1970: Quando perdemmo le… staffette

La straordinaria avventura azzurra a Messico 70. Il secondo posto alle spalle del Brasile è un ottimo risultato, però l’Italia si spacca in due: riveriani e mazzoliani scendono in piazza per contestare Valcareggi e l’intero staff azzurro.


PROLOGO

«Che succede? C’è un altro sciopero, un corteo in aeroporto?» s’informa spaventato un turista americano nel salone arrivi di Fiumicino. E il poliziotto risponde: «Ma no, sono i tifosi del calcio. Rientra la Nazionale dal Messico e loro contestano i vicecampioni del mondo». «Incredibile» si meraviglia lo straniero. E non ha torto. I calciofili italiani dovrebbero esultare per il secondo posto conquistato da una Nazionale che era partita ponendosi il modesto traguardo della qualificazione ai quarti di finale, mai raggiunto nel dopoguerra.
E invece sono qui a tentare l’esecuzione sommaria dei dirigenti della squadra azzurra: il ragionier Walter Mandelli e il cavalier Ferruccio Valcareggi.
Accusa? Lesa riverità. Pena? Linciaggio. Sono migliaia i giustizieri del pallone: chi dice cinque, chi dieci, chi addirittura ventimila. Comunque tanti da sopraffare il servizio d’ordine e invadere la pista dell’aeroporto intercontinentale Leonardo da Vinci, in un bailamme isterico che non ha precedenti – né per fortuna avrà seguiti – nella storia in tempo di pace dei trasporti aerei.

VALCAREGGI E MANDELLI

I condannati hanno facce note e nomi ormai celebri. Valcareggi è un triestino trapiantato a Firenze, di fibra forte e carattere mite; ha giocato il calcio a passabile livello, senza diventare un asso, e da allenatore ha fatto piccolo cabotaggio fra Atalanta e Fiorentina; poi ha preferito il meno brillante ma più sicuro stipendio della Federazione e s’è imbucato nel Settore Tecnico di Coverciano. È ingiustamente offensivo Gianni Brera, quando gli dà del cretino scrivendo che «ha la fronte inutilmente spaziosa». Il Valca, non ancora diventato zio Ferruccio, è in realtà un saggio navigatore di lunghissimo corso: va piano, ma lontano. S’è messo come «vice» all’ombra di Fabbri e dopo il disa­stro di Middlesbrough ha accettato la tutela parafulmini di Helenio Herrera, poi è rimasto solo e da solo nel ’68 ha vinto il titolo europeo: primo successo azzurro del dopo guerra. Alla partenza per il Messico vantava l’invidiabile ruolino di 21 partite utili su 22: persa soltanto quella dell’aprile ’68 contro la Bulgaria a Sofia, con Picchi gravemente infortunato. Valcareggi vive in simbiosi calcistica con il nuovo presidente federale Artemio Franchi, suo concittadino in riva d’Arno. E Franchi gli ha consigliato di non muovere obiezioni alla nuova tutela di Mandelli: in caso di folgori sarà questo parafulmini a bruciarsi, salvando i due compari fiorentini.

Più generoso che scaltro, Walter Mandelli smania di tingersi d’azzurro: vuole mettere la sua abilità di organizzatore e politico al servizio della causa. Proprietario di un’importante fonderia a Torino, padre di un figlio velista e di una figlia amazzone, golfista egli stesso, un’esperienza giovanile «di sinistra», Walter Mandelli è – come il funzionario Borgogno – uno dei piemontesi arrivati in Federazione nel biennio di presidenza del giovane Umberto Agnelli, suo amico. Da anni presiede il Settore Tecnico, che dal ’66 ha esteso la sua competenza alle squadre nazionali. Ma solo da qualche mese, con l’Italia campione d’Europa e in lizza per il campionato mondiale, s’è fatto avanti e ha ufficialmente assunto il comando delle operazioni. E lui che tiene le conferenze stampa, con Valcareggi accanto per le domande tecniche in seconda battuta. E forse è lui a teorizzare – come Franchi, ma meno diplomati camente di Franchi – che le vittorie si ottengono non solo con le decisioni tecniche giuste, ma anche con la gestione dei rapporti con la critica, con la squadra, con i dirigenti internazionali e con gli arbitri. I facinorosi della rivolta azzurra di Fiumicino cercano loro due. Quando avvistano la testa canuta di Valcareggi su un pullman, scoppia il finimondo

Facchetti e Valcareggi

Lancio di sassi, finestrini infranti, ululati di sirene sulla pista, l’autobus che sfreccia a tutto gas verso un hangar dove trova rifugio. Il capannone, subito sprangato, viene stretto d’assedio. All’interno, giocatori spaventati, la figlia di Mandelli che piange perché colpita alla testa, ferito l’operatore televisivo Franco Tonini. Poco o nulla si sa di tutto questo, mentre Walter Mandelli – che con un altro troncone dellacomitiva ha raggiunto, protetto a fatica dalle pressanti minacce della folla inferocita, l’edificio del l’aerostazione tiene una conferenza con alcuni azzurri nella sala stampa di Fiumicino.

E imperturbabilmente ar­gomenta: «Non si può negare che, conquistando il secondo posto, siamo andati oltre ogni previsione. E devo confessare che non ci diamo pace per l’occasione perduta». Meno ancora se la danno i tifosi, che la polizia dirada con gli sfolla gente dinanzi all’hangar per far passare un furgone cellulare: dentro, rannicchiato in fondo al cassone, c’è Ferruccio Valcareggi. Con quel poco trionfale trasferimento, il Ct del secondo posto mondiale raggiunge l’hotel Parco dei Principi, ai Parioli, due giorni dopo la finale persa contro il Brasile all’Azteca.

SPEDIZIONE NATA TRA I SOSPETTI

È l’epilogo di una storia, grottesca non meno che misteriosa, cominciata poco più di tre settimane prima in un altro hotel Parco dei Principi, quel lo dell’elegante quartiere di Chapultepec, zona de Las Lomas, a Città del Messico, che la Nazionale italiana ha scelto come quartier generale per qualche tempo condiviso con la Nazionale inglese. Fra giardini, boschetti, bungalow, saloni di ritrovo, il vasto complesso ha anche una grande piscina circolare ed è intorno a questa che, ogni mattina, Mandelli, Valcareggi e gli azzurri ricevono i giornalisti per un’ora di press meeting. Dalle nove alle dieci, non un minuto di più. Poi arriva Aldo Stacchi, commercialista romano presidente della Lega professionisti, si prende Mandelli e se lo porta a giocare a golf. Gigi Riva, autorizzato a svegliarsi a mezzogiorno, è praticamente inavvicinabile.

Di solito se ne sta sulle sue anche Rivera. Ma quella mattina di giovedì 28 maggio il capitano milanista, ancora Golden Boy e non ancora onorevole, sembra particolarmente comunicativo. Si siede sul muretto della vasca, si lascia avvicinare dai primi giornalisti. E parla, parla, parla. «Da quello che ho capito» dice Rivera, «mi vogliono far fuori. Perché non lo so. Qui siamo fuori dal mondo, nessuno ci dice niente, le cose le sappiamo da voi giornalisti. Questioni tattiche? Sapete che non le capisco».

Lo sfogo è torrenziale, non c’è tempo neanche per far domande. «Finora il titolare ero io. Quando sono stato convocato, ho sempre giocato. Non mi pare di avere sbagliato le ultime partite. Comunque, se vogliono togliermi di mezzo sono liberi di farlo. Ma dovrebbero avere il coraggio di dirmelo in faccia. Invece mi pare che si sia adottata la tecnica di far correre le mezze voci e di schierarmi nella formazione delle riserve, in allenamento, per provocarmi. Così reagisco e allora vengo messo fuori per motivi disciplinari. Qui c’è qualcuno a cui non piace la sincerità. Qui c’è qualcuno che se non parla, se non fa conferenze stampa, non serve a niente. Penso addirittura che si stia alimentando un caso Rivera per avere motivi di discussione e per giustificare la propria presenza risolvendo il problema. Sono convinto che, se ci fosse solo Valcareggi alla guida della Nazionale, certe cose non accadrebbero».

Valcareggi nella morsa tra Mazzola e Rivera

Capito che cosa erano capaci di dire i calciatori di una volta? Enrico Ameri porta il registratore al destinatario del messaggio e Mandelli, ascoltato il nastro, risponde impassibile: «No comment». Il capodelegazione Stacchi puntualizza: «Finché non c’è nulla di stampato sui giornali, Rivera non ha commesso infrazioni. Aspettiamo di leggere e decideremo». In realtà si aspettano due arrivi importanti dall’Italia, quelli del presidente federale Artemio Franchi e di Nereo Rocco.
Perché Rivera è esploso a cinque giorni dall’esordio del l’Italia contro la Svezia a Toluca? Basta un’ipotesi di esclusione per spiegare una cosi clamorosa e aggressiva reazione?

Sì, se è Sandro Mazzola a indossare la maglia tolta a Gianni Rivera. I due sono da quattro anni protagonisti e vittime di un’autentica guerra di «religione», che li rende ancora più rivali di quanto dovrebbero. Interisti contro milanisti, offensivisti contro difensivisti, mazzoliani contro riveriani. Due leader, due correnti critiche, due clan schierati muro contro muro. Dopo la disfatta contro la Corea del Nord erano tutti «abatini»; poi, a poco a poco, l’insolente etichetta è rimasta al solo Rivera. Curiosamente, la coppia dei migliori calciatori italiani è una miccia perennemente accesa sotto la panchina del tecnico azzurro. Nonostante la tregua per la conquista dell’Europeo nel ’68, divampano furiose battaglie: come, per esempio, quella della maglia numero 7, che tanto Mazzola quanto Rivera sdegnosamente rifiutano. La crisi di coesi stenza si aggrava alla vigilia del Mondiale messicano, quando Mazzola considera finita la sua missione di centravanti-cannoniere e annuncia la nuova vocazione di rifinitore centrocampista: guarda caso, proprio il ruolo di Rivera.

RIVERA VERSO LA PANCHINA

Valcareggi fa finta di non capire e qualche mese prima del Mondiale lascia intendere che il centravanti per il Messi­co verrà scelto fra Mazzola e Anastasi. Nell’amichevole di Lisbona (brutto gioco e vittoria per 2-1 grazie a due gol di Riva) vengono provati prima uno e poi l’altro. Esito deludente: Mazzola arretra troppo e lascia Riva solo, Anastasi va troppo a sinistra e intralcia Riva. Forse per questo il clan nerazzurro apre la campagna per Mazzola rifinitore, con un’inattesa sortita di Domenghini: «Preferisco Mazzola in quel ruolo. Imprimerebbe più ritmo alla manovra offensiva, come avvenuto nella finale europea. Rivera? Grande giocatore, il migliore in Italia per abilità tecnica. Ma in un Mondiale si richiedono grinta e vigore atletico, i suoi preziosismi sarebbero destinati al naufragio».

È una coltellata in piena regola. Rocco sbigottisce: «Di questo passo, andiamo dritti verso un’altra Corea». Rivera incassa e smorza, illudendosi di poter ancora salvare i rapporti: «Domingo mi ha telefonato in ufficio e mi ha spiegato cosa voleva dire. Gli credo, tutto superato. Sono abituato agli attacchi. Dopo Lisbona molti erano da criticare, io sono stato ovviamente il più criticato». Ma è una vana speranza.

I piani di Valcareggi saltano non solo per la riluttanza di Mazzola a indossare la maglia numero 9, ma anche per l’improvviso forfait di Anastasi, vittima a ventiquattro ore dalla partenza di una torsione del funicolo testicolare che richiede un intervento chirurgico d’urgenza e un mese di riposo. Viene convocato, per telefono, alle cinque di matti­na, Roberto Boninsegna: «Pensavo che fosse uno scherzo, come quello di un mese prima quando mi avevano dato in fuga d’amore con Raffaella Carrà». Mandelli capisce che non può creare un dissidio nell’Inter con l’alternativa Mazzola-Boninsegna. A questo punto Mazzola «deve» passare al ruolo di interno. A Toluca, nel primo provino in altura (metri 2680, tetto del Mondiale), il tandem di punta provato e approvato è Boninsegna-Riva. Così il giramento di palla di Anastasi ha offerto l’alibi per la soluzione: dentro Boninsegna, Mazzola rifinitore come nella finale europea e Rivera fuori.

Rivera intuisce e comincia a mettere le mani avanti: «Non credo di essere andato male. Abbiamo tutti sofferto l’altura. Spero proprio che questi tecnici non si faccia no imporre la formazione da estranei. Abbiamo già perso due Mondiali per interventi di persone estranee». Un polemico riferimento ai maneggi tecnici del ’62 in Cile e ai sospetti medici del ’66 in Inghilterra, i due precedenti «gialli» della storia azzurra. Mazzola sta buono, è già sicuro di aver vinto la battaglia:
«Ho fatto dentro e fuori senza fiatare. Sono tornato riserva anche dopo la finale europea e la qualificazione mondiale contro la Germania Est. Prima me la prendevo, ora non mi scaldo più. Sento dire che ho il 50 per cento di probabilità di andare in campo come rifinitore: mi bastano, credevo di averne di meno. Comunque vi dico che prima o poi un posto da interno lo trovo».

È la guerra. Il mercoledì, sul Campetto del Club Ameri a, Valcareggi schiera Italia A e Italia B. Nella prima l’attacco è: Domenghini, Mazzola, Boninsegna, De Sisti, Riva. Nella seconda i cinque sono: Furino, Rivera, Gori, Juliano, Prati. È chiaro, decisione presa, quasi ufficiale. Il giorno dopo Rivera si siede sul muretto della piscina e spara. Poi va nella sua stanza e comincia a preparare le valige, si sente isolato, mangia da solo, vuole abbandonare la Nazionale e tornarsene in Italia. Almeno così credono di appurare gli inviati speciali sul posto e questo scrivono sui telex – il fax è ancora di là da venire – da spedire in Italia. Ma non è vero.

«Mai mangiato da solo e mai pensato di andare via, di lasciare la Nazionale» puntualizza oggi Rivera. «A che serviva? Ormai, quello che dovevo dire l’avevo detto». Non è vero neppure che lo fermò Rocco, come si è sempre creduto. Né fu convinto da Franchi. Ricorda Rivera: «Rocco mi parlò, sì informò, mi diede qualche consiglio. Ma non doveva fermarmi, perché io non avevo nessuna intenzione di muovermi. E Franchi, quando lo vidi, non andò molto al di là dei soliti convenevoli. Franchi non si sbilanciava mai». Certamente parlò del caso Rivera con Mandelli e Valcareggi, sconsigliando l’adozione dei ventilati provvedimenti di sciplinari. «Lo immagino» dice l’ex milanista, «ma con me non disse una parola in proposito».

FINALMENTE SI GIOCA

L’Italia debutta senza Rivera e batte la Svezia con una ciabattata di Domenghini che passa sotto la pancia del por­tiere: resterà l’unico gol azzurro del gironcino degli ottavi. Massacrato di botte, Riva spiega: «Mi servono i lanci rasoterra». L’allenatore del Cagliari campione d’Italia, Manlio Scopigno, gli darà ragione dopo aver seguito anche il penoso 0-0 della seconda partita, con l’Uruguay a Puebla: «Nel Cagliari, Riva può contare su trenta passaggi a partita; in Nazionale ne riceve appena cinque o sei».

È musica per le orecchie di Rivera, che annusa odor di rivincita. Anche se non gliel’ha promessa Franchi, più sensibile di Mandelli agli umori della piazza, come molti sospettano. Poiché do­po la partita con la Svezia è stato colto da collasso per il gran correre e c’è voluta la bombola dell’ossigeno per ria­nimarlo negli spogliatoi di Toluca, Domenghini viene programmato per due terzi di partita contro l’Uruguay. Si prospetta così l’ipotesi, segretissima ma non troppo, di rimpiazzarlo proprio con Rivera. Tutti hanno l’impressione che il capitano milanista la prenda come un mezzo affronto: usarlo come rimpiazzo di Domingo, all’ala destra. Ma sono matti? Sembra che sia tale lo sdegno, che Rivera si ritrova colpito da un improvviso attacco febbrile: a sostituire Domenghini, nel finale di Puebla, ci va il più modesto Furino. Il sospetto di un malessere diplomatico, se non proprio polemico, è tanto diffuso da sfiorare, come si vedrà, perfino Mandelli.

Ma oggi Rivera giura: «Altro che diplomazia. Stavo male. Ebbi anch’io, come quasi tutti, la diarrea, fui vittima della vendetta di Montezuma. A me toccò alla vigilia della seconda partita, quella con l’Uruguay. Non ricordo se ci fossero progetti per me, ma in ogni caso ero tagliato fuori, non mi reggevo in piedi». La testimonianza chiarisce comunque un punto essenziale. Rivera non era stato male prima dell’inizio del Mondiale, come affermato da coloro che ne giustificavano l’esclusione; ma dopo Italia-Svezia, da cui era stato escluso per scelta tecnica.
Tre giorni dopo, però, Rivera viene «obbligato» a sostituire Domenghini nella terza partita contro Israele a Toluca: vi è costretto dalla folla che lo invoca a gran voce nell’ultimo quarto d’ora dello squallidissimo primo tempo. E una figuraccia per Valcareggi, che nell’intervallo deve chiedere aiuto  sotto la spinta della platea – al campione escluso.

Una fase del match con la Svezia

Ed è una disfatta, anche logica, anche dialettica, per Walter Mandelli, che alla vigilia aveva escluso ogni ipotesi di usare Rivera come sostituto, spiegando (polemica allusione?): «Non possiamo mandare in campo gente che ha avuto la febbre». E allora, che senso aveva mandare in panchina un inabile alla partita? La verità è che Franchi – spaventato dalla completa inefficienza di Riva e timoroso di una brutta piega per la spedizione azzurra – si sta adoperando per rimuovere il caso Rivera; anche per ammorbidire l’asprezza della critica «riveriana» che spara ad alzo zero da Milano con il «Corriere della Sera» di Gino Palumbo e da Roma con il «Corriere dello Sport» di Antonio Ghirelli. Nella ripresa contro gli israeliani Rivera fa qualcosetta, ma nulla di risolutivo.
È ancora 0-0. Col rammarico di vedere annullato un gol di Domenghini per un inesistente fuorigioco, inventato dal guardalinee etiope Torrekegn. È contro costui che Nicolò Carosio si sfoga, chiamando lo «negraccio» e rischiando per questo epiteto razzista di essere licenziato in tronco dalla Rai.

L’episodio fa parte del la piccola antologia di eventi avversi o decisamente drammatici, che per una sfigata congiuntura astrale accompagnano puntualmente ogni campionato del mondo di calcio. L’edizione del ’70 non fa eccezione e, mentre la rassegna va in scena in Messico, nel mondo ne succedono di tutti i colori. Lo stopper inglese Bobby Moore viene arrestato a Bogotà sotto la falsa accusa di furto di un braccialetto di oro e smeraldi, con la complicità – pensate – di sir Bobby Charlton, che gli faceva da palo. Valcareggi rischia di cadere con l’aereo, mentre si trasferisce da Budapest – dove ha spiato la Svezia – a Città del Messico: dopo il decollo dallo scalo di Francoforte prendono fuoco due motori del jumbo, uno fra i primi in servizio. Si spacca lo sport mondiale con il voto del Comitato Olimpico Internazionale, presieduto dall’americano Avery Brundage, che mette al bando il Sudafrica per la pratica dell’apartheid. I piloti di Formula Uno muoiono come mosche: ai primi di giugno Bruce McLaren ci lascia le penne a Goodwood, tre settimane dopo Piers Courage brucia a Zandvoort. Un disastroso terremoto scuote le Ande, causando migliaia di morti in Perù.

Con Israele un anonimo 0-0
Con Israele un anonimo 0-0

NASCE LA STAFFETTA

L’inattesa svolta nella partita con gli israeliani suggerì a Franchi la salomonica idea della «staffetta». Invece che con Domenghini, si poteva ripeterla con Mazzola: un tempo per uno non fa male a nessuno. Un espediente di saggezza spicciola che Mandelli subì in nome della realpolitik: la sua gestione aveva già creato troppa impopolarità. Non ebbe mai un avallo tecnico pienamente convinto da parte di Valcareggi. Ebbe però quel lo fisiologico di Leonardo Vecchiet, un giovane medico friulano trapiantato nelle Marche, a Jesi, che esordiva in azzurro alle spalle di Fino Fini: forse in quelle circostanze era l’avallo che contava di più. Sicché la mossa venne, come si direbbe oggi, istituzionalizzata nella eliminatoria dei quarti di finale col Messico, in programma anch’essa ai quasi 2700 metri di Toluca.

Con Mazzola in campo, squadra contratta e messicani scatenati, il primo tempo finì 1-1: spavento per i padroni di casa in vantaggio e gratitudine per l’autorete di Penha. Insomma, avevano fatto tutto loro. Con Rivera in campo, squadra costretta ad attaccare e messicani sfatti dalla fatica, la ripresa registrò due gol di Riva – i primi del Mondiale – e uno dello stesso Rivera. Italia in semifinale e Rivera in azzurro a furor di popolo. Gianni Brera, acceso anti-riveriano, rivelerà onestamente: «La partecipazione dei tifosi è tale che si organizzano minacciosi caroselli di macchine intorno a casa mia e al mio giornale». E aggiungerà che uno dei più violenti telegrammi di dissenso e protesta pervenutigli da parte dei riveriani reca la firma del garbatissimo attore Giorgio Albertazzi.

Con Rivera, nella ripresa l’Italia schianta il Messico

Ma che cosa è successo dietro le quinte? Sentendo oggi Mazzola, si ha l’impressione che il vero padre della staffetta sia stato Montezuma. O meglio: il fantasma del giovane imperatore azteco che si vendica dei conquistadores, imponendo una inesorabile e indimenticabile diarrea agli europei che mettono piede in Messico. «Me la beccai» racconta Sandro «giusto alla vigilia della partita col Messico. La notte prima non riuscii a chiudere occhio, perché la passai tutta seduto sul cesso. Il mattino Valcareggi, informato dal medico, mi chiamò da parte e mi disse: avev mo già deciso di sostituire te o Boninsegna dopo il primo tempo, perché con l’altura di Toluca si spende tanta energia. Ma visto che sei conciato così, se te la senti vai in campo e fai solo un tempo. D’accordo, d’accordo, signor Valcareggi, risposi, e non ci fu bisogno di dire altro».

Va tuttavia osservato che, anche se la colite impose che fosse Mazzola l’escluso contro il Messico, il criterio di dimezzare l’impiego di qualche giocatore particolarmente sollecitato era stato comunque stabilito. Senza la notte in bianco, Valcareggi avrebbe dovuto prendersi la responsabilità di scegliere fra lui, Boninsegna e forse qualcun altro. Ma in ogni caso uno sarebbe uscito per fare posto a Rivera. Con questo racconto finalmente si spiega perché Mazzola si incavola tanto quando lo sostituiscono alla fine del primo tempo della semifinale con la Germania all’Azteca, con gli azzurri in vantaggio per il gol realizzato da Boninsegna all’avvio.

Di quella memorabile partita -ricordata con una targa al l’Azteca ed esaltata dai tecnici di tutto il mondo, tranne che da qualche talentuoso critico nostrano — s’è tanto detto da non esservi più misteri da approfondire. Per gli appassionati della materia non hanno segreti il pareggio al 90′ di Schnellinger, l’altalena di gol nei supplementari, la storditezza di Rivera e Albertosi nel subire il 3-3 di Müller, la luci da freddezza di Rivera nel toc care il gol del 4-3 decisivo. Il giallo del «caso staffetta» semmai si incupisce con quello che dice e fa Mazzola, quando le luci si spengono nell’immenso stadio della capitale messicana. Ricordo di averlo inseguito al Parco dei Principi e di aver saputo che voleva mangiare da solo, anche lui, ma l’avevano raggiunto a tenergli compagnia Burgnich e Vieri, suoi abituali vicini di mensa.

E rileggo le sue parole sul vecchio taccuino: «Si sapeva che doveva entrare Rivera nel secondo tempo, ma non era deciso che dovessi uscire io. In mattinata Valcareggi ha parlato con Boninsegna e con me, avvertendoci che uno di noi due sarebbe uscito. Non so perché sia toccato a me. Mi dispiace, ma non protesto».
Qualcuno, forse Valcareggi, fu meno chiaro di quanto avrebbe dovuto. Mazzola era evidentemente convinto che la staffetta con Rivera nella partita dei quarti col Messico era occasionalmente dipesa dalle sue menomate condizioni fisiche. Il bis avvenuto nella sfida di semifinale con la Germania dimostrava che invece era una formula fissa: era lui e lui soltanto a doversi spartire la partita col rivale.

Il trionfo contro la Germania Ovest

E questo nessuno glielo aveva detto. Insomma i dirigenti della Nazionale, dopo aver dato prova di pavidità nel tentativo di escludere dal Mondiale un divo come Rivera senza un minimo di avvertimento e spiegazione, con fermavano adesso la loro vocazione all’equivoco nell’imporre il dimezzamento dell’impiego a Mazzola senza un’esplicita e chiara comunicazione. Tutto il «caso staffetta» fu il trionfo dell’ambiguità e dell’insicurezza. Un cedimento dopo l’altro. Lo sgradito ruolo di centravanti fu risparmiato a Mazzola solo quando, toltosi di mezzo Anastasi, venne promosso il cannoniere interista Boninsegna. Mazzola fu preferito all’inizio, perché aveva dalla sua parte tre quarti di squadra: solo Riva, Boninsegna e forse Rosato propendevano per Rivera. Rivera riconquistò metà maglia quando fece casino e mobilitò la stampa contro i tecnici azzurri. Mazzola tornò a evitare la staffetta – nella finale col Brasile – quando, dopo la battaglia coi tedeschi, si ritirò corrucciato e furente come il Pelide Achille sotto la tenda.

AZZURRI COTTI

Difatti, all’indomani di Italia-Germania Walter Mandelli torna a uscire dal riserbo in cui s’è rifugiato per qualche giorno e, con una punta di compiacimento, annuncia: «In previsione di eventuali supplementari, è probabile che nella finale con i brasiliani Rivera entri nel corso e non all’inizio della ripresa». Naturalmente, quella degli eventuali supple­mentari è una scusa. La verità è che si vuole togliere alla staffetta il suo schematismo istituzionale, per riammantarla di casualità e imprevedibilità: nel corso di una partita accade sempre qualcosa che possa giustificare una sostituzione impensata. È immaginabile che Mazzola non accetti – e forse neanche Rivera – di essere consapevolmente destinato a giocare mezza partita. Corre voce che abbia posto addirittura un aut-aut a Valcareggi.

C’è chi si dice sicuro che Mazzola abbia sibilato al mite tecnico azzurro: o gioco tutti i novanta minuti o non vado neppure in campo. Gliene chiedo conferma e Sandro smentisce con fermezza que sta versione pure accreditata da tanto tempo: «Non è vero. Non ho mai fatto questi discorsi al signor Valcareggi, né ad alcun altro allenatore. Io ero assolutamente sicuro di giocare soltanto metà di quella finale. Tanto che, quando tornai negli spogliatoi dopo il primo tempo, mi sedetti al mio posto sulla panca e cominciai a slacciarmi le scarpette. Mi vide Valcareggi, s’avvicinò e mi disse: ma lei, Mazzola, cosa fa? Mi cambio per la doccia, signor Valcareggi, non ho finito io? Ma no, ma no, gioca ancora. Abbassai la testa e mi riallacciai le scarpe. La frase “o mi fate giocare novanta minuti o è meglio che non mi chiamiate” la dissi due anni dopo a Carraro, e non al Commissario tecnico, quando mi fecero fare la staffetta con Rivera anche in un’amichevole a Torino con la Jugoslavia. Allora m’ero rotto le balle e dissi: decidetevi, o io o lui; a giocare sempre mezza partita non ci divertiamo né io né lui».

Dietro le quinte della scena madre della finale Italia-Brasile c’è soltanto un pugno di uomini stanchi di partite e po­lemiche, «appagati» dal traguardo già strepitoso dell’ammissione in finale e «pagati» con un super-premio senza precedenti nella storia azzurra: venti milioni a testa, una piccola fortuna per quell’epoca (il più caro modello dell’Al­fa Romeo costava due milioni). Ci sono dirigenti e tecnici più stralunati e cotti della squadra. Ci sono giornalisti impelagati in una battaglia polemica senza quartiere, che impegna redazioni e testate. L’Italia è divisa sulla vicenda di Rivera al Mondiale: si organizzano cortei, si tentano assalti ai giornali, si ingorgano centralini e cassette postali con proteste, insulti e fervidi consensi.

Le diatribe sulle tattiche servono, particolare non trascurabile, anche ai buoni affari editoriali. La panchina azzurra, forse giunta a un livello superiore alle sue effettive capacità, le alimenta con una serie di sciocchezze. Alla vigilia Valcareggi propone a Facchetti di trasferirsi a destra, per ché non vuole affidargli la marcatura di Jairzinho: perfino il dolcissimo Giacinto s’impunta e rifiuta. Prima della partita non dice nulla a proposito di eventuali cambi. Afferma oggi Rivera: «Della famosa staffetta non ho mai parlato, in quei giorni, né con Mazzola, né con Valcareggi. Valcareggi comunicava la formazione e noi ne prendevamo atto».

EPILOGO

Durante la partita il Ct non fa il cambio Mazzola-Rivera nell’intervallo, come aveva già avvertito Mandelli. Ma non lo fa neppure quando, al 21′ del la ripresa, Gerson segna il gol del 2-1 e l’Italia, perso per perso, potrebbe tentare un inseguimento. Né lo fa dieci minuti dopo, quando si infortuna Bertini: inserisce Juliano. Sul 3-1, all’84’ e a partita strapersa, Valcareggi manda in campo Rivera: se non è una presa per i fondelli, è per lo meno una mossa follemente inutile. Nel cambio si sfiora la comica. Rivera non è pronto, s’è già slacciato le scarpe perché la partita sta finendo. Mazzola si gira dall’altra parte e non guarda la panchina, ostentan do la propria estraneità all’o­perazione. Vengono fatti cenni a Boninsegna, che esce fa cendo incavolatissimi gesti verso la panchina. È l’unico caso nella storia universale del calcio, in cui una squadra in pesante svantaggio invece di aggiungere cannonieri per tentare il colpo di fortuna, ne toglie uno per rimpiazzarlo con un interno. Valcareggi si giustifica: «Ho rinviato di minuto in minuto l’inserimento di Rivera perché avevo non solo Bertini con un leggero stiramento inguinale, ma anche Cera che stava male. Se anticipavo il secondo cambio, rischiavamo di restare in dieci».

Ma nessuno gli dà ascolto. Tutto il mondo sbigottisce e critica la gestione tecnica della squadra azzurra: da Pelé a L’Equipe, da Fulvio Bernardini all’onorevole Carlo Felici, che presenta un’interrogazione alla Camera per sapere «se le decisioni dei tecnici azzurri siano state condizionate da contrasti insorti fra giocatori e dirigenti della Nazionale».
Incredibile: siamo campioni d’Europa e vice campioni del mondo, eppure siamo riusciti a far diventare egualmente drammatico il Mondiale. Mentre gli azzurri volano verso casa, si prepara l’invasione e la sassaiola di Fiumicino. Anche il tifo ha la sua escalation: se un’eliminazione negli ottavi per mano dei nord-coreani vale un lancio di pomodori, per bocciare dei vicecampioni mondiali battuti dal Brasile di Pelé ci vuole qualcosa di più serio. Sui giornali cominciano le prime investigazioni per scoprire che cosa ci sia sotto lo sconcertante ancorché felice pasticcio della trasferta messica na. Ma forse, più che la lente d’ingrandimento di Maigret, ci vorrebbero un paio di borse da ghiaccio antidelirio.

Gianni De Felice

L’avventura messicana
03.06.70 (16.00) Toluca, Estadio La Bombonera
ITALIA – SVEZIA 1-0
Reti: 1:0 Domenghini (11)
Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti (c), Cera, Niccolai (38 Rosato), Bertini, Domenghini, Mazzola, Boninsegna, De Sisti, Riva
Svezia: Hellstrom, Nordqvist (c), Grip, Svensson, Axelsson, B. Larsson (79 Nicklasson), Grahn, Eriksson (56 Ejderstedt), Kindvall, Cronqvist, Olsson
Arbitro: Taylor (Inghilterra)
06.06.70 (16.00) Puebla, Estadio Cuauhtemoc
URUGUAY – ITALIA 0-0
Reti: –
Uruguay: Mazurkiewicz, Ubina (c), Mujica, Montero-Castillo, Ancheta, Matosas, Cubilla, Esparrago, Maneiro, Cortes, Bareno (71 Zubia)
Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti (c), Cera, Rosato, Bertini, Domenghini (46 Furino), Mazzola, Boninsegna, De Sisti, Riva
Arbitro: Glockner (Germania Est)
11.06.70 (16.00) Toluca, Estadio, La Bomboneras
ITALIA – ISRAELE 0-0
Reti: –
Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti (c), Cera, Rosato, Bertini, Domenghini (46 Rivera), Mazzola, Boninsegna, De Sisti, Riva
Israele: Vissoker, Rosen, Bello, Primo, Bar, Schwager, Rosenthal, Shum, Spiegler (c), Spiegel, Faygenbaum (46 Rom)
Arbitro: De Moraes (Brasile)
14.06.70 (12.00) Toluca, Estadio, La Bombonera
ITALIA – MESSICO 4-1
Reti: 0:1 Gonzalez (13), 1:1 Pena aut.. (26), 2:1 Riva (64), 3:1 Rivera (69), 3:1 Riva (76)
Italia: Albertosi, Burgnich, Cera, Rosato, Facchetti (c), Bertini, Mazzola (46 Rivera), De Sisti, Domenghini (85 Gori), Boninsegna, Riva
Messico: Calderon, Vantolra, Pena (c), Guzman, Perez, Gonzalez (68 Borja), Pulido, Munguia (60 Diaz), Valdivia, Fragoso, Padilla
Arbitro: Scheurer (Svizzera)
17.06.70 (16.00) Guadalajara, Estadio Jalisco
ITALIA – GERMANIA OVEST 4-3
Reti: 1:0 Boninsegna (7), 1:1 Schnellinger (90), 1:2 Muller (95), 2:2 Burgnich (98), 3:2 Riva (104), 3:3 Muller (110), 4:3 Rivera (111)
Italia: Albertosi, Cera, Burgnich, Bertini, Rosato (94 Poletti), Facchetti (c), Domenghini, Mazzola (46 Rivera), De Sisti, Boninsegna, Riva
Germania Ovest: Maier, Schnellinger, Vogts, Patzke (66 Held), Schulz, Beckenbauer, Overath, Seeler (c), Grabowski, Muller, Lohr (52 Libuda)
Arbitro: Yamasaki (Messico)
21.06.70 (12.00) Mexico City, Estadio Azteca
BRASILE – ITALIA 4-1
Reti: 1:0 Pele (18), 1:1 Boninsegna (37), 2:1 Gerson (66), 3:1 Jairzinho (71), 4:1 Carlos Alberto (87)
Brasile:Felix, Carlos Alberto (c), Brito, Piazza, Everaldo, Clodoaldo, Gerson, Jairzinho, Tostao, Pele, Rivelino
Italia: Albertosi, Burgnich, Cera, Bertini (75 Juliano), Rosato, Facchetti (c), Domenghini, De Sisti, Mazzola, Boninsegna (84 Rivera), Riva
Arbitro: Glockner (Germania Est)