Mondiali 1962: BRASILE

I rischi del Brasile e il vento dell'est

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La Jugoslavia, rivelazione del torneo. In alto da sinistra: Jerkovic – Radakovic – Markovic – Soskic – Durkovic – V.Popovic. In basso da sinistra: Kovacevic – Sekularac – Galic – Skoblar – Jusufi

Ad Arica l’URSS, detentrice del titolo di Campione d’Europa, batté i tradizionali rivali jugoslavi 2-0, impattò roccambolescamente con la Colombia 4-4, che Adolfo Pedernera aveva portato agli splendori della Coppa del Mondo eliminando inaspettatamente il Perù, e guadagnò il passaggio ai «quarti» nella partita decisiva con l’Uruguay che Juan Lopez, l’antico timoniere del ’50, aveva costruito attorno a Nestor Goncalves e Pedro Rocha.

Assieme ai sovietici accedeva ai «quarti» la Jugoslavia di Sekularac, una grande vedetta di quel mondiale, in procinto di eguagliare nella massima competizione calcistica il miglior piazzamento d tutta la sua stora. Tramontata la generazione dei Beara, Chajkowski, Bobek, Mitic, Vukas che tanti successi aveva dato al calcio jugoslavo pur non riuscendo a centrare l’obiettivo della vittoria Olimpica (finalista ad Helsinki 1952), al torneo di Melbourne Sekularac si segnalava come il nuovo alfiere e poi a Roma gli vennero a far compagnia i Soskic, Jusufi, Galic e Durkovic finalmente laureati dal massimo alloro e li ritroviamo poi tutti assieme al mondiale cileno con i «cannonieri» Jerkovic e il debuttante Skoblar, a dar vita ad una formazione solida, dal gioco fantasioso ed insieme efficace.

Il gruppo tre di Vina del Mar vantava come favorito d’obbligo il Brasile che Aymoré Moreira aveva rilevato dall’indisposto Vicente Feola, quando il «gordo» dopo una breve esperienza al Boca Juniors aveva lasciato la plancia di comando della Commissione tecnica brasiliana. La formazione «auriverde» contava sull’apporto di nove Campioni del Mondo, mancavano all’appello i difensori centrali Bellini, al quale era stato preferito il «santista» Mauro, e Orlando emigrato al Boca e quindi estromesso dal giro della seleçao. Con il Messico il Brasile non faticò ad imporsi: segnarono Zagalo e Pelé, che iscrisse con una prodezza l’unico gol personale di quella Coppa del Mondo. Infatti nella successiva partita con la Cecoslovacchia (0-0) il gioiello brasiliano, logorato dalla fatica e dall’attività stressante cui era sottoposto fin dal ’58, giocava in media una partita ogni tre giorni, accusò un «handicap» piuttosto serio: stiramento all’inguine. Senza una carta decisiva come Pelé, che per altro il «garoto» del Botafogo Amarildo, rimpiazzò abbastanza felicemente, il Brasile corse rischi notevoli nella partita con la Spagna.

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Brasile-Spagna: Amarildo batte Araquistain

Sulla panchina delle «furie rosse» sedeva Helenio Herrera, dimissionario dall’Inter alla quale non aveva saputo regalare lo scudetto, ma fermamente deciso a confermare sulla grande ribalta, le sue doti istrioniche di conduttore di uomini. La Spagna era stata maciullata nell’incontro con la Cecoslovacchia, perduto con il minimo scarto; Rivilla, Segarra e Teija andarono ad rimpin-guare u numero dei fratturati del mondiale cileno, ma H.H. parò la botta. Joaquim Peirò, che poi venne all’Inter, segnò la rete della vittoria sul Messico e l’incontro con il Brasile assumeva l’importanza dello scontro decisivo. Alfredo Di Stefano infortunato, non riuscì a rendersi disponibile, con ciò annullando l’ultima possibilità di apparire almeno negli annali della Coppa del Mondo, H.H. schierò una formazione dalle notevoli possibilità: Araquinstain; Rodri Gracia; Pachin Echevarria Verges; Collar Adelardo Puskas Peirò Gento, affidandosi al «libero» Rodri che operava alle spalle dei terzini impegnati al marcamento, al gioco di rilancio impostato sulla velocità delle due estreme Collar e Gento e alla potenza di tiro di «Pancho» Puskas, che agiva da «boa» al centro del dispositivo d’attacco iberico. In quell’occasione in aggiunta il Brasile denunciò vistosamente il «complesso Pelé»: Gylmar; Dyalma Santos, Mauro, Zozimo, Nilton Santos; Zito Didi; Garrincha Vavà Amarildo Zagalo, sembravano tanti orfani imploranti e sfiduciati per l’assenza del nocchiero dalle qualità taumaturgiche.

I «rossi» operavano in velocità, passarono ben presto con Adelardo e riuscirono a difendere il vantaggio fino al 72′ sfiorando più volte il raddoppio e ingenerando inquietanti sospetti sul cileno Bustamante, che non concesse il rigore per un nettissimo fallo di Nilton Santos e annullò una rete agli spagnoli, dai più ritenuta regolare. Gli «auriverdi» apparivano come i lontanissimi parenti della bella formazione del ’58; la manovra era lenta, involuta, prevedibile e purtuttavia negli ultimi 17′ un soprassalto d’orgoglio di «Mane» Garrincha, che parve ritrovare d’acchito lo scatto e l’ispirazione di Svezia con le sue fughe irrefrenabili sulla fascia destra e la lucidità di Amarildo, che realizzò le due reti decisive valsero ai Campioni in carica il passaggio ai «quarti». Ma sull’esito di quell’incontro si appuntarono gli interrogativi di un arbitraggio discutibile, ci fu chi parlò chiaramente di corruzione, decisamente, il mondiale cileno non fu fortunato per le giacchette nere.

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Ungheria-Inghilterra 2-1: Grocsis e Gerry Hitchens

Con Cile e Germania, Brasile e Cecoslovacchia, URSS e Jugoslavia raggiunsero i «quarti» Ungheria ed Inghilterra, del gruppo quattro di Rancagua. La lietissima novità di quel mondiale, forse l’unica, fu il ritorno della rinnovata compagine magiara a livelli di gioco eccellenti e altamente spettacolari più confacenti alla grande tradizione della scuola budapestina. Nel ’58 a Sandviken, con la vittoria sul Messico per 4-0, s’era chiusa la carriera internazionale di «Nandi» Hidegkuti, al fianco di Lajos Tichy, il nuovo alfiere del calcio ungherese. Dell’ormai antica «squadra d’oro» resisteva in breccia Gyula Grosics, che con le 86 presenze in selezione raggiunse una cifra difficilmente imitabile fra i portieri, dato che il grande Jascin, con una carriera parimenti longeva s’era fermato a 74 mentre il «deputato» Bozsik aveva toccato l’apice delle 100 presenze, un paio di mesi prima del mondiale nell’incontro con l’Uruguay (1-1) al Nepstadion e s’era poi incamminato sulla strada della pensione.

Nuovi talenti s’erano affacciati alla ribalta del calcio magiaro a cominciare dall’elegante Florian Albert, cresciuto nel Ferencvaros e arrivato a 18 anni al battesimo della nazionale (28-6-1959 Ungheria-Svezia 3-2), con Gorocs dell’Ujpest e Tichy dell’Honved s’era creato un trio dalle grandi possibilità spettacolari e quando Solymosi, mediano dell’Ujpest si imponeva nel ruolo che era stato di Bozsik la tifoseria budapestina fu certa di aver ritrovato gli eredi dell’«aranycsapat». In Cile l’Ungheria batté l’Inghilterra (2-1) nell’incontro d’esordio, strapazzò la Bulgaria (6-1) e si fermò sul pareggio (0-0) con l’Argentina conquistando la prima piazza del girone di Rancagua. Pur sconfitti dai magiari gli inglesi guadagnarono l’accesso ai «quarti» con la vittoria sull’Argentina (3-1) e il pareggio con la Bulgaria (0-0) in virtù della migliore differenza reti nei confronti dei «portenhi» che erano guidati da Juan Carlos Lorenzo.