelle finali della Coppa Campioni, allo strapotere del Real Madrid – il nostro calcio era minacciato alla base da un equivoco tattico che aveva stravolto gli orientamenti dei vivai. Si era introdotta la specializzazione dei ruoli, così uno stopper era in grado di fermare il centravanti con qualsiasi mezzo e se gli si richiedeva un appoggio attendibile, non era in grado di farlo, i centrocampisti dai quali si esigeva la lunga battuta a saltare il centrocampo avversario avevano perduto l’abitudine alla corsa, agli uomini di fondo si preferivano i fini dicitori, che di fronte alle performances atletiche degli avversari sparivano come neve al sole.
La nostra rappresentativa nazionale era chiusa in angusti schematismi e la fantasia, dote essenziale era affidata agli oriundi; a Belfast, il 15 gennaio 1958, nel giorno più nero della nazionale azzurra, la commissione tecnica della quale facevano parte Ferrari, Mocchetti e Biancone, schierò una formazione non omogenea, velleitaria e senza fondamento, con un attacco così formato: Ghiggia, Schiaffino, Pivatelli, Montuori, Da Costa. Non bastarono i grossi nomi a farci guadagnare la qualificazione con l’Irlanda ed oltre all’amarezza per il risultato negativo che aveva messo a nudo la povertà assoluta del nostro calcio, balzò evidente l’incapacità dei reggitori la Federazione ad approntare un programma di fondo coerente alle nostre possibilità.
Anche l’Uruguay attraversava un periodo poco felice e si giocò la qualificazione sul campo di Bogotà, quando non riuscì ad andare oltre il pareggio con la modesta Colombia. Ne approfittò il Paraguay, che aveva colto gli uruguagi privi di Schiaffino e Abbadie, emigrati in Italia e con i grandi del ’54 Andrade, Miguez, Ambrois, Hobherg, ormai avviati sul viale del tramonto.